Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2018 “Ulisse” di Anna Sambo

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018

Arrivò Natale, coi balocchi e tutto il resto.
Sofia guardò l’albero e i regali senza meraviglia. Le lucine intermittenti accentuavano le occhiaie viola, inopportune sul viso di bambina turgido e roseo come si deve.
Dalla sua solitudine, osservava la mamma distratta apparecchiare la tavola, odiando lo stupido grembiulino con la renna ammiccante.
«Sofia, vieni», le disse la donna, indicando la sedia vicino al nonno.
«Ora i regali!», cinguettò ancora, dopo una cena troppo salata, e un panettone troppo pieno di canditi.
«Questo è per il nonno, daglielo tu, Sofia», e il nonno trafficò con dita incerte prima di estrarre dal sacchetto blu la sciarpa di lana, quest’anno marrone.
Papà intanto leggeva le istruzioni del cellulare fiammante, gli serviva, aveva detto.
Mamma scartò il suo pacchettino con un largo sorriso, cantando “Jingle bells” e si lanciò ad abbracciare papà subito dopo aver aperto la scatola che conteneva l’orologio dei suoi desideri.
«Tocca a te, Sofia», le disse, «apri i tuoi pacchi».
Odiava quel momento, non c’era mai quello che voleva davvero. Anche quest’anno sarebbe stato così, ne era certa.
Cosa voleva? Veramente non lo sapeva nemmeno lei. Le bambole la annoiavano quasi subito, i giochi da tavolo la costringevano a ricambiare l’allegria della madre e a rimanere ferma mentre i piedi scalciavano da soli, e i vestiti erano belli solo per un po’, finchè qualcuno le chiedeva se erano nuovi, poi non lo erano più.
Poco prima delle vacanze aveva desiderato qualcosa, ma la mamma non le aveva dato retta: «No, Sofia», aveva detto, «topi in casa mia non ne vengono!», e l’aveva lasciata davanti alla vetrina.
Aveva salutato le bestioline facendo ciao con la manina.
Ecco però la meraviglia! Un pacco inconfondibile stava arrivando tra le braccia di papà, aveva dei buchini per l’aria e Sofia si illuminò, per un breve momento.
«La mamma ha fatto tutto di nascosto, è stata brava, vero?», le disse l’uomo avvicinandosi con passo leggero.
Più tardi si trovò finalmente sola con i suoi nuovi amici. Appoggiò la gabbia sulla scrivania, a fianco del letto, e sollevò il panno scuro.
Quattro occhietti curiosi la fissarono per un attimo. Appartenevano a due criceti gemelli.
«Ti chiamerò Penelope», disse Sofia alla femmina beige, «invece tu sei Ulisse, ovviamente», disse al maschio completamente bianco.
I due criceti non sembravano troppo interessati al suo naso né tantomeno alle sue ciglia lunghe che contornavano due occhi spaventosamente grandi. Ulisse, però, non ebbe paura e si avvicinò di più alla bocca della bambina, e si lasciò accarezzare dall’alito caldo che accompagnava le parole.
Ulisse non conosceva ancora il linguaggio degli umani, ma l’avrebbe imparato, si ripromise, mentre Penelope, ignara, correva sulle zampette come una forsennata, alla ricerca di un riparo che non c’era.
«Ora vi spiego», disse Sofia, e solo il maschietto rimase fermo ad ascoltare.
«Io vi addomesticherò», affermò la bambina in tono solenne. «Cioè creeremo dei legami», aggiunse, «come insegnò la volpe al piccolo principe».
Ulisse provò a capire ma non ci riuscì, però era bello lasciarsi soffiare addosso quel vento tiepido e la voce era melodiosa, perciò si rilassò e si addormentò.
Sofia coprì la gabbia con il panno nero.

Passarono giorni e altri giorni e Sofia prese l’abitudine di trascorrere del tempo parlando con i suoi criceti, sempre alla stessa ora. Era importante per creare un rituale riconoscibile, per godere dell’attesa.
In quei giorni Ulisse aveva mangiato tanto, Penelope molto meno. E aveva giocato ancora di più, anche Penelope, ma si stancava subito. Lui proprio non la sopportava Penelope, non capiva come facesse a stare sempre a dormire, persino di notte, nonostante la meravigliosa ruota colorata che invitava a correre a perdifiato.
Poi, quando Sofia apriva la gabbia, lui si avvicinava alla mano della bambina e gli piaceva farsi accarezzare e raccontare cose che cominciava a capire. Penelope no: l’antipatica si nascondeva dietro la ruota, dove la manina della bambina non poteva arrivare. “Peggio per te”, diceva a suo modo Ulisse, “non saprai mai quanto è bello annusare il suo profumo e mangiucchiare i prelibati bocconcini che la mia amica mi offre!”

Arrivò il giorno in cui Penelope non si mosse più. Ulisse la guardava con occhi improvvisamente grandi, provò a sospingere il corpicino con il musetto, ma lei rimase immobile. Ci riprovò innumerevoli volte ma si stancò così tanto che dovette arrendersi: Penelope non si sarebbe svegliata mai più.
Non gli dispiaceva troppo, non era mai stata una grande compagnia. Ma nella sua testa di topolino non sapeva spiegare il motivo di tutto quel sonno.
«Penelope è morta», disse Sofia alla sera, e arrivò anche la mamma a vedere, e la portò via.
La bambina prese Ulisse, quella sera, e lo strofinò con più forza del solito contro la guancia morbida.
«Tu non devi morire, hai capito?»
“Sì”, rispose Ulisse a suo modo.
Quella notte, però, mentre correva sulla ruota, cominciò a ripetere la parola “morire morire morire morire”, e continuò fino al mattino. Se morire significava dormire per sempre e non vedere più Sofia, lui di certo non sarebbe morto.
Come poteva desiderare di “morire” se stava così bene nella sua comoda gabbia? La sua bambina, poi, gli raccontava sempre di una volpe che voleva bene a un principe e di un principe che amava una rosa che lo faceva soffrire; prima o poi sarebbe riuscito a capire il senso di quei racconti, perciò non poteva proprio “morire”.
Sofia continuò a giocare con il criceto tutte le sere ed ogni volta che lo rimetteva nella gabbia ripeteva la stessa preghiera: «Non morire, eh?»
Fu proprio quella frase a causargli le prime ansie. Certo, non voleva morire, ma… Se fosse morto anche senza volerlo? Forse nemmeno Penelope aveva deciso di morire, ma era successo. E se fosse successo anche a lui?
Voleva scacciare quei brutti pensieri ma non ci riusciva. Durante le corse notturne si ritrovava puntualmente a ripetere il suo mantra: “morire morire morire morire”, fino al mattino, quando cadeva esausto e si arrendeva al sonno.
Sofia lo coccolava puntualmente, gli portava i suoi bocconcini preferiti e lo teneva per la coda, senza fargli male, mentre lui fingeva di voler scappare: era tutto così meraviglioso!
Se fosse morto la mamma lo avrebbe preso proprio per la coda e lo avrebbe fatto sparire, non sapeva dove, come aveva fatto con Penelope. E la sua bambina? Avrebbe pianto? Per Penelope non aveva pianto, ma forse per lui sì.
Ulisse non trovava più pace: beveva l’acqua dalla vaschetta e ripeteva “morire”, chiudeva gli occhi per addormentarsi ma sentiva “morire” e li riapriva subito, si avvicinava alla pallina gialla che Sofia gli aveva regalato, ma “morire” era l’unica parola che oramai occupava il suo cervellino non più spensierato. Non riusciva proprio a vivere così!
Nonostante avesse un cervello piccolo, Ulisse cominciò a riflettere. Capì che pensare di non poter vivere in quel modo equivaleva ad ammettere di desiderare di morire. Si meravigliò della sua stessa intelligenza, ma si arrese anche all’assurdità di ciò che gli stava passando per la testa.
Sofia non si accorse mai di nulla. Il suo criceto era in buona salute, vivace, allegro, perciò, pur continuando a salutarlo tutte le sere con la stessa raccomandazione, non ci pensava più veramente alla morte.
Per Ulisse, invece, era iniziato un calvario: l’ossessione della morte si era trasformata in paura.
Aveva paura di addormentarsi e di non svegliarsi più, aveva paura di correre perché si era accorto che il suo cuoricino batteva troppo forte, aveva paura anche di mangiare perché un bocconcino sarebbe potuto andargli di traverso facendolo soffocare. La sua piccola vita era fatta di poche cose ma tutte, pensava Ulisse, estremamente pericolose. Persino la mano della sua bambina era ormai diventata una minaccia perché, si sa, i bambini sono distratti, e basta un niente per lasciarlo cadere e poi magari schiacciarlo sotto un piede.
Fu così che, per paura di morire, Ulisse cominciò una nuova vita. Mangiava poco, dormiva poco, si muoveva poco, giocava poco, e quando la sua bambina arrivava a prenderlo, si ritraeva come non aveva mai fatto.
Una sera parlarono.
«Se vuoi morire, muori», disse Sofia guardando il criceto ormai ridotto all’osso, senza sorridere.
“Non è colpa mia”, si difese Ulisse.
«Sì, che lo è. Sei tu che non vuoi mangiare, né giocare, né correre sulla tua ruota. Se non mangi muori»
“Ti giuro: non voglio morire, proprio no”
«Non è vero, è colpa tua», insistette la bambina, «il veterinario ha detto che non sei malato»
“Non sono malato, infatti”
«E allora perché vuoi morire?»
“Ti ho detto che proprio non voglio morire!”, continuò Ulisse, “Ho paura di morire, invece. Per questo non mangio: per non soffocare. E non gioco, per non stancare il mio piccolo cuore. E non ti aspetto più perché ho paura che mi faccia cadere”
«Allora non vuoi morire ma è come se fossi già morto», sentenziò Sofia.
Ma Ulisse ormai non l’ascoltava più perché era debole e non riusciva a sostenere una lunga conversazione.
Sofia si asciugò la lacrima con la mano e il criceto non la vide.

Arrivò il giorno in cui Ulisse non si mosse più perché era morto.
Nella camera di Sofia scesero nuvole nere che oscurarono ogni cosa, persino le stelle fosforescenti appese al soffitto che riuscivano a rischiarare le notti più scure.
Sofia rimase nel buio senza stelle, si crogiolò nella mancanza di luce per molte ore, immobile sul suo lettino, a guardare il nero.
Poi, con movimenti lenti, si alzò e chiamò la mamma.
Ulisse venne gettato chissà dove e Sofia prese la gabbia, aprì la finestra e la gettò in giardino, in un punto lontano che non volle vedere.

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6 commenti »

  1. Ho rivissuto una esperienza simile. Avevo regalato per Natale due cricetini ai miei figli e il dolore per la loro morte ci accompagna ancora. Un racconto che mi ha suscitato ricordi ed emozioni. Grazie

  2. Molto brava Anna. un condensato di tematiche di grande spessore in un breve racconto così semplice e chiaro da poter essere comprensibile a tutti. Ottimo lavoro sicuramente!

  3. Ringrazio di cuore Laura ed Anna che si sono dedicate alla lettura del mio racconto. Sono felice che vi sia piaciuto e che vi abbia suscitato delle emozioni. Grazie mille per i commenti!

  4. Un racconto che pone in “seconda” lettura molti interrogativi. Un rapporto familiare nel quale si affaccia una certa incomunicabilità, ognuno preso dai propri giochi e del quale la bambina avverte una certa insoddisfazione. I nomi dei due criceti sono significativi Penelope (la mamma?) che tesse la sua tela quotidiana e Ulisse ( il padre?) preso dalle nuove tecnologie, viaggio in altri mondi. Sofia prova a creare con i suoi due compagni di stanza un dialogo senza chiedersi i veri perché. Brava

  5. Brava Anna! Il tuo racconto fa capire che l’amore non deve diventare ossessione altrimenti si rischia di perderlo, come é successo alla piccola Sofia. Sono partita dalla fine per ritornare al tuo inizio con l’attualissimo tema del Natale ormai alle porte: così difficile indovinare il regalo giusto! Ma comunque rispettiamo le tradizioni soprattutto in presenza di bambini! Complimenti e buon Natale!

  6. Ulisse specchio delle paure umane, la paura di morire che ti porta a farlo… Geniale la storia tramite cui tratti questo delicato argomento, attualissimo in un mondo che ci propone ansie continuamente! Brava!

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