Premio Racconti nella Rete 2010 “La vipera con gli occhiali” di Nicola Testa
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010– Crichichiiii!, Crichichiiii!
Delle atmosfere ruspanti di un’aia di cascina la suoneria non ha proprio nulla.
Domenico, con la testa affogata nel cuscino, solleva un braccio a cercare la sorgente del rumore molesto, un mini disco volante nero che sembra essergli atterrato sul comodino durante la notte.
Al terzo tentativo riesce a premere il pulsante di spegnimento. Ancora un po’ sotto le coperte, pensa. Si può concedere il lusso di un buon quarto d’ora a poltrire, in attesa che la vita riprenda a scorrergli nelle vene quel tanto che basterà a riprenderne il filo.
Si sente come se avesse un tombino a opprimergli la parte inferiore del corpo, gli occhi che solo un attimo prima si muovevano freneticamente nella fase più profonda del sonno gli fanno male, ha un principio di mal di testa, le palpebre bloccate dalle incrostazioni di cispa e un dolorino pulsante sul lato destro del collo.
Piega il capo dalla parte opposta tenendo occhi socchiusi per riprendere il sogno interrotto, di cui non ricorda nulla se non che ne aveva già fatto uno simile recentemente, che si era fermato più o meno nello stesso punto.
Quando tira su la testa di soprassalto, tre quarti d’ora dopo, potrebbero essere trascorsi cinque minuti o una settimana, non ne ha la più pallida idea.
Premendo l’altro pulsante della sveglia si fa dire l’ora dalla signorina che condivide il disco di plastica con il gallo.
– Sono le ore… otto… e… diciassette… minuti.
Attraversato da una leggera sensazione di nausea, Domenico maledice il fatto che le giornate non possano mai cominciare con una buona notizia, tipo la lezione è stata spostata di un’ora avanti o viene il docente direttamente a casa a consegnare le dispense o ancora presentatevi nella segreteria del dipartimento per la firma dei libretti.
Mai.
Mai un cestino di fragole o pesche profumate.
Piuttosto una bottiglietta spray con il tappo di plastica trasparente incrostato da accumuli di schiuma rappresa e una bolla di latte che sfrigolando si incolla al piano del gas.
Alza il coperchio del cubo luce e comincia lentamente a muoversi. Premendo la massa formicolante contro il materasso si sforza di concentrarsi su un’immagine.
Quanto sarebbe bello a questo punto ricordare la dolce incombenza per cui è necessario precipitarsi fuori di casa!
Allora balzerebbe in piedi, con gesto coordinato libererebbe dai fermi gli scuri della porta a vetri che prenderebbero a divaricarsi lentamente, mentre lui con perfetto sincronismo spalancherebbe le tende giusto in tempo per lasciare libertà alle ante.
Tlatlatlac farebbero gli anelli di legno del bastone sopra la sua testa, accatastandosi con un suono caldo di nacchere, mentre gli scuri, senza un lamento, si adagerebbero docili lungo le spallette della porta.
Poi si infilerebbe le pantofole con la stessa eleganza…
A questo punto Domenico si rende conto che le ciabatte per la manovra dovrebbero trovarsi di fronte alla porta e con la punta rivolta al letto, cosa impossibile a meno che uno le avesse messe in quella posizione la sera prima.
Si riserva di ritornare su questo punto più tardi.
Dà per assodato di essersi infilato le ciabatte, tira a sé la porta a vetri che separa la camera dal tinello e la blocca spostando con il piede il fermaporta.
Più che di un fermaporta si tratta in effetti di un parallelepipedo grande quanto uno di quei grossi mattoni grigi che al corso di architettura tecnica chiamano blocchi traforati in calcestruzzo vibrocompresso e i muratori maneggiano in cortile indicandoli come mulùn, ma leggero, fatto tipo di cartone all’interno (di struttura alveolare parlerebbero nel corso) e ricoperto da una pelliccia sintetica marrone, come di castorino morto di spavento.
È lo stesso materiale che ricopre il comodino e il catafalco che occupa la parete opposta alla porta finestra, la cui funzione non gli è mai stata chiara, a parte quella di formare un trio con il comodino e il fermaporta tale che la signorina dell’agenzia, presentando l’immobile, potesse parlare con soddisfazione di arredamento coordinato della stanza da letto. Al corso di scienza delle costruzioni, dopo averlo definito un portale, comincerebbero a gravarlo di carichi concentrati e distribuiti e a vestirlo di diagrammi di sforzo normale, taglio e momento flettente.
Ma, tornando alla pelliccia, ora che Domenico ci pensa, anche la moquette è più o meno dello stesso materiale. Almeno il colore è lo stesso, forse però i peli sono più corti e così non prendono quel movimento a vortici che caratterizza il rivestimento degli elementi d’arredo.
O forse è solo che la moquette, a forza di calpestarla, si è consumata e i peli si sono accorciati.
Di sicuro non è questione da dirimere a quest’ora del mattino con gli occhi appiccicati e un mal di testa che è divenuto certezza.
Domenico è ora a distanza sufficiente dagli oggetti che lo circondano per poter mettere a fuoco il sogno interrotto che – ricorda – si stava svolgendo nella casa dei nonni in campagna, ma i nonni erano ancora vivi e la casa non era esattamente quella perché sul retro c’era un rudere di pietra, con una torre circolare da cui faceva capolino di tanto in tanto una vipera con la lingua biforcuta che spingeva avanti a saggiare l’aria.
Una vipera parlante con gli occhialini sul naso (se si può parlare di naso per una vipera) come Paperon de’ Paperoni (e se si può dire gli occhialini sul naso come Paperon de’ Paperoni, visto che nemmeno i paperi ce l’hanno, il naso).
Una vipera che, tutte le volte che sembra stia per dire qualcosa, spreme gli occhietti (ciechi? E se sono ciechi, perché fa così?), annaspa, sputa e poi vergognosa si infila in un varco nel muro e non la vedi più, ed è inutile incalzarla e chiederle di ripetere, che non si mostrerà più.
Non sentendo bene e chiedendo spiegazioni e non ottenendone e già sapendo che anche la prossima volta sarà probabilmente lo stesso, Domenico cade addormentato.
Si ridesta dopo una buona mezz’ora.
Dando uno sguardo sghembo al quadrato bianco dai contorni indefiniti al fondo del letto, valuta che l’intervallo di tempo trascorso (il delta t, si sarebbe detto a fisica1) non è stato smisurato e ciò gli basta. Salterà l’esercitazione e seguirà la lezione seguente.
Si infila le ciabatte e dirige verso il tinello, rischiando di battere una zuccata contro il vetro opaco della porta.
Si aspettava che fosse aperta, non l’aveva accostata al muro solo un’ora prima?
Spalancandola si convince di aver visto la scena in sogno.
Nel momento in cui scavalca lo scalino per entrare in bagno si chiede come mai viceversa le ante della porta finestra siano aperte. In teoria aveva aperto in sogno anche quelle.
Richiudendo la porta del bagno dopo aver acceso la stufetta elettrica, cerca di ricordare da quale lato del letto sia sceso poco prima.
Destra, come sempre, e le ciabatte erano al loro posto.
Torna in camera, si siede sul letto e comincia a sfilarsi il pigiama.
Chiude il cubo luce rimasto inutilmente acceso e trova finalmente il coraggio di leggere l’ora sul display del disco che gli fa da sveglia.
A metà mattinata, dopo un cappuccino e un cornetto al bar in facoltà, gli verrà in mente che, rimanendo insoluto il mistero di chi abbia aperto le ante della porta a vetri (si ricorda con certezza di averle accostate la sera prima, mentre osservava la luna riflettersi sul tetto piano dell’hotel di fronte), alzandosi dal letto, prima di trasecolare per il fatto che la porta fosse chiusa, avrebbe dovuto stupirsi che le ciabatte fossero di fianco al letto, sul lato destro, perché anche quelle nel sogno erano in un’altra posizione.
Spintonando nel marasma all’ingresso della lezione delle dieci e mezza, si chiederà se non sia perché, essendo sceso dal letto dal lato destro e non dal sinistro, il confronto tra sogno e realtà è cominciato dal primo punto di convergenza (o dal punto di tangenza delle due traiettorie, sempre se fosse fisica1).
Quando il professore entrerà nell’aula, scrivendo la data sul block notes tornerà a domandarsi chi cavolo abbia mai aperto le benedette ante, escludendo dalla lista i nonni redivivi e la vipera con gli occhiali, che ora lo fissa stranita. E se lo fissa allora gli occhietti non erano ciechi e per questo li strabuzzava e portava gli occhiali.
Una gomitata tra le costole menata dalla sua sinistra lo costringe a trattenere il respiro.
Il professore lo sta osservando con malevolenza da sopra gli occhialini. Un po’ come faceva la vipera, ma senza strizzare gli occhi.
Domenico tira una doppia riga sotto la data e comincia a prendere appunti.
Davanti a lui due lavagne polverose sono già state intasate di formule. Tutto intorno, un brusio avvolgente.
Ironico e ben scritto. Mi è piaciuto!
E’ un racconto simpatico. Complimenti. Si potevano forse ampliare i riferimenti scientifici contenuti nel racconto, non relegandoli in una breve parentesi, ma rendendoli più narrativi. Ciao.