Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2018 “Il teatro da batte” di Tullio Bugari

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018

Eravamo all’inizio degli anni Sessanta ma nel nostro quartiere nessuno sapeva che erano favolosi, tranne noi ragazzini di otto o dieci anni, tutto il giorno in strada a rincorrerci. Quando eravamo più stanchi, o il sole picchiava forte, ci rifugiavamo all’ombra di un vecchio muro, che in quel tratto lungo il marciapiedi formava una nicchia, a mezzo metro di altezza, e lasciava in basso un muretto lungo un paio di metri, come un sedile.

Di viandanti in cerca di riposo ne passavano pochi. Non era nemmeno un quartiere ma soltanto un’appendice del vicino Prato, o Prado in dialetto.

In città il nostro crocicchio lo chiamavano Le Cave. Una zona stretta tra un fosso e due antichi vallati, dove fino al dopoguerra avevano estratto la breccia da impastare con il cemento, per costruire le case. Eravamo una enclave tra la città e la campagna che ci lambiva, racchiusi in un centinaio di metri, un nugolo di ragazzini e famiglie di lavoranti a domicilio o muratori a giornata. Anche operai ma pochi, della Sima o delle altre fabbrichette sparse tra i caseggiati. In direzione della ferrovia si vedeva alta – si scorge ancora oggi – la torre della fabbrica Guerri, ma già a quei tempi non ci lavorava più quasi nessuno.

Io abitavo nella strada all’angolo, che formava il crocicchio con quella del muretto. Di fronte casa nostra c’era un’osteria dove a pranzo si fermava qualche muratore che al cartoccio portato da casa aggiungeva un po’ di pastasciutta e mezzo litro di vino.

Forse è per questo che qualcuno la nostra via Imbriani preferiva chiamarla Viaimbriachi.

All’ora giusta il profumo del sugo saliva fino alle finestre di casa. Che fosse l’ora giusta lo ricordava la sirena della Sima, appena fuori del nostro crocicchio, sotto le antiche mura della città.

Sulla stessa via, a sinistra di casa nostra, c’era la fabbrica del sapone, ma da qui, di tanto in tanto, ci rivoltava una puzza tremenda.

Sullo stesso lato dell’osteria, a destra e dopo l’incrocio, c’era il calzolaio, con la bottega in uno stanzino al primo piano. La porta in cima alle scale era sempre aperta e lui stava seduto volgendo le spalle a chi arrivava, gli piaceva guardare dalla finestra, che teneva sempre aperta per smaltire l’aria oleosa di creme e mastici. Ti parlava tenendo in bocca i chiodi che poi batteva uno a uno sulla suola con un martelletto nero piccolo e ricurvo.

Noi, giocando in strada, lo sentivamo battere come la macchina da scrivere di uno scrittore, ma forse nessuno di noi l’aveva mai vista davvero una macchina da scrivere.

Nella stessa strada del muretto c’era il lattaio, una novità. Fino a poco tempo prima mia madre al mattino mi mandava dal contadino dietro l’angolo della nostra strada, perché la campagna arrivava lì. A quell’ora aveva già munto le mongane e con un mestolo mi riempiva il tegame che usavamo per bollire il latte, e che al posto del coperchio aveva una specie grata dai buchi larghi, che serviva a non far schizzare fuori la panna quando bolliva. Poi, insieme al progresso arrivò il lattaio. All’inizio girava le strade con una moto furgonata, andava lui con i suoi bidoni dai contadini e quindi consegnava il latte nelle case. Lo sentivi suonare al portone sulla strada e gridare dal fondo delle scale: “Lattarolooo…..”

Vi erano molte persone caratteristiche in quel crocicchio di strade, ciascuna con un soprannome. C’era Verzellì, onomatopeico, simile al verso di quell’uccellino leggero e dal canto incerto, come imbriaco.

C’era l’ambulante che ogni mattina cercava un aiuto per spingere e mettere in moto la sua Topolino furgonata, carica di pantofole per il mercato. O l’altro ambulante, ancora più al verde, invalido e senza un braccio, forse vittima di guerra, che al mercato ci andava a piedi, si fermava a metà di via degli Orefici, a fianco del Palazzo della Signoria, e come bancone usava mettere a terra un ombrello aperto riempito di capi d’aglio. Mi faceva tenerezza già allora, a quella mia età innocente.

Poi c’eravamo noi ragazzini, padroni dei marciapiedi e con tanti giochi da inventare. Di fronte alla casa del calzolaio c’era una falegnameria. Alla sera, con il buio, scavalcavamo il muro di cinta e io, che avevo già letto il libro durante una di quelle influenze invernali che ti fanno saltare una settimana di scuola, immaginavo di essere nella via Pál. C’era la bottega del carbonaro, e il suo cortile nero ci sembrava una miniera. O il piazzale vuoto di Porta Valle, dove si andava a giocare a pallone o a fare le guerre, sempre contro i ragazzini dell’altro quartiere, ma mi sto distraendo.

Abbandonata, proprio di fronte al sedile del nostro muretto, c’era una Trebbiatrice. Anzi, una Machina da batte. Nemmeno troppo vecchia, e identica a quelle che fino a pochi anni prima avevo visto nelle aie della mia campagna durante la trebbiatura, perché era dalla campagna che io venivo.

Non so perché l’avessero abbandonata lì. Correva voce che fossero state inventate nuove macchine capaci di mietere e trebbiare insieme, non sulle aie ma direttamente nei campi. Non riuscivo a figurarmela. Immaginavo i mietitori increduli sul lato del campo, con la falce in spalla e la lama in alto, come un soldato terrebbe la bandiera, ma senza vento. Attoniti. Con le mani che prudono e qualcuno che come un tic fa pure il gesto di soffiarci sopra, o inumidirle sputandoci, prima di impugnare le manopole sul manico, per falciare. E le aie vuote.

La nostra Machina da batte era rosso arancio, come tutte le altre e come il sole al tramonto, e noi ci salivamo ed entravamo dentro e ci affacciavamo dalla bocca davanti, da dove un tempo era uscita la paglia. Era il nostro rifugio, l’innocente carro armato dei giochi di guerra, il mulino a vento amico di Don Chisciotte.

Certe volte diventava un teatro, e il muretto era la platea dove i ragazzini sedevano.

Eravamo in due ad alternarci come attori, improvvisando monologhi o duetti, scambiandoci il ruolo di spalla o aiutati da qualche comparsa scelta tra il pubblico, rispettando i turni per accontentare tutti. Ci nascondevamo dietro la macchina, in mezzo alla strada, per concordare un canovaccio, e poi entravamo in scena. Erano brevi macchiette, mimi improvvisati, battute, smorfie, gag infantili: «Autunno, cadono le foglie: aia, cascano pure i rami».

Genere comico, doppi sensi, «facce ride» chiedeva il pubblico. Durò un anno o due, tra terza e quarta elementare, poi finì all’improvviso. Il pubblico cresceva, il sedile a volte non bastava per tutti, e altri attori si proponevano, o imitavano. Alcuni ragazzi della via parallela vollero fare di più, imitando però i primi varietà in voga alla televisione. E scelsero un altro posto, nelle cantine delle case popolari della loro via. La platea era ricavata sulla rampa delle scale e la scena tra i lavatoi e il corridoio delle cantine.

Buio e umido, nessuna Machina da batte sotto il sole, il nostro teatro greco.

Non si trebbiava più sull’aia. Al Teatro da batte recitavamo all’impronta, un facile canovaccio e s’improvvisava, come gli amici che tornano a casa dopo il lavoro e si scambiano battute. Qui al lavatoio avevano scritto un copione da mandare a memoria, e preparato pure i costumi, con vestiti sgraffignati a casa.

Non mi avevano detto nulla. Si pagava addirittura un biglietto. Mi ritrovai incredulo sullo scalino più in alto. Perfino il pubblico doveva recitare di fare il pubblico e battere le mani a tempo. Avevano preparato numeri seri e altri che pretendevano fossero comici, e non finivano mai.

Invidia la mia?

Così dissero.

Da quel giorno la nostra Machina da batte restò da sola a dissolversi sotto le intemperie, e il lavatoio non so che fine abbia fatto.

Quando mi capita oggi di passare per quella strada sempre senza traffico, ancora riesco a immaginarlo il nostro Teatro da batte rosso come il sole al tramonto, anche se non c’è più nemmeno il vecchio muro, sostituito da un altro allineato alle pareti delle case, piatto, senza muretto per sedere e senza storie: «Uno torna a casa e inciampa per le scale: ahó, e questa da dove salta fuori? Di sicuro non dall’osteria come te.»

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1 commento »

  1. Un racconto che ti immerge nella magia dei ricordi di un mondo sparito come “le lucciole” pasoliniane. Bravo sei riuscito, in queste poche, righe a narrare la capacità del ragazzo di rapportarsi al suo vissuto con consapevolezza del “contesto” e con la voglia attraverso la finzione del teatro di trasformare una semplice macchina in disuso in strumento di creatività e di ironia.

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