Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2018 “Dove finisce il mondo” di Ilaria Palomba

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018

Roberta esce di casa. Una porta che sbatte. I raggi del sole attraverso i rami. Passi concitati. Un silenzio greve si infila nel corpo, fino in fondo. Detesta l’EUR, ancora si domanda per quale motivo sia lì che la sua vita debba essere relegata. Stamattina si è alzata tardi. Ha attaccato l’orecchio alla porta della cucina mentre Alessandro e Marika facevano colazione. Sentiva il rumore di tutta la ferraglia che Marika portava addosso, sulle braccia e in viso. Alessandro le aveva chiesto se volesse essere accompagnata a scuola e Marika l’aveva guardato, con occhi spalancati e labbra torte in una smorfia di diniego.
Roberta avrebbe dovuto essere a letto con la febbre ma in verità non c’era nessuna febbre. Lo sa anche ora mentre mette un piede avanti all’altro sul lastricato, per raggiungere il laghetto. Ha un dolore nei muscoli, fino al midollo, come se le ossa potessero sgretolarsi e caderle via a ogni sussulto.

Io ho sempre cercato di parlare con lei ma sembra non voglia sentire nulla e nessuno.
Alessandro chiude la telefonata, cerca di mettere ordine nei fogli sulla scrivania, uno sull’altro in un arroccamento di carta. Il capo si avvicina.
Abbiamo pensato di aprire una filiale, e mi piacerebbe te ne occupassi tu.
Le orecchie di Alessandro percepiscono la voce ma la mente non trasferisce al cervello l’impulso di tradurla in senso. Avverte invece una fitta all’altezza dello sterno, come se qualcosa si stesse infilando poco per volta nella sua cassa toracica e scavasse, scavasse.

Marika gioca con il piercing che ha tra le labbra, torce la bocca in modo da sembrare quasi storpia. Smanetta con il cellulare. Ci vediamo alle nove dietro le colonne. Una sua amica le aveva detto che il mondo finisse proprio lì, tra quelle colonne, che una volta lì non ci sarebbe stato modo di tornare indietro.
Marika incontra il ragazzo con il cappuccio e i suoi amici. Allunga la mano verso il ragazzo e lui guarda nelle mani di lei, tra i suoi anelli di plastica e bracciali fluorescenti. Lo sguardo è una radiografia.
Sono venti, più i venti dell’altro giorno, quaranta.
Ti ho detto che non posso pagarti questa settimana, devi aspettare un attimo. Gli altri, dietro il ragazzo con il cappuccio, ridono di lui. Il ragazzo con il cappuccio si guarda le spalle mordendosi il labbro.
Allora niente.
Ti prego, cazzo!
Tu mi porti i soldi e io ti do quello che ti serve, senza soldi, bella mia, non si fa niente. A meno che…
A meno che?
Il ragazzo con il cappuccio inspira l’odore di Marika e a lei sembra che qualcosa coli via dal corpo, si sciolga, lentamente.

Roberta passa davanti all’obelisco, a un pochi metri da loro, ma non vede nulla, solo, quel dolore aumenta e i muscoli li sente tesi, attraversati da tubi d’acciaio. Guarda il cielo ossianico pregno di nubi e si immagina ancora a letto con la febbre. Non ricorda quando tutto questo sia iniziato, l’unica cosa che ricorda sono le parole di sua figlia: mi fai pena, le aveva detto Marika. Gliel’aveva detto mentre Roberta lavava i piatti. Un piatto le era scivolato di mano e si era spaccato sul lavandino, rompendosi in due. Il sangue caldo era zampillato fuori dall’incavo tra l’indice e il pollice. Marika non l’aveva aiutata. Aveva chiuso la porta della cucina per non sentire e Roberta era caduta ginocchia a terra. Ricorda di aver pensato ad Alessandro, al modo in cui lui si sarebbe preso cura di lei se fosse stato lì. Ma lui non era lì. Non c’era mai. Il freddo del pavimento si era infilato nelle ginocchia, aveva attraversato i muscoli, le ossa, fino al midollo. Un lampo di luce bianca aveva spezzato la penombra dell’ambiente. Per un attimo Roberta aveva avvertito una leggerezza assoluta nel corpo e si era illusa che il sangue l’avrebbe liberata dal pensiero. Ma nulla, non era cambiato nulla, non c’era nulla che potesse liberarla. Si era rialzata e aveva messo la mano sotto l’acqua fredda. Tenendosi alle pareti come un’alcolizzata, aveva raggiunto il bagno. Le pareti diventavano disegni di cartone, si sgretolavano. Roberta aveva versato il disinfettante verde sulla ferita. Aveva sentito dei singhiozzi dalla stanza di sua figlia. Bruciava. Aveva fasciato la mano con della garza sterile e poi si era avvicinata alla stanza, mettendo l’orecchio sulla porta. Il freddo era entrato in lei. Non l’aveva lasciata. Quella notte aveva detto a tutti di avere la febbre, non aveva cenato e aveva chiesto al marito di non svegliarla il giorno seguente.

Il capo continua a parlare e parlare e parlare. Alessandro non è più in grado di sentire. Si alza lentamente, con la mano sul petto. L’altro parla, parla e straparla, solo in un secondo momento si rende conto che Alessandro non è più seduto di fronte a lui. Se ne accorge dopo aver fissato per un po’ l’incavo della poltrona.
Dove vai?
Alessandro teme che il cuore possa fermarsi. Gli torna in mente sua madre, quando faceva i solitari e poi sua figlia Marika, da piccola, con le dita nella bolla di vetro, che cercava di acchiappare il pesce rosso.
Scusami, torno subito.
Ti senti bene?
Un dolore muscolare.
La voce è bassa, rauca, cupa. Viene dal fondo di una caverna.
L’uomo fissa il dipendente scivolare da una stanza all’altra, caracollare, sospirare, aggrapparsi alle pareti.

Marika comincia a tremare. Si sforza di sorridere. Il ragazzo con il cappuccio le mette le mani sulla lampo. Strisciano nella lana. Il rumore della lampo che si abbassa è il ronzio di una vespa. Da bambina si era allontanata dai genitori in pineta. Aveva seguito un rumore. L’aveva seguito fino a infilare le mani nella terra, tra gli aghi di pino. Il dolore si era fatto largo dal centro del palmo fino alle ginocchia. Non era un ago di pino. Da allora quel rumore le fa paura. Il rumore in generale, qualunque rumore non codificato, le serra lo stomaco. Vorrebbe smettere di tremare ma non può. Adesso ha trenta dita sulla pelle. Marika ha la sensazione che insieme alla lampo, il ragazzo col cappuccio le abbia aperto anche la pelle. Gli altri non sono altri. Sono sempre lui. Gli appartengono, tentacoli. Quelle mani le accarezzano la spina dorsale, strofinano i seni, si intrufolano tra le gambe. Quelle mani tumide e sporche. Marika vorrebbe solo fuggire.
Ho bisogno di farmi, sussurra.
Succhiamelo.
Il ragazzo con il cappuccio si sbottona i pantaloni. Sono sei. Sei bottoni. Marika sente pungere la pelle, come quella volta da piccola, per ogni bottone sganciato una puntura di vespa.

Roberta martella l’asfalto. Quando arriva al laghetto ci si specchia e non si trova. Pensa di essersi persa di notte, nel letto, l’ultima volta che ha allungato una mano verso Alessandro. Roberta guarda in lontananza l’appartamento, sente la pelle assorbire l’aria, una spugna. Tutto il corpo sente l’arrivo della tempesta. Non è certa di voler sapere.

Alessandro arriva in bagno e si accascia sul pavimento. Per un attimo gli torna in mente la voce della donna che ha sentito al telefono. Possiamo vederci anche oggi. Ha la sensazione che la voce gli arrivi in vena, veleno. Dall’altra parte della porta bussano a martellate.
Alessandro, stai bene?
Non risponde. Il dolore si allevia poco per volta. Alessandro stringe il cellulare tra le mani. Sono sudate, le mani, come non avesse fatto altro che sfregarle per ore. Sul display cerca il nome della donna, scrive.
Subito. Voglio vederti subito.
Dall’altra parte bussano, bussano forte. Alessandro esce dal bagno con il volto terreo. Il capo gli mette una mano sulla spalla.
Vuoi che chiami un medico?
Ho solo bisogno di riposare.
Il capo ingoia. Certo, dice. Cammina. Alessandro ascolta il rumore dei passi verso la stanza. Li conta. Otto. Sono otto. Il capo torna con un foglio.
Riposa. Domani voglio vederti in forma.
Alessandro perde lo sguardo tra i vetri della finestra. Da qui può vedere il suo appartamento. L’ha preso un anno fa. S’immagina già dentro l’appartamento e dentro di lei.

Chiudi gli occhi e tira fuori la lingua.
Marika obbedisce. Le vespe hanno assalito il corpo, la pelle, la carne. Sulla sua lingua il peso del cazzo gonfio di un semi sconosciuto. Marika non sente altro che vespe, nella pelle. Le vespe pungono le vesti fino a dilaniarle. S’infilano ovunque, nel naso, nelle orecchie, in bocca, nella fica, nel culo. Sono ovunque e le fanno il derma a puntini e non può liberarsene, in alcun modo, non può sfuggirgli. Il suo odore cola via e diventa sangue.

Roberta affonda i piedi nel prato e poi nell’asfalto. Attraversa il parco. La strada ha mille occhi, tutti la fissano. Roberta ha la febbre. Una febbre immaginaria le sgretola le ossa, fino al midollo. Adesso è proprio lì sotto. Accanto agli uffici, dietro il palazzo dei congressi. Il grigio dei palazzi si specchia nel grigio degli occhi. Il grigio cinereo della strada nel grigio cinereo del cielo. Una fotografia in bianco e nero. Una fotografia scattata da un’altra vita.

Alessandro conta uno per uno i gradini che separano la porta dell’ufficio dall’uscita, sono sessanta. Alessandro odia prendere l’ascensore. Anche da piccolo l’odiava. Una volta c’era rimasto incastrato dentro per mezz’ora. L’ascensore di casa dei suoi aveva le pareti rosse, faceva un gran caldo e le pareti sembrava trasudassero. Il respiro gli si bloccò ed ebbe la stessa sensazione di poco fa in ufficio, una sensazione tattile, qualcosa che s’infila nella cassa toracica e strappa.

Marika guarda in cielo mentre l’odore di sperma si spande sulla pelle. Marika guarda tutti i puntini nel cielo, vespe, tante vespe. Non sente la pacca sul culo, non sente il dolore al retto, non sente neanche i capelli scarmigliati, tirati via e strappati. L’unica cosa che sente è il ronzio, un ronzio sempre più intenso e la macchia del suo odore, lì a terra. Nero. Fuliggine. Catrame.
Il ragazzo con il cappuccio si riabbottona i pantaloni. E anche gli altri due. Il ragazzo con il cappuccio le dà una bustina di polvere scura, marrone, tra le mani e gliele guarda, le mani, l’antica ferita tra i palmi.

Roberta ascolta il suono di passi familiari. Non vuole voltarsi. Vorrebbe non essere mai venuta. Vorrebbe sotterrare la testa sotto la terra come faceva da piccola nel cuscino quando non voleva andare a scuola. Alessandro è dietro di lei, lo sente. Lo sente nella carne, le sta spezzando le ossa, una per una, macellaio.
Roberta non si volta. Alessandro guarda. Non parla. Le passa avanti come non fosse nessuno. Roberta sente un dolore bianco nel corpo e le sembra di cadere, di sprofondare senza tregua in un buco che non conosce fondo.
Cammina verso casa. Si rompe. È una vecchia bambola torturata da mani sadiche. Si rompe a ogni passo. Fino a crollare sul letto, nella stessa posizione di ieri notte. Il suono di un batticarne picchiato da un coltello. È atroce. Le esplode dentro.

Alessandro l’ha vista. Non l’ha vista. L’ha sentita. Non ha avuto il coraggio di fermarsi. Ora è nell’appartamento. Le mani nel corpo morbido di un’altra. Le mani in quella donna. Le labbra baciano le dita dei suoi piedi. Le mani della donna afferrano i suoi capelli. Entra in lei e si sporca del suo odore. Si sporca le membra. Avverte un brivido lungo la gamba destra. La donna gli mette una mano sul petto e lui lo sa, quella mano andrà sempre più in profondità, sempre più in profondità, fino a strappare.
Le mani sul culo di lei e se lo sbatte addosso, fino a schizzare. Pensa a sua figlia. La donna geme. Alessandro vede gli occhi di sua figlia lucidi e vuoti.

Marika s’infila l’ago nel braccio, preme lo stantuffo. Il silenzio è tattile. Il cielo è un lago. Marika scivola via, insieme al suo odore. E sa che da adesso non potrà più trovarsi.

 

 

© ilaria palomba

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6 commenti »

  1. Intrico di vite parallele e divergenti, narrato con uso sapiente della parola scritta e parlata. Storia di sensazioni più che di sentimenti. Immagini forti e spietate da anime sull’ orlo di un abisso quotidiano. Complimenti Ilaria sai scrive molto bene e unire il filo di tre anime con leggera maestria.
    Resta il desiderio di continuare a leggere, di cercare il senso irrisolto di queste esistenze.

  2. Spiazzante… Soprattutto perché si parla di persone comuni.. Di una famiglia come tante.

  3. Grazie Gianluca e Anna per questi bei commenti!

  4. Roberta, Alessandro, Marika tre esistenze fra quattro mura, chiamate famiglia. Dei tre personaggi, solo Roberta non cerca l’evasione ma si tormenta in modo molto tradizionale della sconfitta ( è forse per questo suo atteggiamento passivo che Marika gli dimostra disprezzo?) La famiglia, è diventata ormai di “cartone” e mentre la evasione di Alessandro è anch’essa tipica,i un’altra donna, quella di Marika passa attraverso il percorso della droga ed il suo crudo linguaggio. Brava

  5. Molto bello Ilaria. Ci vuole ricchezza espressiva per descrivere in questo modo tre vite collegate ma lontanissime, e trasmettere così efficacemente la loro angoscia. La tua scrittura rapida e aspra definisce con chiarezza tre esistenze mentre sbattono contro i vetri della vita alla ricerca di una via d’uscita che non trovano. Brava. Un racconto che merita.

  6. Ilaria, immagini forti e spietate (come ha detto Gianluca) sapientemente gestite da una scrittura “sincopata” come ogni gesto e azione delle vite descritte. Brava.

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