Premio Racconti nella Rete 2018 “Colpo di fulmine” di Luca Gorrone
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018Lo sguardo sulla tazzina di caffè insegue ancora la coda del treno.
Seduto sul bordo della sedia nell’angolo più lontano del bar della stazione, sono talmente infuriato che non riesco a ricordare come e quando mi sono sistemato quaggiù: i tipi da tavolino mi sono sempre stati freddamente antipatici.
Forse avevo deciso che mi meritavo un caffè da seduto, perché Manitù, dio ripudiato e depresso delle rotaie e dei cavalli di ferro, non conosce pietà.
Mi sa, però, che è più probabile che sia stato l’inverno, con i suoi tre gradi sopra lo zero, e il semplice fatto che il prossimo treno verso casa arriverà tra quasi un’ora.
Spengo il cellulare, prima che esali l’ultimo residuo di carica, e assaggio un sorso del mio caffè.
So per certo che me lo sono portato dal bancone e che non mi piacerà.
I caffè delle stazioni hanno tutti lo stesso sapore di ferro e rabbia incrostata da pendolare, un miscuglio di inutili strepiti e suonerie assordanti, di duelli per la discesa e la salita, di invidie per un posto a sedere, di treni in ritardo, oppure in orario crudelmente perfetto, come oggi.
Dal bordo della tazzina osservo gli altri viaggiatori che riempiono il mormorio e gli odori del locale, seduti da soli o a piccoli stormi.
È facile notare tra loro i tipi da tavolino: li riconosci da come hanno distribuito valige e cappotti sulle sedie, in modo da formare una specie di palizzata, il limite dichiarato e invalicabile del proprio territorio e possesso.
Sento premere sulle caviglie la vecchia borsa posata in terra e do un’occhiataccia alle spalliere delle mie due uniche sedie, vuote, che si affacciano oltre il bordo del tavolo: il mio steccato fa veramente pena.
Sto pensando di alzarmi e andare a finirmi il caffè al banco, quando entra lei.
Lei.
Ci sono bellezze destinate a fermare l’aria.
Non il tempo: l’aria.
Un sospiro, e il vapore del caffè mi appanna gli occhiali, facendomi accorgere che la sto fissando senza ritegno: non saprei nemmeno dire da quanto, forse qualche minuto o solo da un attimo.
Distolgo subito lo sguardo, imbarazzato, ma con gli occhi ancora pieni di quell’immagine apparsa sulla porta del locale.
Se fossi un pittore, potrei già disegnarla, con ogni dettaglio.
Sfrutto la vista laterale per seguire i loro movimenti attraverso il bar.
Senza alcuna esitazione si sistemano a due tavolini di distanza dal mio, anche loro lontani dalla folla del bancone.
Registro distrattamente l’efficienza con cui qualcuno di loro recupera altre sedie dai tavoli vicini per costruire il proprio recinto, per poi andare alla cassa ad ordinare per tutti.
Sono, inesorabilmente, tipi da tavolino e, da come sono vestiti, vengono dal nord Europa.
Una distanza incolmabile di spazio e stili di vita.
Parlano sottovoce, coperti dal brusio incessante degli altri clienti, ma è tutto evidente e intuibile.
Mi rendo conto istintivamente che lei ha affascinato altri avventori del locale, che la guardano come me, di sottecchi, senza mai osservarla direttamente, ammirando clandestinamente qualcosa che pare troppo bella per essere autentica.
La fauna da bar si nutre spesso del piccolo gossip del vicino, ma sempre con apparente e malcelato distacco.
La maggior parte dei presenti è rimasta comunque indifferente, e trovo questo fatto piacevole, ma anche incomprensibile.
La bellezza è negli occhi di chi guarda, ho letto da qualche parte, ed io li sento ancora pieni di una bellezza straordinaria, nordica e momentanea, forse persino irreale.
Ogni tanto butto uno sguardo per carpire qualche altro dettaglio di lei, per scoprire ogni volta che in quella prima manciata di secondi avevo già registrato tutto, perfettamente.
È esattamente come l’avrei immaginata ieri, se non l’avessi vista adesso.
È “–issima”.
Dappertutto.
Ha occhi azzurr-issimi, chiar-issimi, luminos-issimi e grand-issimi, in continuo movimento, con uno sguardo curioso e troppo vivo per dedicarsi ad uno solo di noi nella sala mezzo gremita di viaggiatori infreddoliti.
Infatti, dedica fugaci occhiate a tutti, anche a me.
Sono quasi deluso del fatto che finora mi ha lanciato nient’altro che quello sguardo passeggero, persino un po’ geloso: come se la bellezza, quando è così dichiarata, debba per forza essere conquistata.
Il prossimo treno è tra 44 minuti: l’ho calcolato meccanicamente, per abitudine.
Troppo tempo da passare, mentre l’orgoglio è forte e la sfida allettante.
Avrò la sua attenzione, a qualunque costo.
Magari anche qualcosa di più, chissà…
Lei intanto si è messa a proprio agio, senza dare alcuna importanza allo stile.
Non accavalla le gambe né incrocia le braccia, ma si accomoda scompostamente sfruttando ogni appoggio, mentre il suo piccolo branco, ovviamente, la serve di tutto quello che può desiderare, senza nemmeno che lei lo debba chiedere.
Sa che il mondo, giustamente, gira intorno a lei e se ne approfitta con grande naturalezza.
Eppure, anche in quella posizione stravaccata, inappropriata per chiunque altro, ha qualcosa di aggraziato che ne accentua il fascino, che ne esalta la naturale dissacrante e maliziosa bellezza.
Maledetta.
Qualcuno le passa una bustina di zucchero; lei ci dedica giusto una frazione di secondo della propria attenzione, per poi giocherellarci con le dita, distrattamente, continuando ad osservare tutto e tutti attorno a lei.
I nostri sguardi si incrociano, di nuovo.
Questa volta è un lampo, un fulmine.
Si è accorta che la spiavo.
Bene.
Comincia il gioco.
Mio padre diceva che per affascinare bisogna agire in tre fasi: ignorare, incuriosire e farla ridere.
Soprattutto farla ridere, diceva.
Vediamo se è vero.
Sud contro Nord.
41 minuti.
Vediamo quali sono i miei pezzi sulla scacchiera.
Faccio finta di interessarmi allo schermo dei treni, che è all’angolo opposto dietro il loro steccato, continuando a seguirla con la coda dell’occhio: mi sembra proprio che mi stia osservando, spudoratamente e senza distogliere lo sguardo.
Ah, l’insolenza nordica!
Devo verificarlo, naturalmente, ma senza scoprirmi, senza ricambiare lo sguardo direttamente, secondo le regole di gioco stabilite da mio padre.
Ignorare e incuriosire.
Non appena uno del suo stormo si alza e mi copre al suo sguardo, ne approfitto; lascio cadere il cucchiaino, così mi piego a raccoglierlo sotto il tavolino, rimanendo nascosto.
Da lì sotto osservo la sala attraverso le trame dello schienale delle due sedie, continuando a far finta di cercare un cucchiaino che ho già trovato da un pezzo, ad uso degli eventuali amanti del gossip di sala.
Mi sento un idiota, naturalmente, ma non me ne importa nulla.
Anzi: la cosa mi diverte, perché non mi succede spesso di sentirmi così ridicolo.
Mentre penso che dovrei vergognarmi, godendomi comunque la bella sensazione di fugace follia, il mio tavolino, vuoto, torna visibile e lei sgrana, un poco, gli occhi.
Il suo stupore, anche se ben controllato, è evidente: stava davvero guardando me e si aspettava di rivedermi.
Bene.
Ora so che ho qualche buona pedina in gioco e la sfida non sembra più totalmente impari.
Adesso mi sta cercando attorno.
Aspetto che controlli tutto il locale e quindi riemergo da sotto il tavolino, mostrandole il cucchiaino in mano e guardandola dritta negli occhi, sorridendo come solo “un idiota che è stato piegato sotto il tavolino di un bar della stazione facendo finta di cercare un cucchiaio” può fare.
Lei capisce il gioco e scoppia a ridere.
È una risata genuina, aperta, squillante, ammaliante.
Anche troppo.
Sono suo.
Ora siamo complici e anche io rido, silenziosamente.
I suoi del branco ovviamente reagiscono e si guardano intorno, ma ogni volta che scrutano nella mia direzione, divento immediatamente serissimo e distolgo lo sguardo, così non capiscono niente di quello che sta succedendo e tanto meno che io c’entro in qualche modo.
Lei osserva il mio repentino cambio di espressione e ride ancora di più.
Al loro terzo giro di radar, mi piego di nuovo sotto il tavolino, approfittando della ordinaria confusione del bar.
È facile sfruttare questi momenti: noi tipi da bancone, abituati alla lotta feriale per la colazione mattutina, riusciamo a prevedere il movimento delle persone nello spazio davanti a noi molto meglio degli impacciati tipi da tavolino.
Riemergo solo quando rinunciano alle ricerche, e lei riesplode in quella risata sorprendente, fantastica.
È mia.
Adesso ci guardiamo apertamente.
È veramente uno splendore.
Mi studia con lo sguardo divertito, per nulla intimidita.
I tratti del volto sono dolcissimi, si vede che è felice di essere lì e che sa di piacermi.
Anche io le piaccio, questo è sicuro.
Ha uno sgraziato cappellino di lana, da cui fuggono, letteralmente, curat-issimi riccioloni biond-issimi, ma per me a lei sta benissimo, anche se so che addosso a chiunque altro sembrerebbe, come minimo, stravagante.
Indossa ancora un piumino con una fantasia floreale improponibile, ben oltre l’eccentrico.
Giochiamo.
Da quel momento, ripete ogni mio piccolo gesto, espressione, movimento anche appena accennato, ed io i suoi.
È nato un linguaggio nuovo e muto tra noi, che gli altri non comprendono, mentre diventiamo poco a poco del tutto incuranti di tutto ciò che ci circonda.
Aveva ragione mio padre.
Ormai al suo tavolo si sono accorti di tutto e mi osservano, stranamente divertiti della situazione.
Mi sembra che anche qualche amante del gossip da tavolino abbia intuito.
Ecchissene…
Sullo schermo lontano una pallina blu pulsa nervosa vicino al mio treno, ricordandomi che non posso permettermi di vedere un’altra coda in fondo al binario: la mia famiglia mi attende e il piccolo flirt deve finire, rimanere una fantasia nella memoria.
È sempre stato quello il suo giusto posto.
Pazienza.
Raccolgo le mie cose.
Da bravo tipo da bancone riporto la tazzina al barista, ma, prima di uscire, decido in un istante che non posso rinunciare a ritirare il mio premio, la mia personale vittoria.
Lo devo a mio padre, al pittore che non sono diventato, al Sud.
Mi avvicino al piccolo gruppo e mi presento nel mio inglese stentato: mi accolgono con ampi sorrisi e mi dicono che si erano accorti che ci facevamo la corte da lontano.
Arrossisco un po’, ma non recedo.
Chiedo spudoratamente di poter avere un bacio da lei.
Sono tutti immediatamente d’accordo, la liberano dal passeggino e lei mi salta sorridente in braccio.
La piccola, deliziosa Anna, quattro anni il prossimo aprile, mi stampa senza alcuna esitazione un bacio sulla guancia, assordandomi un orecchio con una risata, e regalandomi la bustina appiccicosa di zucchero che teneva ancora in mano.
Qualche altro viaggiatore da tavolino sorride, complice.
Quando pochi minuti dopo salgo finalmente sul treno, giocherellando con la bustina di zucchero, penso che non tutti i tipi da tavolino sono poi così antipatici.
Luca Bravissimo!! che storia ! La seduzione in pochi minuti! Scrivi in modo straordinario con un ritmo e una tensione che non ti mollano e le tue parole scorrono veloci e piacevoli accompagnando il lettore in una partita fatta di nulla ma carica di tutto.
Grandissimo finale che da un tocco di gran classe a tutta la narrazione. Mi hai colpito veramente.
Grazie di cuore.
E’ un’emozione leggere un commento così bello e inaspettato.
Caro Luca ti faccio i miei complimenti per il tuo racconto, che incuriosisce dalle prime battute e si legge d’un fiato. Veramente simpatico l’equivoco sulla “femme fatale” che poi si scopre essere una bimba stupenda che non può che far intenerire il cuore. Ti ringrazio del tuo generoso commento al mio racconto e mi fa piacere averti come compagno d’avventura in questo mare di racconti. Ad maiora!
Complimenti Luca, simpatica e coinvolgente la tecnica di seduzione. Mi ha spinto a proseguire la lettura per scoprire come sarebbe andata a finire, se veramente avrebbe dato i frutti sperati. Ti dirò che il finale a sorpresa è stato un valore aggiunto, ha dato al racconto leggerezza e al tempo stesso profondità di sentimenti. Bello.
Grazie Lino e Pasqualina.
I vostri commenti sono il premio più bello!
Scrivere un racconto breve è un arte molto particolare e, soprattutto, non facile da mettere in atto: significa muoversi in uno spazio ristretto con una manciata di battute che deve incuriosire il lettore, catturarne l’attenzione, conquistarlo e poi stupirlo. Ecco Luca, il tuo racconto è tutto questo. Complimenti!
Meraviglioso questo racconto. Hai certamente un’ ottima abilità descrittiva, veloce ma dettagliata, divertente e mai banale. Un racconto elegante e colmo di gioia. Finale spettacolare. Bravo e in bocca al lupo
Inevitabile andare a rileggere il racconto dopo aver scoperto il finale! Ho pensato: mi hai fregato fino all’ultimo! E lei, immaginata come una maliziosa biondina sui venti, improvvisamente si è trasformata in una dolc-issima bambina dalle guance morbide! Compliment-issimi! 🙂
Molto molto molto bello! Scritto veramente bene e splendidamente sorprendente. Mi ha fatto su come niente 🙂
Complimenti davvero!!
Bello bell…issimo….bravo brav…issimo! Racconto che ho letto tutto d’un fiato cercando di immaginare incuriosita cosa sarebbe successo fra un colpo di scena e l’altro. Tutto ho pensato tranne che potesse trattarsi di un colpo di fulmine per una bimba. Mi hai fatto pure sorridere! Quindi… Secondo la teoria del padre… Hai conquistato anche me!!!
Premesso che come tipo da bancone sono portato a simpatizzare con il protagonista, devo fare tutti i complimenti possibili a Luca per la sua scrittura, per la descrizione del sapore del caffè delle stazioni, e per il felicissimo inganno con cui un piuttosto antipatico e cinico playboy da riviera si trasforma in tutt’altro in un inatteso finale. Bravo.
Uno dei racconti più divertenti e ben scritti di questa edizione!
Ammiccante e dolce, non ho dubbi cbe sarà tra i premiati.
Luca, bella scrittura. Accattivante, morbida, decisa, curiosa, seducente, ironica. Conosci bene il personaggio che narra in prima persona, come anche il luogo e le persone che lo frequentano. Ho sentito il profumo di caffè, assaporato attraverso un ping-pong di sguardi e piccoli movimenti dell’animo sedotto. “Ci sono bellezze destinate a fermare l’aria”, wow. Bravo!