Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2018 “Il chiosco” di Fabio Baronti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018

Ognuno sta sul cuor della terra,

trafitto da un raggio di sole:

ed è subito sera.

Salvatore Quasimodo

Io sono una luce nel buio. In inverno, un puntino nella nebbia.

Arrivando da lontano è quello che si nota, a prima vista. Man mano che ti avvicini invece, è l’olfatto il senso a essere rapito. O almeno, così dicono. C’è addirittura chi ama farsi trasportare dal proprio naso con il braccio destro teso sul volante, il gomito sinistro piegato fuori dal finestrino e la freccia lampeggiante, a destra. Lato est della strada che porta da Panitello a Roccaserra nel cuore della Pianura Padana. Un posto di congiunzione, un trait d’union, tra quel che resta delle glorie abitative di alti palazzoni anni ottanta e quel che ne sarà della modernità, con lo snodo ferroviario dell’alta velocità a fare da sfondo. E’ qui che trent’anni fa ho deciso di piantare il mio chiosco, abbandonando per sempre gli studi di filosofia. Leggevo Schelling e Hegel, allora. All’inizio, quindi, mi stabilii qui con poche, pochissime pretese. Una specie di scommessa, sognando i film americani con le loro insegne fatte di hot-dog lampeggianti, mille lucine colorate e la scritta Drink Coke in bella vista. Eravamo nel pieno degli anni ottanta, di Happy Days, Drive In, del contagio mediatico dei fast-food. Ad oggi, io mi sento un uomo fortunato e realizzato. Dal mio bugigattolo ho sempre uno sguardo rivolto al mondo fuori, resto costantemente aggiornato sulle mode del momento, sento l’inconfondibile odore della pioggia sull’asfalto, imparo a memoria tutte le hit radiofoniche, grazie al piccolo impianto che si trova appostato dietro la mia schiena. Il mio spazio, un rettangolo ai margini della carreggiata, è quello più stanco, meno frenetico, quello dei ritorni dal centro del paese, dall’ospedale, dalla piccola stazione, dal cinema, dalla movida dei locali notturni. Una strada percorsa perlopiù da gente alla ricerca della pace dopo il lavoro, della redenzione che transita nell’arco temporale di una notte, della consolazione dopo una serata storta partita sotto i migliori auspici. Io mi chiamo Roberto, per gli amici Roby, per tutti Pol. C’è chi mi considera un’istituzione del posto, chi si ferma per un rapido pit-stop, chi passa di qui anche solo per un saluto e chi da sempre mi affida i segreti più intimi. Di quest’ultima stravagante e variopinta umanità mi sono innamorato. E’ per loro che io vivo, ogni notte.

Florinda è generalmente tra i miei primi clienti. Il suo lavoro inizia sempre dopo le nove di sera. Flo, così si fa chiamare, è una trans. Originaria di Rocinha, una delle favelas di Rio de Janeiro, qui in Italia ci è arrivata otto anni fa dopo una lunga traversia, storie di finti amori e interessi legati al mondo della cocaina. Prima che mi si materializzi davanti, la sua presenza è anticipata dal suo fortissimo profumo, un’imitazione a suo dire di Chanel N.5, che si spruzza addosso a litri. E dal trambusto del suo tacco quattordici. Toc-Tac-Toc-Tac e so già che è lei. “Ciao belessa!” esordisce sempre in questo modo facendomi un malizioso occhiolino, anche se ci conosciamo da tanto. Le piace scherzare, a Flo. Una bellissima pantera, alta circa due metri, due lunghe gambe che farebbero invidia a un centometrista, un caschetto di capelli biondo platino che sbattono in modo imbarazzante sulla sua pelle ambrata, un paio di lunghe ciglia finte, denti bianchissimi, abitino succinto generalmente molto scollato a vista sulla sua quinta pompata al silicone e una pioggia di brillantini, ovunque. Ordina sempre una vaschetta grande di patatine sulle quali vuole che metta una quintalata di maionese e me le mangia davanti con fare provocante. Dietro questa sua personalità all’apparenza forte, si cela in realtà una figura fragile. Ricordo la volta che, confidandosi con me, mi raccontò di quanto le mancasse il suo Brasile e la sua famiglia disastrata. Oppure quando, piangendo, mi disse che lei non aveva mai conosciuto il vero significato della parola amore. Da fuori, invece, ad essere giudicata resta solamente l’apparenza.

Potrei poi parlare di Cristian. E’ da un po’ che lo vedo abbastanza giù. Strano a dirsi vista l’energia che contraddistingue i suoi trent’anni. Cris e il suo fisico palestrato. Cris e il suo fisico palestrato tappezzato da una miriade di tatuaggi dei quali spiccano quello con la scritta Lose my Religion che risale fin sul collo e quello di un sorridente Mickey Mouse sul bicipite destro scolpito. Cris e la sua fila di gnocche stese a colpi di testosterone. Come lavoro Cris fa il bartender, il barista acrobatico, di quelli che fanno volteggiare i bicchieri in aria e poi li riprendono al volo, come se fossero piume. Un lavoro che gli fa guadagnare molto bene, a detta sua. L’altra sera era reduce da una festa privata, nella villa dei Romanelli, una delle famiglie più ricche di Panitello. Non mi diverto più come una volta, c’è un tiraggio che fa schifo. E poi dai… tutti lì con lo Smartphone in mano e a me manco mi cagano… Pippaioli viziati!” mi ha detto, con un’espressione di rabbia e delusione in volto. Fammi un Bombarolo va, che mi tiro su… ”.

Maio e Ketch?”

Maio e Ketch”.

Il Bombarolo è la mia creatura. Il panino grazie al quale ho fatto le mie più grandi fortune. Solamente io ne detengo il brevetto. Non posso svelarne i segreti, non lo farò mai nemmeno sotto tortura. Ma c’è un ingrediente che è lì, sotto gli occhi di tutti e che fa la differenza. Lo senti stamparsi sulla punta della lingua e poi è solo piacere puro che ti solletica il palato. Lo vogliono tutti il Bombarolo. Se non lo cerchi tu, è lui a venirti a cercare.

Franco invece è un nostalgico. Lo vedo passeggiare nei paraggi con in bocca l’immancabile sigaro e lo sguardo smarrito quasi a cercare qualcosa o qualcuno mentre tiene a guinzaglio Lenin, il suo anziano labrador appesantito. Franco ha ancora in tasca una vecchia tessera del Partito Comunista e l’autografo slavato di Berlinguer che conserva gelosamente come una reliquia. Da parecchio tempo vive in uno dei palazzi del circondario, esattamente da quando per “ragioni di servizio” delle Ferrovie, dovette trasferirsi da Roma a qui, per poi stabilirsi definitivamente fino alla pensione. Mi appare davanti avvolto in una nuvola di fumo e poi resta a fissarmi per un minuto, come ipnotizzato. Ao, che mmme dai per cena stasera?” esordisce sempre così, con quel che gli resta del suo accento romano. Poi è un continuo rimando ai fasti del passato, di quando le Ferrovie erano le Ferrovie, lo Stato era lo Stato e pane e lavoro per tutti. Da molti anni Franco, per curare la sua cronica insonnia, scrive poesie. Ma guai a chiamarlo poeta. Ogni tanto si diverte a leggermi con enfasi i suoi componimenti, l’ultimo giusto qualche sera fa. Senti questa”

Trucido! mi dissi,

ch’el tempo di tornare

manco avevo

un core trafitto

una lancia piegata

una lacrima;

chi sono

dunque, io?

Voragine dei tuoi giorni

poi

il nulla

Te piace? Mo’ vado, s’è fatta na’ certa… ” E scompare nel buio, rapito dalla sua nuvola di fumo. 

Poi ci sono i giovani dell’ambulanza. Un gruppo di ragazzi e ragazze, volontari, che sfidano le insidie più tragiche della notte. Gente dalla faccia pulita, ai quali affideresti tranquillamente tuo figlio e tua figlia come sposi. Gianluca, Marco, Valter, Fabio, Alice, Irene, Ilaria. Persone dalle quali, spesso, può dipendere un titolo sulla cronaca dei giornali di domani. Con le loro divise a bande rifrangenti vengono a turno a rifocillarsi da me, dato che la loro base si trova giusto qui dietro il mio chiosco. Per loro sono una sorta di amico. Nonostante la differenza di età, mi vedono ancora come una persona brillante e mi affidano i loro ambiziosi ragionamenti sul futuro. Per chi come loro è abituato a fare i conti con la signora con la falce, è come esorcizzare una paura. Dalle loro bocche sento pronunciare parole di grande speranza, progetti di lavoro ambiziosi, studi specialistici, ingegneria, culture orientali, robotica, biotecnologie. Mi proiettano in universi che tanti anni fa anch’io sognavo di cavalcare, prima di aprire qui. Utopie, le chiamavamo allora. Non mi stancherei mai di starli ad ascoltare. Nei loro occhi vivaci leggo messaggi di fiducia. Sono il futuro, quello bello e poco reclamizzato.

Nel cuore della notte, immancabilmente, Vanni fa tappa da me. Vanni è un sessantenne, da tempo baby pensionato. Era quarantenne quando anni fa l’INPS gli comunicò il “ritiro dal lavoro” con il vecchio sistema contributivo. In quel tempo Vanni si occupava di archiviazione presso un ufficio amministrativo della Regione. Dopo di allora, con i suoi occhiali spessi come fondi di bottiglia e i capelli lunghi grigio cenere, lavora in nero come addetto alla macchina da presa al Cristallo, il cinema del paese. Il cinema: la sua grande, eterna passione. Quante me ne ha raccontate in questi anni. Quanti film ho visto solamente grazie alla sua voce. Di certo Vanni si è reso protagonista in prima persona dell’evoluzione cinematografica. Dalla pellicola in poliestere alla DCP (Digital Cinema Package). Quando ci vediamo, c’è sempre il tempo per una recensione al volo del film appena proiettato. Me la fa con grande dovizia di dettagli, nonostante la stanchezza e il letto che lo aspetta qui vicino. A me piace parecchio il suo stile, un intramontabile nerd con la barba incolta, la felpa di Mazinga, jeans e scarpe sportive.

Oh, dovevi chiamarlo Voltron il Bombarolo! Sai come vendevi di più?” mi dice sempre provocandomi.

Incompetente, tagliati i capelli e vai a lavorare!” gli rispondo io, sorridendo.

Stacco sempre quando la notte saluta. Tiro giù la serranda verde imbrattata di scritte con la bomboletta, cercando di fare meno rumore possibile e mi incammino verso casa.Lungo la via vengo sempre sorpreso dal canto degli uccelli, che si danno risposta da una parte all’altra e dal profumo del pane del forno di Angelo, all’angolo della strada. Più avanti, sbirciando fra i titoli dei quotidiani freschi di stampa, do sempre un saluto a Sergio, il tipo dell’edicola vicino alle scuole. Mi sento una sorta di privilegiato per tutte queste piccole cose, non credo capitino a tante persone. Ma chi sono io in realtà? Un distributore di panini, un beniamino, un confessore, un amico? Non lo so ancora di preciso, veramente. E poi… qual è la vera umanità? Quella delle mie notti, oppure questa che sta per iniziare una nuova giornata davanti a un caffè?

Nel dubbio, chiudo gli occhi.

Buonanotte giorno.

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4 commenti »

  1. Grazie Fabio per questo piacevole racconto che racchiude in se molte storie di varia umanità.
    Mi è piaciuto lo stile pulito e la costruzione che lega insieme le vite in transito davanti al chisco.
    Complimenti!

  2. Grazie mille a te Gianluca!

  3. Complimenti Fabio, per questo splendido spaccato di vita e per il tuo stile narrativo, piacevole e ironico.
    Passerei volentieri al chiosco, anch’io per fare quattro chiacchiere…

  4. Molte grazie Davide!

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