Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti per Corti 2018 “L’orologio segna Nord” di Alessandro di Nepi Finzi

Categoria: Premio Racconti per Corti 2018

Cristina è adagiata su un tappeto. E da lì non si alzerà.

Non è più da qualche minuto. Mentre scivolava di là, le lancette dell’orologio che separava opposte fazioni di libri su uno dei ripiani della libreria, noncuranti, hanno continuato a scandire ostinatamente il tempo. Solo per me.

Quando il suo respiro si è fermato e il petto ha smesso di sollevarsi e abbassarsi, non le ho degnate di uno sguardo.

Non avrebbe avuto senso. “Tempo” e “futuro” avevano già perso significato quando a Cristina era stato prospettato un orizzonte di soli sei mesi.

La decisione di annientare il mostro, prima che lui distruggesse noi, l’avevamo presa insieme, pianificando meticolosamente – come amava fare lei – le persone dalle quali prendere commiato e le ultime cose di cui prendersi cura.

L’ultima sera sarebbe stata una cena qui da noi, con del buon vino e gli amici di una vita. Tenuti volutamente all’oscuro di tutto. Poi saremmo rimasti soli. Per l’atto finale.

«Che faccio? Metto la collana di Bulgari o il filo di perle? Ohi! Mi rispondi?». Meno di un istante tra la domanda e il perentorio sollecito che mi spingeva a prendere alla svelta una posizione o a esprimere un giudizio.

Cristina era così. Viveva il tempo al doppio della velocità rispetto a me. Forse per questo il suo doveva necessariamente finire in fretta e il mio andare oltre per chissà ancora quanto, avvelenato dalla sua assenza.

Solo i rintocchi ritmati dell’orologio fanno breccia nel silenzio denso che impregna la stanza. Asciugo una lacrima che, ribelle, mi solca il viso e affondo lentamente nella poltrona di fronte a ciò che rimane di lei.

Per sopravvivere alla vita che mi attende, devo imprimere nel cervello l’aura di morbida serenità che finalmente la avvolge. Sto anche cercando disperatamente di cancellare dalla memoria le corse in ospedale, le ore di vana speranza trascorse nelle sale d’aspetto degli specialisti e lo sgomento provato ascoltando l’ultima e spietata diagnosi.

Voglio conservare, invece, la fierezza con cui aveva deciso, da subito, di tenere per noi la terribile notizia.

«Non sarà il mostro a portarmi via. Troveremo il modo di sfuggirgli. Mi aiuterai, vero?» mi aveva detto, mentre il conto alla rovescia già divorava il poco che le restava da vivere.

Per non contrariarla, ho annuito e le ho stretto forte la mano, non immaginando quello che mi avrebbe chiesto di fare.

E che ho appena fatto.

Non devo assolutamente turbare il sonno di Cristina con il rumore assordante dei miei pensieri. Ora che non c’è più traccia di sofferenza nei suoi lineamenti, la guardo con un amore mai provato prima.

Cristina è sempre stata bellissima ma ora è veramente un incanto.

Il luccichio della collana di perle è offuscato dallo splendore dalla sua pelle bianchissima che, nonostante l’immobilità, sprigiona candore e una sensazione di rassicurante morbidezza.

La luce che, discreta, penetra trasversale dalle crepe delle persiane, indugia sul suo collo sottile e sulle dita affusolate rivolte verso l’alto. Tra loro brilla l’anello nuziale. L’ha tirato a lucido proprio questa sera, mentre io mi annodavo alla cravatta.

Tutto doveva essere perfetto per l’ultima sera insieme.

Andare via con il sapore della vita in bocca. Ci teneva da morire.

Dietro le palpebre, sento l’intensità dei suoi occhi neri, ribelli e profondi, fissarmi con una disarmante calma.

I suoi occhi. Veri, sinceri. A volte spietati. Mai corrotti dalla menzogna del trucco. Tra di loro, il naso con un’impercettibile sporgenza, una piccola gobba, su cui mi piaceva indugiare con le dita prima di scendere a sfiorarle le labbra.

Scaccio il desiderio di ripercorrere quel sentiero di pelle che amavo tanto accarezzare prima che, tra le lenzuola di cotone, ognuno di noi cadesse prigioniero dei propri sogni. Adesso Cristina non avvertirebbe il contatto, né potrebbe girarsi e accogliere il bacio che spesso – per non dire sempre – concludeva le mie escursioni sul suo viso.

Il tubino nero che, alla fine, ha scelto per la serata, le aderisce perfettamente ai fianchi, facendo risaltare i morbidi dossi dove, dopo anni inquieti e solitari, ho smarrito la ragione e riassaporato il vorticoso gusto della passione.

L’ingranaggio dei pensieri si rimette rumorosamente in moto quando noto il gioco di luce che si produce tra Cristina e i raggi del sole mattutino che, via via più intensi, illuminano ormai a giorno la stanza, relegando le abat-jour accese agli angoli del salone in una dimensione di assoluta inutilità.

“Iniettandole il veleno, abbiamo evitato l’epilogo doloroso della malattia. Me l’ha chiesto lei di farlo” dico sommessamente, come fossi sul banco degli imputati a rispondere del crimine commesso.

Nonostante avessimo organizzato tutto da molto tempo, quando la siringa, questa notte, ha superato la velleitaria resistenza della pelle, dopo aver fatto pressione sullo stantuffo, ho avvertito una forte agitazione. Temevo che, a causa di un errato dosaggio, il passaggio dall’altra parte potesse non essere placido e sereno come lo desiderava lei. Solo per questo le ho suggerito di prendere dei sonniferi. I due flaconcini di barbiturici, il bicchiere vuoto e la caraffa d’acqua sono ancora lì, compagni silenziosi, in un angolo del tavolino.

Adesso ho sete. Mi alzo dalla poltrona e utilizzo lo stesso bicchiere che ha baciato Cristina. Nonostante il vetro freddo, sento ancora il sapore delle sue labbra. Dopo aver bevuto, lo rimetto esattamente al suo posto. Le piccole onde trasparenti all’interno della caraffa d’acqua perdono progressivamente vigore e affondano di nuovo, lentamente, in una calma stagnante.

Intorno a me tutto è soffice silenzio.

Tento di far diminuire i giri del cuore che troppo spesso sfuggono al mio controllo. Come sta accadendo proprio adesso.

Se solo queste maledette lancette…

Quando il battito torna normale, il mio sguardo è attirato da lampi di blu che colorano a intermittenza le persiane del salone. Poi la pace è violata dal frastuono di due sirene che, impazzite, rimbalzano tra gli angusti limiti della strada privata dove abito da sempre.

Un istante appena e il silenzio mi piomba nuovamente addosso, interrotto solo dal persistente ticchettio delle lancette che – per fortuna – non sembra turbare il soffice sonno di Cristina.

«Fate piano, per carità! Se si sveglia, tornerà a soffrire!» Michele rivolge il rimprovero agli agenti di polizia cui ha appena aperto la porta, portandosi un dito alle labbra.

«Michele, cosa hai fatto a Cristina? Mio Dio!» sbotta uno di loro, portandosi le dita alle tempie.

L’agente della volante è un conoscente di Michele. Sa dei suoi disturbi e, spesso, nel supermarket di zona, ha incontrato Cristina. Una donna incantevole e coraggiosa che si è sempre presa cura del marito schizofrenico senza mai chiedere aiuto alle istituzioni e fregandosene della propria incolumità.

«Chris ora dorme. Non me la dovete svegliare» farfuglia Michele, fissando inebetito i distintivi colorati aggrappati alla divisa blu dell’agente che, con pazienza, lo riporta in poltrona.

«Ti senti bene, Michè?» chiede l’agente, indicando nel frattempo ai colleghi di rimanere in disparte.

«Eh? Non lo so. È l’orologio. Se solo si potesse spegnere…»

«Qual è l’orologio che ti da fastidio, Michele?»

«Quello della libreria. Fa un rumore infernale. Cristina non si deve svegliare! Altrimenti… »

L’agente di pattuglia guarda il corpo bianchissimo di Cristina. Nei suoi occhi l’orrore e la tenacia con cui ha affrontato per l’ultima volta il mostro. Il lato malato, violento e imprevedibile del marito.

Accanto a lei, all’altezza della testa, si allunga un tappeto rosso scuro – sangue ormai rappreso – che congiunge il foro nel cranio alla caviglia sinistra. All’altezza del monile di Bulgari che Cristina portava sempre al collo, l’orologio con cui Michele le ha fracassato la testa.

Le lancette, mute e sovrapposte, indicano senza esitazione il Nord. Sul tavolino basso, accanto alla poltrona, ci sono un pacchetto di fazzoletti profumati, una caraffa d’acqua e un bicchiere vuoto. Nient’altro. Né siringhe, né flaconi di medicinali. Quando il mostro prende il controllo, Michele, può solo assecondarlo, vedendo e vivendo una realtà che non è quella di tutti gli altri.

«Michele, vuoi restare o andiamo via?» chiede l’agente.

Ci sono tracce di colluttazione dappertutto. Sulla maniglia della porta è visibile una nitida impronta di sangue: Cristina è stata a pochi centimetri dalla salvezza.

«Andiamo, Michè. Dai»

«Si, però. L’orologio. Cristina. Se poi si sveglia, io…»

«Quell’orologio deve proprio smetterla. Eh, Michele?»

«Si, ditegli di farla finita. Subito! SUBITO!» grida Michele.

«Usciamo a prendere un po’ d’aria. Vuoi?”

Mentre Michele scivola nelle vie deserte di agosto per raggiungere il commissariato di zona, Cristina è ancora sul tappeto rosso del suo sangue. E da lì non si alzerà.

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9 commenti »

  1. Un amore spropositato che va al di là della malattia, cadenzato dai battiti dell’orologio fino a che questo non si ferma. E svanisce tutto.
    Bello e struggente

  2. Una lucida e spiazzante versione di un efferato delitto fornita da uno schizofrenico ad un agente ben conscio della sua patologia. Ben costruito e articolato il racconto avvince e sorprende.

  3. Adoro la tua scrittura.

  4. Alex, una storia che è un’altra storia… l’inganno ti è riuscito perfettamente

  5. Dall’eutanasia alla schizofrenia per un finale assolutamente spiazzante. Scelta coraggiosa trattare due temi così… Insieme poi… Una vera bomba direi soprattutto per la credibilità con cui scrivi e racconti. Molto bravo

  6. Ben fatto, meraviglioso il colpo di scena. Complimenti.

  7. Grazie a tutti dei complimenti. Cercherò di meritarli con i prossimi esperimenti di scrittura.

  8. Una scrittura molto curata e attenta. Ben realizzato lo schema con la cerniera centrale che allarga il campo dal monologo visionario del narratore alla movimentata seconda parte. I dialoghi dei personaggi che entrano nel racconto spezzano il ritmo interiore, il discorso interno e anche lo schema di realtà costruito dal protagonista. Ben fatto!

  9. Spiazzante e tragico, come questo amore a cui nonostante tutto crediamo fino alla fine, l’unica cosa che sopravvive alla malattia e alla follia

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