Premio Racconti nella Rete 2018 “Lascia che ti spieghi” di Alessandro di Nepi Finzi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018Eravamo arrivati pochi minuti dopo la telefonata di un condomino preoccupato per gli strani rumori che avevano interrotto il placido scorrere della notte.
Avevamo vinto la resistenza della massiccia porta blindata e solo dopo avevamo violato l’abitazione.
Dall’ingresso, luci intense mi avevano spinto fino allo studio. Abbandonato il corridoio principale, la mia inquietudine era cresciuta, confuso dal susseguirsi di stanze e corridoi, non riuscivo a leggere la casa, né a comprendere dove si annidasse il dolore di cui avvertivo la presenza. Nel bagno di luce, gli oggetti della casa sembravano giacere indolenti e l’ordine, onnipresente e piatto, non suggeriva che i rumori notturni fossero giunti da lì.
Lo studio era illuminato dagli abat-jour agli angoli della stanza, dalla lampada stilizzata sull’elegante tavolo in noce e, soprattutto, dal lampadario le cui stalattiti di cristallo venivano giù con l’immobile lentezza di una goccia che si stacca dall’acqua madre.
L’uomo aveva deciso di appendersi al lampadario dello studio, servendosi di una scala arrugginita e di una spessa corda di canapa.
Immobile tra le gocce di cristallo, era vestito di tutto punto.
Come se dovesse partecipare a una serata di gala.
Un blazer blu notte, probabilmente di sartoria, una camicia perlacea, scarpe di vernice nera, lucidi gemelli d’avorio ai polsi e una pochette con arabeschi viola che si allungava dal taschino della giacca fino a lambire la spallina sinistra dell’abito.
Ciò che aveva spinto l’uomo a farla finita non sembrava la mancanza di denaro.
Sergio Cordetti era – cioè era stato – uno stimato professore di Gastroenterologia della Sapienza.
Cornici di spessori e materiali diversi contenevano a stento il sorriso plastico con cui stringeva mani a rettori universitari di vari continenti e colleghi altrettanto famosi. Al centro della parete, sopra un faretto collocato a bella posta, un’altra immagine in cui, con espressione accigliata, Sergio appariva in studio con Piero Angela per illustrare le nuove tecniche per affrontare le patologie dei principali organi interni. Dalla parete di successi professionali ho spostato lo sguardo alla mia sinistra dove, invece, il Professore, con evidente compiacimento, ostentava la propria vivace vita sentimentale.
Altre foto. Altre inquadrature. Lo stesso sorriso.
Sergio abbracciava, guardava intensamente, sfiorava moltissime donne, diverse per età, accumunate dalla voglia di “bucare” l’inquadratura. Foto che mettevano in risalto seni rifatti, labbra pateticamente gonfie e lentine tristi e colorate a mascherare sguardi altrimenti anonimi.
In queste foto, accanto a Sergio, non ho visto donne, compagne, amanti o complici. Piuttosto un infantile senso di conquista. I trofei umani erano immortalati nella loro straripante vanità, traditi solo da sorrisi forzati e stanchi.
Su questa parete, ogni foto indicava una data precisa. Evidentemente, era importante che il momento della conquista o dell’acquisita consapevolezza del possesso rimanesse scolpito nel tempo. L’ultima risaliva ad appena due giorni prima.
Il Professore non era, quindi, nemmeno malato di solitudine.
Dal corridoio principale arrivavano segnali di confusione.
Una donna minuta, la fonte della confusione in corridoio, era entrata nello studio a piccoli passi. Senza fare rumore. I suoi lineamenti erano sobri e semplici. Come l’abito monocolore scuro. Orecchini e collana di perle. Scarpe senza tacco. Venature grigie tra i capelli lisci e neri. Molte. Come molte erano le rughe profonde sulla fronte.
«Lo voglio vedere. Fatemi vedere Sergio. Lo devo vedere!»
Il dolore della donna era semplice e autentico. La sua presenza nella stanza, spontanea e discreta, stonava con la compiaciuta ostentazione di chi riteneva di aver vissuto la vita al massimo e voleva che si sapesse.
Mi ero avvicinato alla donna con le braccia spalancate per evitarle in extremis di vedere Sergio che, inerme, pendeva dal lampadario. Non ci ero riuscito poiché la donna, sebbene minuta, era molto determinata. Non riuscivo nemmeno a rintracciarne il volto tra quelli incorniciati alle pareti.
Lei si era fermata al centro della stanza, aveva sfiorato delicatamente il ginocchio di Sergio che, per un istante, aveva dondolato, proiettando ombre intermittenti su incontri e persone del passato.
La donna si era poi accorta della mia presenza e si era voltata verso di me.
«Lo sapevo già, che crede?» mi aveva detto. «Non le ho mai viste in faccia, ma sentivo che c’erano. Sergio non ha mai voluto che entrassi nel suo studio. E io non l’ho mai fatto. Ma ci pensa? Vent’anni insieme e nemmeno un giorno di convivenza. A parte le vacanze… Lui era fatto così. E a me piaceva così. E allora non ho visto, non ho sentito, non ho capito e, quando la verità mi veniva sbattuta in faccia, voltavo le spalle guardando altrove».
La donna minuta osservava il corpo di Sergio e sospirava. Poi sembrava voler riprendere la conversazione che io, se avessi potuto, non avrei mai iniziato. Mi aveva guardato e, compreso il mio imbarazzo, era restata in silenzio. Faceva scorrere le dita sui volti delle molte donne con cui il compagno aveva intrattenuto relazioni.
Queste, con i denti bianchissimi ben esposti, sembravano irriderla, al riparo nei vetri spessi delle cornici. La donna ne pronunciava il nome quando riconosceva qualcuna.
Mantenendo un braccio poggiato alla parete, aveva iniziato a piangere sommessamente. L’ultimo ricordo che conservo di quella notte è il goffo tentativo di consolarla, offrendole un fazzoletto di stoffa che la donna aveva rifiutato con garbo.
Arrivato a casa, il tempo di liberarmi della divisa, mi ero addormentato subito. Avevo sognato la donna minuta che, mani sui fianchi e sguardo feroce, dopo averlo interrogato a lungo, aveva lasciato il compagno in quella stanza. Insieme alla menzogna della propria felicità, opaca e bugiarda. C’era anche Sergio in quel sogno lineare.
Appeso alla corda di canapa al lampadario le diceva «Amore, aspetta! Lascia che ti spieghi…»
La vita di lui piena di successi e di effimero ma vuota di veri sentimenti. La vita di lei fatta di amore silenzioso e compiacente.
Per lui nessuna pietà, per lei nessuna consolazione.
Tristemente attuale
Un’affascinante e inquietante metafora dell’insondabile mistero del senso della vita e della morte
Sono le cose che non dici quelle che Ti uccidono.
A volte ti appendono a un lampadario, altre annegano nella solitudine.
Bello e triste allo stesso tempo.
Complimenti.
Grazie. Ma quanti complimenti! Sono felicissimo che questo piccolo esperimento di scrittura vi sia piaciuto. Alex
… C’è un tempo per cambiare ciò che non ci piace, che non ci appaga, che non ci rende felici …. Oppure quello in cui arriverà il prezzo da pagare per non averlo fatto… A volte il conto è alto. Questo racconto celo sbatte in faccia!
Arriva un momento nel quale le menzogne diventano insopportabili soprattutto per chi le pronuncia. Mi è piaciuto il tuo racconto, complimenti