Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2010 “La collana di corallo rosso” di Roberto Alba

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010

Teneva stretta la mano della sorellina mentre camminavano lungo la spiaggia, sotto la grande torre.
La loro estate era passata veloce come le altre, anche se quell’anno avrebbero fatto volentieri a meno del mare, del sole e di tutto il resto.
Erano le due del pomeriggio di uno degli ultimi giorni di vacanza di un insolito mese di Settembre.
«E’ qui che hai perso la collana?» le chiese con tono autoritario.
La piccola Francesca non rispose. Con gli occhi gonfi scosse la testa per dire un “no” di cui non era sicura.
Carlo la guardò in malo modo: «Possibile che non ti ricordi? Sei una stupida!» urlò strattonandola e continuando a camminare.
«E’ qui?» chiese ancora, indicando un altro punto.
Rimase in silenzio e questa volta non riuscì a trattenere le lacrime.
«Non devi piangere, mamma non vuole!» le ordinò severamente.
Lei non riusciva a calmare la rabbia di non ricordare; i suoi sette anni erano messi in evidenza dall’angoscia del suo mutismo e dal suo pianto. Si lasciò andare tra le braccia del fratello, di poco più grande, disperata e inconsolabile.
Lui la strinse forte: «Non fare così, vedrai che adesso la troviamo» disse, cercando di apparire forte per tranquillizzarla ma a stento riuscì a trattenersi dal piangere anche lui: si dice che le lacrime siano contagiose, provocate da uno spirito burlone che si prende gioco della nostra tristezza.

La zia Matilde con lo zio Agostino erano arrivati quella mattina. Carlo non li aveva mai visti prima; erano la sorella della mamma con il marito. La nonna raccontava che a causa dei suoi cattivi rapporti con il nonno lei aveva lasciato il paese per trasferirsi a Follonica, sul continente. Adesso era ricca, “aveva fatto i soldi”. La zia gestiva un salone di bellezza e lo zio faceva il meccanico. Si davano un sacco d’arie, e lui pensava che quei due parlavano con un accento strano, anche se il loro dialetto sapeva di Genovese!

Una debole brezza portava sulla battigia delle piccole onde mentre Carlo scavava, come un cane da tartufo, attento a esaminare ogni granello della sabbia che rimuoveva.
Francesca ogni tanto singhiozzava, ma lo sguardo fermo e severo del fratello aveva l’effetto di bloccare il pianto pronto ad esplodere improvviso.
«Proprio non ti ricordi, vero?» le domandò rialzandosi e pulendosi le mani.
«No, non mi ricordo!» gli rispose imbronciata.
«Bene! Domani torniamo e cerchiamo meglio. Adesso è tardi». Le prese la manina e si avviarono verso la grande scalinata che dalla spiaggia portava alla piazza della torre.
Quello era il punto più alto del paese, poco distante la loro casa: un vecchio rustico rinnovato dal papà. Le mura di un bianco fresco, pitturate in primavera, con i bordi delle finestre di un azzurro intenso, si intercalavano, in una successione sempre uguale, tra vecchie e nuove costruzioni; tutta Calasetta, il loro piccolo paese sulla costa sud-ovest della Sardegna, aveva quei colori. Il signor Antonio era un pescatore di professione ma all’occorrenza anche un muratore: quando non poteva uscire con la barca a causa del mare grosso, si arrangiava con quello che capitava. Calce, pennello e cazzuola erano la sua specialità, aveva le mani d’oro!

Erano le tre quando arrivarono al portone d’ingresso della loro casa. C’erano quasi tutti i parenti, anche Gianni e Laura, i loro cuginetti, figli di un altro fratello della mamma: zio Gioacchino con la moglie Lisa. Giocavano per strada e tutti erano vestiti come se avessero dovuto partecipare ad un ricevimento. La zia era una matta isterica, stava sempre a urlare: “fermi di qua”, “fermi di là”, ”non toccare questo”,”non toccare quello”, la mamma diceva che quella donna era “malata”, lo zio, invece, era simpatico e li faceva divertire moltissimo. Quando imitava il verso dell’asino affamato, una specie di raglio con boccacce orribilmente interpretate sotto i suoi grossi baffi, loro morivano dal ridere. Poi lo zio faceva un lavoro importante: era cassiere in una banca di Cagliari e portava sempre dei bellissimi regali.
Quel giorno non ci sarebbero stati pacchetti da scartare…
A quella vista Carlo e Francesca corsero veloci ma dalla porta sbucò la nonna.
«Vi sembra questa l’ora di tornare a casa? Subito dentro!» urlò dall’uscio.
Abbassarono la testa e mano nella mano obbedirono velocemente a quell’ordine: non si poteva disobbedire a una donnona così imponente.
«Ma si può… dico io, siete degli incoscienti» urlò ancora prendendoli e trascinandoli nel bagno.

Il vapore avvolgeva tutto, sembrava di stare in una nuvola: si soffocava. Carlo e Francesca si spogliarono e immersero i loro corpicini nell’acqua tiepida. La spugna andava su e giù con forza, la nonna la muoveva energicamente e ogni tanto si asciugava gli occhi con il braccio.
«Nonna, stai piangendo?» chiese Francesca con la testa piena di schiuma.
La nonna non rispose, distratta e assorta nei suoi pensieri continuò a sfregare quei corpi quasi fossero sporchi di polvere di carbone come quelli di un minatore dopo 12 ore di lavoro nei pozzi!
«Ahia! Nonna mi fai male» urlò.
«Scusa tesoro mio!» disse e aggiunse: «Oggi nonna non sta molto bene!». La sua voce era triste e Carlo rimaneva immobile con la schiena sulla parete osservando la sua espressione: aveva gli occhi gonfi; lui era “grande” e sapeva.
«Mamma hai finito!». Era la voce della zia Matilde che urlava sguaiata da dietro la porta.
La nonna rispose decisa: «Si quasi» e la zia concluse: «E’ arrivata la macchina». Il suo tono li infastidiva. Forse era quello il motivo per cui se ne era andata, non era sicuramente simpatica. Certo che alla mamma non assomigliava neanche un po’, pensò Carlo.
Li asciugò con un grosso telo da mare giallo, questa volta senza fretta, lasciò passare il tempo quasi lo volesse fermare; guardava e accarezzava i suoi nipoti. Inginocchiata strinse forte Francesca, mentre Carlo la abbracciava da dietro, non riuscendo più a trattenere le lacrime.
«Adesso basta, su!» disse con un sorriso, «Aspettatemi qui e fate i bravi, vado a prendervi i vestiti».
La nonna uscì e loro rimasero ad ascoltare i bisbigli che provenivano dal corridoio. Più passava il tempo e più aumentavano di intensità e di quantità.
«La mamma sarà arrabbiata con me» sostenne Francesca.
«No, mamma non è arrabbiata» rispose Carlo asciugandosi le lacrime.
«E’ tutta colpa mia!».
«No, non è colpa tua».
«Perché c’è tutta questa gente?» gli chiese curiosa e preoccupata.
Carlo scosse la testa, le aveva già spiegato tutto: evidentemente non era riuscita a capire bene il significato delle sue parole, ma in verità lui non si era sprecato molto per farsi capire.
Entrò la nonna. «Ecco qua, adesso vi faccio belli» disse con un sorriso amaro e un gran sospiro.
«Ci sono tutti, tutti?» le chiese Carlo mentre infilava una maglietta bianca strettissima che aveva qualche difficoltà a far passare la sua testolina.
«Sì, tutti quanti!» gli confermò la nonna aiutandolo a sistemarsi.

Perfetti e composti si erano seduti su due delle sedie, sistemate per l’occorrenza lungo tutto l’andito, davanti alla porta della camera da letto dei loro genitori. C’era un via vai continuo. Non conoscevano tutte quelle persone. Quando si avvicinavano sorridevano e li accarezzavano. Loro rispondevano con un sorriso timoroso; quella situazione li imbarazzava parecchio.
«Chi sono quelli?» chiese Francesca a Carlo, indicando due uomini grandi e grossi vestiti di nero che erano appena usciti dalla camera della mamma e che andavano spediti verso la porta d’ingresso.
«Saranno dei dottori» rispose in maniera poco convincente.
«Però sono brutti» affermò lei. Attese un attimo e poi chiese: «Posso andare adesso dalla mamma?».
«Non si può!» rispose lui categorico.
«Ma io la voglio vedere» insistette ancora Francesca.
«Quando passa la nonna chiediamo il permesso».

La porta della camera si apriva e si chiudeva, entrava e usciva sempre qualcuno. C’erano anche i vicini, che loro non avevano mai visti così ben vestiti.
Francesca incrociò lo sguardo della nonna e non esitò ad alzarsi e a chiederle: «Posso andare dalla mamma?».
Lei guardò veloce Carlo e gli fece un cenno come per dirgli “accompagnala e stalle vicino”. Poi: «Sei una signorina grande adesso!» le disse dandole una carezza sulla guancia.
Il fratello si alzò, le prese la manina, come faceva di solito e, esitando, strinse quella maniglia.
«Apri dai…» disse la sorellina.

La stanza era piena di persone. C’era un gran silenzio e un gran caldo. L’unico rumore era quello del ventilatore installato a soffitto, con le pale che giravano a fatica; la mamma non lo sopportava, sosteneva che era un supplizio: preferiva sudare piuttosto che sentire quel cigolio.
Le persone si spostavano mentre loro avanzavano verso il grande letto.
Il papà era seduto con le mani giunte che gli coprivano il viso.
Carlo si avvicinò: «Papà, siamo qui…» gli sussurrò.
Lui si voltò. Gli occhi erano lucidi di pianto ma i suoi figli erano speciali e per questo sorrise stringendoli a sé. Carlo era un bambino a modo, bravo a scuola e rispettoso: un signorino; Francesca era dolce, generosa con due grandi occhi castani come la sabbia dorata bagnata dal mare.
Dalla finestra entrò una folata di vento che, per un attimo, spostò la grande tenda bianca di lino. Si era alzato il maestrale. Quell’estate non aveva mai smesso di soffiare. Ogni sera, alla stessa ora rinforzava sino al tramonto e poi calava, scompariva per ripresentarsi, puntuale, il giorno seguente.
I capelli di Francesca si mossero, mentre lei con lo sguardo fisso, come ipnotizzata, osservava la mamma distesa su quel letto vestita con un bellissimo abito bianco con gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto strette da un rosario e dalla sua croce con tutti quei fiori intorno. Il profumo era forte e nauseante, a Francesca non piaceva e starnutì con forza rompendo quel silenzio sospeso.
Rimase immobile senza parlare.
Trascinò il fratello alla sua altezza tirandolo per la maglietta: «Sta dormendo vero?» gli disse così piano che lui non riuscì capirla.
«Cosa hai detto?» le chiese lui.
«Se sta dormendo!».
«Ti ho spiegato che è andata da Gesù!» le rispose con la bocca che quasi le toccava l’orecchio.
Lei si inginocchiò sul letto. Voleva avvicinarsi e dare un grande bacio alla mamma, avrebbe voluto darle anche la collana, sapeva che la mamma teneva in modo particolare a quel gioiello che il papà le aveva regalato quando si erano sposati ma sentì la mano della zia Matilde afferrarle il braccio e spostarla indietro che quasi ruzzolò per terra.
«Lasciala stare!» urlò Carlo sferrandole un gran pugno sul braccio.
La zia non esitò e uno schiaffo lo colpì sul volto.
Se prima nella sala c’era un silenzio quasi liturgico in quell’attimo si scatenò un disordine rumoroso, da osteria, con commenti di ogni tipo. Francesca e Carlo piangevano “aggrappati” al loro papà; la signora Pina, la nonna, rimproverava la zia Matilde per il suo vizio d’agire sempre senza un minimo di riflessione e, questa volta, anche in maniera così poco opportuna: si parlavano urlando, rinfacciandosi venti anni d’incomprensioni. Arrivò anche la zia Lisa, zio Gioachino e zio Agostino; mancava solo il nonno e Carlo pensò che fosse un bene che fosse già morto altrimenti le cose sarebbero finite anche peggio: era solito rispondere con le botte alle parole e agli insulti, così raccontavano.
Tutto finì quando il papà si alzò e urlò: «Tutti fuoriii!».
In un attimo ritornò il silenzio.
Rimase solo con i suoi figli. La moglie Anna pareva sorridere come se tutto quello che era accaduto l’avesse divertita per l’ultima volta. «Vai e dalle un bacio» disse alla piccola Francesca.
Si asciugò le lacrime e carponi si avvicinò alla mamma stampandole un grosso bacio sulla guancia con le sue piccole labbra.
Anche Carlo si avvicinò a lei. Iniziò ad accarezzarle le mani sfiorando e toccando quel rosario, negli ultimi giorni l’aveva vista spesso pregare, sentì il freddo di quel contatto e si rattristò nel capire, senza alcun dubbio, che non l’avrebbe avuta più vicino a lui.
Quando la sorella si allontanò le carezzò il viso, quasi a voler imprimere, per sempre, nella sua mente quel ricordo.
La porta si spalancò e quei due uomini “brutti” vestiti di nero entrarono preceduti da una gran cassa di legno lucido, poggiata sopra un carrello; aprirono il coperchio della bara e con attenzione e fatica vi adagiarono il corpo della loro mamma.
Carlo e Francesca stavano in un angolo, in silenzio, a osservare ogni cosa. La nonna non avrebbe voluto ma il signor Antonio era stato categorico: “Fino all’ultimo staranno vicino alla loro mamma”.
Chiusero quella cassa e uscirono dalla stanza. La zia Matilde si affacciò ma il papà le diede un’occhiata sinistra e lei con risentimento chiuse la porta quasi sbattendola. Carlo si divertì molto nel vedere questo, in fondo la zia se lo meritava.
«Papà tu non sei arrabbiato con me, vero?» chiese Francesca.
«Perché?» rispose stupito.
«Per la collana!» ammise.
«Quale collana?».
Carlo s’intromise immediatamente: «Papà non l’ha fatto apposta… l’abbiamo cercata ma non siamo riusciti a trovarla.».
Rimase un attimo perplesso e poi esclamò: «Parlate della collana di corallo rosso?».
Francesca abbassò la testolina. Si era convinta d’averla persa: non sapeva come chiedere scusa.
Il papà guardò i suoi occhietti lucidi e vispi abbassandosi come se fosse piccolo anche lui. Tolse dalla tasca della giacca la collana fatta di piccoli grani di corallo con dei fili intrecciati tra loro. La teneva nel palmo della mano, nella sua mano callosa e ruvida.
«Non l’hai persa, papà la teneva con se» le disse a bassa voce e continuò: «devo mantenere una promessa…».
Francesca sgranò gli occhi sorpresa.
«Quale, papà?» chiese Carlo anche lui curioso.
«La mamma mi ha detto che dovevo darla a una principessa…» affermando questo sganciò il piccolo fermo e la mise intorno al collo della piccola e aggiunse: «… così da lassù ti starà più vicino».

***

Francesca si guardò allo specchio mentre con gesti lenti pettinava i suoi lunghi capelli. Un velo di trucco attenuava gli anni che ormai erano passati: ricordava. Si specchiò con un sottile sorriso e per un attimo le sembrò di cogliere il riflesso della mamma. La collana era lì, su ripiano del comò. La prese e la indossò come era solita fare in quell’occasione.
La porta della camera si aprì improvvisamente: «Mamma, papà ha detto che se non ti sbrighi partiamo senza di te!».
«Arrivo, arrivo!» confermò alla piccola Anna, la sua primogenita. La sua vita, i suoi affari ormai erano lontani da quel piccolo paese. Cagliari era una città caotica, anche se il mare riusciva in qualche modo a mitigare la sua nostalgia.
Era il 15 settembre del 2009, erano passati 35 anni dal quel triste giorno.
Oggi avrebbe rivisto il fratello Carlo e posato un fiore sulla tomba della sua cara mamma… e su quella del suo papà; un fiore per rinnovare un pensiero, per rinverdire un ricordo… a volte la vita ci dà dei grandi dolori ma, con il tempo, anche quando si è stati amati tanto, sbiadiscono e può diventare piacevole aiutarsi a tenerli vivi..
La macchina correva e lei non riusciva a smettere di accarezzare la sua collana di corallo rosso.

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3 commenti »

  1. Mi ha commosso….complimenti davvero.

  2. Una bella storia, davvero…

  3. Un racconto dalle tinte tenui apre un delicato squarcio su un nucleo familiare, affranto da una perdita, e si ravviva attraverso un imprevisto, irriverente litigio tra parenti. Bello l’affetto tra i due fratellini!

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