Premio Racconti nella Rete 2010 “Non c’é scampo” di Gianni Cesari
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010Non c’è scampo. Lieve come la sera alla fine dei lunghissimi pomeriggi dublinesi, un vento sottile, beffardo, inebriante e ruffiano, valica le Alpi, scivola leggero sul Nord industriale e viene a lambire le terre del Delta, fra cielo e acqua, carezzando amichevolmente il viso della ragazza, che sorseggia un aperitivo seduta poco fuori dal bar sulla spiaggia, al lido di Volano.
Gli occhi, di quello scuro indefinito, opaco e sinuoso, delle donne di palude lo scrutano indifferenti , come lui che prende atto della presenza estranea , tollerandola a sufficienza, immerso nei suoi pensieri. Non c’è scampo.
Il limitare del Boscone dove maestosi i cervi ormai da anni imperano indisturbati, segna il confine della sua vita, sospesa a metà tra inutile e pieno.
Inutile come la violenza che ha praticato da sempre, da quando al liceo picchiava quelli del collettivo studentesco, intenti a diffondere idee di pace fratellanza e solidarietà, perlopiù traslate dal capetto della FGCI locale, per il solo gusto di vedersi additare come il fascista della scuola,attirando l’attenzione e gli sguardi languidi di più di una fanciulla, ammaliata dal fascino oscuro e maledetto dei perdenti per l’onore.
Pieno come il suo cervello, di metastasi ormai alla fase terminale che rendono ogni decisione dolorosa come una crocifissione, ogni movimento uno scatto estremo, ogni ansito un anticipo di un’agonia che ancora non arriva. Non c’è requie.
La notte il sonno tarda ad arrivare, allontanato da incubi e fantasmi che sembrano accalcarsi attorno alla villetta,a un piano, casa di vacanza per famiglie, affittata per l’inverno, costruita attorno ad una piscina desolatamente vuota , che riempita d’estate supplisce, con odore insopportabile di cloro, all’opacità di un mare morente, rivitalizzato solo dall’assenza di piene del Po, quando non compaiono imprevedibili mucillagini.
In questo settembre morente, aspetta, seduto al bar del lido, mentre pochi isolati ombrelloni costellano il chilometro di spiaggia di rena grossa , fluviale in sostanza, che adduce al mare, offrendo inutile riparo a famiglie estoni, ceche e tedesche dell’Est, che con i prezzi di realizzo sfuggono all’incombente inverno nordico cercando a buon mercato esperienze esotiche in questo surrogato di riviera. Distante, fuori luogo, uno windsurf solca veloce le onde, poco più forti dell’ordinario, sobillate dal vento misterioso che scende da latitudini inusuali, anticipando l’arrivo dell’autunno nella bassa, inesorabile e bellissimo, con i suoi rossi e marroni, il passo delle beccacce e dei primi uccelli di valle.
Aspetta fumando Gauloises, finché non sente il rombo dell’Alfa GTV del comacchiese, che accompagna i compari croati, discesi apposta attraverso la Slovenia, fermatisi a Venezia per un giro di roulette e per ritirare da certi amici che gestiscono un giro di squillo di lusso, destinate al fiorente mercato dei puttanieri triveneto, le loro armi, dalle quali mai si separerebbero, avendoli accompagnati in tutta la guerra d’indipendenza ma soprattutto nella pulizia etnica dai maledetti bosniaci, musulmani feroci, sterminati spesso a mani nude nel nome del conflitto di civiltà, che là, per fortuna è stato vinto. Lo lega ai croati l’antica fede cristiana, il culto di Pavelic, la spietata freddezza.
Al loro arrivo si baciano tre volte, mentre il comacchiese si ferma un passo indietro. Ha baffi a manubrio, piegati all’ingiù, secco come un chiodo, la faccia scavata, gli occhi cerulei schermati dai Ray Ban a specchio, taciturno e discreto. Aspetta che gli stringa la mano e lo inviti a sedersi.
La ragazza telefona, apparentemente immersa in discorsi d’amore, sussurra, ride, si imbroncia, con una fare naturale che induce alla fiducia.
Bevono vodka e Montenegro ghiacciato, mangiando noccioline e pistacchi secchi. Su un tovagliolino lui spiega il lavoro, disegna la superstrada che dalla città porta al mare, segna, con grafia tremolante un quadrato che rappresenta il blindato dei vigilantes che farà il giro dei supermercati sulla Romea e che nella notte, verso le dieci, correrà in direzione della città per depositare il tutto nella sede centrale della cassa di risparmio che monopolizza la provincia con i suoi sportelli.
Non costerà fatica, la via di fuga è perfetta, uno stradello che fiancheggia la superstrada, sul quale ci si può immettere facendo saltare un pezzo di guard rail e che collega alla provinciale per Codigoro, da dove, passando per Caprile, si può arrivare ad Adria e di là prendere per il confine in tre ore.
Ridono i croati, non sembrano nervosi, lui fuma ma non beve, fuma forte, aspetta la risposta. Non può essere che un si, nessuno ha paura e di nessuno ci si deve spaventare. I vigilantes, padri di famiglia a milleduecento euro al mese non se la sentiranno di rischiare, di fronte al razzo controcarro che fa parte dell’arsenale dei compari dalmati e la blindatura del furgone è troppo leggera per assicurare loro l’incolumità. Si farà e basta.
La ragazza continua a parlare al telefono, sorride e sbircia da sotto gli occhiali Chanel, sembra lanciargli un’occhiata d’intesa, lui alza il bicchiere che prende a prestito dal comacchiese ma lei si gira, indaffarata a rispondere ad un secondo cellulare.
Definiti i dettagli e le parti tutti si avviano: si vedranno domani alle nove, nell’ area di servizio sulla Romea, ai Monticelli. Con tutto il necessario. Lui pure, dolente, si alza, incuriosito e infastidito dalla frivolezza della donna che continua a cinguettare, ciarliera, nel suo telefonino colorato. Le passa accanto e lascia un tovagliolino, che aveva preparato prima, col suo numero di telefono. La donna lo guarda, sorride, alza il secondo negroni che sta bevendo da quando è arrivata, al suo indirizzo e prosegue nel suo chiacchiericcio inutile.
Rientra nell’appartamento, da una valigia sotto il letto estrae un panno in cui sono involte una mitraglietta Heckler Koch, una Beretta 92 F 9×21 Cougar e una Ruger 357 magnum. Le accarezza, le olia, scarrella e va in puntamento, sente lo scatto secco del revolver. Poi le carica , coscienziosamente. Quattro caricatori bifilari da 60 colpi per la mitraglietta, cinque da 12 per la 9X21, che ripone in un marsupio di pelle, tre margherite da cinque colpi per la 357, che terrà nelle tasche laterali dei pantaloni multitasca che indossa.
Si stordisce di valium e Glen Grant, per cercare di assopirsi. Da un mondo lontano arriva distorto e rombante il suono di un cellulare. Sono le due. La ragazza lo invita a raggiungerla, alla Rotonda Music Hall. Interdetto, prende tempo, riflette. Potrebbe essere l’ultima volata che fa con una donna. Chiede tempo. Per le tre sarà là. Si rade, una doccia, niente biancheria per far prima.
Mette in moto il fuoristrada che useranno domani, per tamponare il blindato, mentre i croati, che lo avranno superato con un vecchio camion frigo per le vongole, attaccheranno il parabrezza esplodendo la prima raffica di Mg 42/59 montata su treppiede e caricata a traccianti, per presentare il loro biglietto d’invito ai vigilantes.
Non porta armi, non porta documenti, solo il telefono pulito, che userà domani per i collegamenti ed il cui numero aveva lasciato alla donna , senza credere che l’avrebbe richiamato.
Alla porta della discoteca due negri enormi, con le radioline auricolari fanno da buttadentro. Lui non si avvicina. Cerca sulla rubrica del cellulare le chiamate ricevute e, selezionata l’ultima, preme invio. Dopo due tentativi, la voce calda e invitante che un’ora prima lo aveva eccitato, lo accoglie rotta dal ritmo della danza. Entusiasta, la ragazza si precipita all’ingresso, sbrigativamente bisbiglia qualcosa all’orecchio di uno dei gorilla e gli fa cenno di accomodarsi. Nessuno gli chiede nulla.
Il fuoristrada l’ha lasciato, in un’area buia, molto distante dall’ingresso, sotto un lampione spento.
Mentre si appoggiano al bancone per il primo drink, silenziose e sicure, dal punto più scuro dell’ombra, protette dai mephisto e dalla luci schermate delle torce d’assalto, tre figure longilinee armeggiano attorno al pesante suv a trazione integrale. Una scivola sotto la scocca,mentre le altre due si danno da fare con le serrature, tutt’attorno saettano e s’incrociano fasci luminescenti di mirini telescopici all’infrarosso.
I bassi gli annebbiano il cervello, la ragazza, che calza lunghi stivali da corsaro sotto una minigonna, molto mini, di pailettes rosse e indossa un top nero incrociato sul davanti, porta i capelli raccolti in una coda giapponese e alle orecchie due cerchi enormi, gli parla a distanza ravvicinata, sforzandosi per imporre la sua voce roca e profonda sulle punte più alte dei treebles che il dj sta in quel momento pompando, mentre su piattaforme rialzate si dimenano, vestite una da angelo e una da diavolo, due rosse balcaniche, accerchiate da pescatori in libera uscita, operai delle vicine aziende di conservazione, cinquantenni dagli occhi troppo rossi e dai nasi stranamente dilatati.
Lo trattiene, non vuole uscire, contrariamente a quel che lui propone, vuole stordirsi con altri drink,guarda nervosa ogni tanto il piccolissimo cellulare che ha nella microborsa trasparente che porta a tracolla. Mentre lui la cinge, chiedendole con garbo e misura di accompagnarlo a respirare un po’ lei, ansimando, risponde al telefono che ha iniziato a lampeggiare e vibrare. Poi, più rilassata, accondiscende alla sua richiesta, facendogli già pregustare la degna conclusione di quella serata imprevedibile. Saluta, dopo aver indossato un improbabile pellicciotto fuxia che le copre solo le spalle e le braccia, i due giganteschi energumeni che poco prima aveva convinti a farlo entrare.
Lui la tiene per la vita, inebriato dal profumo del mare e dal silenzio che prevale su quella bolgia infernale. Mentre percorrono il viottolo di sabbia battuta che conduce alla piazzola dove ha lasciato il fuoristrada una utilitaria gialla, di quelle con lo stereo potentissimo, attraversa la strada e si ferma in mezzo alla carreggiata, impedendo loro di proseguire. Istintivamente porta la mano al fianco, a cercare la 357, che però ha lasciato a casa. Si abbassa il vetro oscurato, un ventenne con sei piercing all’orecchio e uno al naso, la testa rasata tutta, a parte una cresta blu di circa sei centimetri d’altezza, con indosso un chiodo, strani pantaloni a sigaretta optical e i doc martens di rigore, togliendosi i sottili occhiali da sole a mascherina saluta la ragazza, che si slancia dentro l’abitacolo per baciarlo sulle guance. Il giovane propone una puntata a Rimini, lei si gira e gli chiede se gli va. Fermo, intirizzito, eccitato, scazzato, oscilla la testa lentamente , con un moto continuo e lentissimo.
Deve essere fresco, manca già un quarto alle quattro e la notte avrebbe voluto concluderla in altro modo. Lei gli struscia, contro, sussurra, gli infila la lingua in un orecchio, poi scusandosi, accarezzandolo e ricordandogli che il numero di telefono ce l’ha lo invita a richiamarla dopo le due del pomeriggio. Sale sulla macchina gialla, il cui vetro fumè già si alza e sparisce, nel buio. Lui segue con lo sguardo il fanalone antinebbia che va rimpicciolendosi e spegnendosi in maniera proporzionale alla distanza.
Ritorna intronato nell’appartamento, finisce la bottiglia di whisky e si mette a letto, avvolto nel piumone, vestito.
La macchina gialla adesso ha un lampeggiante blu sul tettuccio e sfreccia a 200 all’ora sulla superstrada, verso la Questura.
Il rifornimento dei Monticelli è il più grande sulla Romea, sembra quasi un autogrill dell’autostrada. E’ il punto ideale per incontrarsi senza essere notati e fare gli affari propri in tranquillità. La stradale non si ferma quasi mai e i camionisti lo preferiscono. C’è un bar capiente, dal quale si domina un tratto di strada e ci si può sedere per un caffé o una birra. Oggi i croati sono arrivati prima, c’è la GTV del comacchiese ed il camioncino frigo, parcheggiato quasi dietro il bar. Lui arriva puntuale, alle sette e mezza, posteggia il fuoristrada vicino al camion. Ha dato fondo a tutti gli antidolorifici rimasti, compresi i farmaci a base di oppiacei. Si muove e percepisce i suoni come in una bolla, gli arrivano attutititi, anche se i riflessi sono scattanti e le reazioni pronte. La pressione delle metastasi , che prima gli appariva incontenibile, ora la riceve come comprimibile e tollerabile.
Fuori dal bar fuma un croato, guarda la strada e aspetta di veder passare il blindato. Non si devono conoscere, non si considerano. Il comacchiese, al bancone, sorbisce il caffé. Lui si avvicina, dovranno essere insieme sul fuoristrada, quando si tratterà di mostrare il lanciarazzi. Ordina una sambuca e prende dall’espositore una tavola di cioccolato fondente purissimo, per tener desto ogni senso. Quando il croato butta a terra la cicca i suoi amici escono dal bar e si dirigono al camioncino: due salgono avanti e due aprono il portellone, uno scarica un sacco di juta che infila sotto il fuoristrada, poi partono, senza far troppo rumore. Anche il comacchiese che esce dal bar mentre lui è già al posto di guida, ha estratto e sistemato il piccolo lanciamissili, forse un Milan, tra i due sedili dell’alto gippone. Quando il comacchiese sale a bordo, studia con occhio attento il meccanismo di puntamento e sparo.
Nel giro di tre semafori sono a ridosso dell’obiettivo, il camion frigo davanti ed il fuoristrada dietro. L’orario è quello giusto per una sera di inizio autunno. Non ci sono quasi macchine che vanno verso la città. Non appena il blindato, che ha ultimato il suo giro di supermercati e dovrebbe essere pieno come un uovo, imbocca la superstrada in direzione della città, il camion frigo accelera, fino quasi a distanziarlo, mentre il fuoristrada rallenta, fin quasi a perderlo di vista. Poi, dopo un paio di chilometri, quando la strada è immersa solo nel buio e non sopraggiungono veicoli né in direzione del mare né in quella della città, il telefono squilla e lui da il segnale d’attacco. Il camion frigo adesso è in mezzo alla strada, di traverso, in modo che non possa passare nessuno. Il portellone laterale è spalancato e i due croati, indossato il passamontagna, sono in posizione, dietro la possente mitragliatrice caricata con proiettili perforanti e traccianti.
L’autista del blindato è come ipnotizzato. Sa cosa sta succedendo. Rallenta. Si ferma. Tenendo sotto controllo l’adrenalina parla attraverso un microfono auricolare. I croati non hanno nemmeno bisogno di esplodere la raffica. Il furgone blindato si è fermato. Sordo giunge il botto del rostro del fuoristrada che tampona il portellone più volte, poi fa retromarcia, accende tutti i fari e lascia che il comacchiese, alzato il collo del pile e calato il coppolino di lana nero sugli occhi si posizioni nella luce, tra il fuoristrada e il blindato, imbracciando il lanciarazzi. Il portellone si apre d quasi subito. Prima vengono scaraventati fuori due fucili a pompa e due pistole, poi i vigilantes buttano in strada tre sacchi legati tra loro con una catena d’acciaio ed infine escono con le mani sulla testa, pallidi e tremanti. Lui scende e recupera i sacchi, gettandoli nel bagagliaio. I croati, nel frattempo hanno liberato la strada e , con due cariche ridotte, hanno fatto cadere il guard rail che immette nella stradina. I vigilantes sono tutti stesi a terra dieci metri dietro il blindato mentre il comacchiese fa partire il razzo anticarro, filoguidato, che incenerisce il furgone. Stranamente nessuno si è fatto male. Nemmeno i croati, di solito sensibili all’odore del sangue, hanno esagerato con la loro mania di ammazzare tutti, ovunque e comunque.
Adesso è il fuoristrada ad anticipare il camioncino frigorifero. A fari spenti, con il 4X4 inserito, percorre lo stradello a velocità sostenuta. Il comacchiese, con un serramanico di trenta centimetri, affilatissimo, tenta di aprire i sacchi, al cui interno sente chiaramente il peso e la forma delle mazzette di denaro, da 10, 20 e 50 euro.
Resta solo un ostacolo, prima di arrivare alla statale che porta ad Adria e di là verso il confine. Un vecchio ponte baileys retaggio del passaggio del fronte, nel ‘45, passaggio obbligato. Mentre guida controlla ogni tanto il telefono, sia per tenere il collegamento con i croati sia per vedere se la ragazza si ricorderà di lui.
Rallenta prima di imboccare il ponte. Quando entrambi i mezzi ci sono sopra, come dal nulla un faro, dall’alto, li illumina e il lato veneto del ponte si chiude. Ci sono blindati e nell’oscurità, sulle campate metalliche del ponte si distinguono nere, le figure dei tiratori scelti. Il Comacchiese non ha ricaricato il lanciarazzi, ma arma la Heckler Koch e, imbracciatala, si sporge dal finestrino, sventagliando da sinistra a destra. Mentre guida, riesce appena a vedere i puntini rossi che appaiono sul busto del suo compagno e poi sente i grossi calibri dei fucili di precisione trapassarlo da parte a parte, rimanendo inondato dal sangue che schizza copioso dai fori d’uscita. Il comacchiese rimane con le gambe nell’abitacolo e il busto piegato, a testa in giù all’esterno della macchina. Il fuoristrada è quasi fermo, le gomme anteriori afflosciate dalle bande chiodate, comparse anch’esse all’improvviso. I croati hanno fatto una rapida marcia indietro ma, dall’alto, un razzo micidiale e silenzioso ha polverizzato l’abitacolo, lasciando i due nel cassone inebetiti ed incapaci di azionare l’MG.
Mentre ingrana la retromarcia sente le forze mancargli, si tasta, non è colpito, ma un fiotto di sangue comincia a colargli dalla bocca. Le metastasi hanno finito il lavoro al posto dei poliziotti. Mentre la vista si annebbia, sente il telefonino che vibra, davanti a lui sul cruscotto. Poi la luce di una torcia gli illumina il volto. La ragazza impugna a due mani la torcia e la pistola. Non ha più occhiali Chanel, minigonna e stivaloni ma una sobria mimetica della polizia, Nocs. Gli poggia due dita sulla giugulare, lo tasta e lo disarma, poi sicura che tutto sia in ordine, dalla tasca dell’uniforme estrae il suo cellulare e chiude la chiamata. Con le stesse due dita con cui gli ha tastato la gola gli carezza, lentamente, la guancia.
Mentre si abbandona alla fine sente un bacio sfiorargli la bocca.
La violenza che il protagonista aveva esercitato sugli altri e su cui aveva improntato la sua vita gli si ritorce contro nella forma del cancro che divora la sua vita.
Interessante l’intreccio, alcune parti descrittive, tra le quali quelle riguardanti gli stati d’animo del protagonista e il finale.
Grazie per l’asciutto commento. Il cancro domina l’esistenza del mio personaggio sia sotto il profilo clinico sia sotto quello interiore, ma è comunque da molto tempo assuefatto al “male”.
Mi spiace che il commento ti sia sembrato asciutto. Ritengo che il racconto sia bello. Complimenti anche per la dovizia di particolari (il linguaggio tecnico) riguardante alcuni aspetti.
Ma anche il tuo commento non gli rende giustizia come se non l’avessi scritto tu.
Sono in effetti un po’ deluso dato che, sempre con storie noir, talvolta commentate positivamente da più lettori, ho già partecipato altre due volte a questo concorso (e se sono ancora qui a scrivere vuol dire che non son andato benissimo). E poi , comunque, il noir o polar, come lo intendeva Manchette, al quale deliberatamente mi ispiro nell’incipit di questa storia, non fa mai troppa simpatia….
Io è la prima volta che scrivo dei racconti, non so se valgono qualcosa, ma di sicuro posso dire che riflettere sulla vita attraverso la scrittura dà più senso alla mia vita, mi fa capire a che punto sono, quale direzione voglio seguire e poi penso che l’effetto più bello del premio consiste nel permetterci di vivere vite diverse, di toccare argomenti importanti entusiasmandoci e di affrontarne altri più leggeri e divertenti: è un vero arricchimento: che bello! Per il resto di estimatori del noir nel mondo ne troverai! Scrivi per te stesso di te stesso e attraverso di te degli altri e comunque vada sarai un vincente!!!
Ho già scritto e pubblicato qualcosa con Giulio Perrone Editore ( che però è una sorta di contenitore che vende autocompiacimento ai dilettanti ) – tre racconti in tre distinte raccolte, e condivido quanto dici circa la bellezza dello scrivere e del confrontarsi con se stessi e con gli altri. Per parte mia io sono, nella vita, un vincente, ma questo hobby, per il momento non mi da le soddisfazioni che vorrei, per questo ci provo con i concorsi….. 🙂
Capisco, essere apprezzati da una giuria di qualità gratifica ed invoglia ad andare avanti!