Premio Racconti nella Rete 2017 “Il silenzio” di Elisa Veronesi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017Z si era messo in testa di cercare il silenzio.
Quella mattina si era svegliato più determinato del solito. Oggi lo trovo. Tre parole. Fine del silenzio.
Fissava il soffitto cercando qualcosa nel bianco; era rimasto a fissare il soffitto e basta. La luce entrava dalle tapparelle socchiuse e si rifletteva a pallini sul muro, obliqua:
un’automobile che passava nel vialetto, qualcuno che tossiva nell’appartamento a fianco, un cane che abbaiava, il traffico in lontananza arrivava nitido, continuo, scandito da qualche colpo di clacson, gli uccelli cantavano, dei passi scendevano per le scale, una mosca ogni tanto ronzava nella stanza, l’acqua di una doccia scorreva abbondante dall’appartamento di sopra, proprio sopra la sua testa.
È impossibile. Due parole. Più ascoltava, più i suoni gli venivano chiari, nitidi, fattuali nel loro essere suoni, nel loro essere qualcosa, nel loro essere e basta: cane, auto, uomo, clacson, acqua. E più si metteva in ascolto meno ne avvertiva la materialità, il suono in quanto suono, il puro suono, non sapeva nemmeno lui che cosa stesse pensando in realtà, che cosa stesse ascoltando, che cosa volesse dire. La realtà del suono forse, la sua verità di suono, ma la realtà del suono non era altro che il cane, l’auto, il clacson: questi erano i rumori che erano i suoni che erano tutto quello che esisteva per davvero. Niente silenzio, dunque. Neanche per oggi. Neanche per sogno.
Non è che Z non avesse altre cose da fare, in realtà: alzarsi la mattina, lavarsi la faccia e le ascelle, fare la pipì, vestirsi, fare un’abbondante colazione, preparare il caffè, spremere le arance, inzuppare i biscotti nel caffè, leggere il giornale, salire in auto e immettersi nel traffico prestando attenzione alla strada, andare al lavoro, ascoltare la radio o fare qualche telefonata nella mezz’ora di viaggio che occorreva per arrivare, passare le prime quattro ore della giornata svolgendo al meglio le sue funzioni lavorative, mangiare nell’ora di pausa pranzo, scegliere che cosa mangiare e con chi, lavorare per le restanti quattro ore della giornata, uscire dal lavoro, immettersi nel traffico, ascoltare la radio, telefonare, passare in lavanderia, pagare il ritiro delle camicie lavate e stirate, andare a bere qualcosa con un amico, dare da mangiare al gatto, fare la doccia, magiare per cena, decidere che cosa mangiare e dove, andare al cinema, tornare a casa, bere un bicchiere d’acqua, togliersi i vestiti, andare a dormire: dormire: leggere, pensare, sognare, rigirarsi.
E non è che tutte queste cose siano le sole cose che Z avesse da fare, non basterebbe un unico lungo elenco per registrarle tutte, per elencare tutte le cose e le cosine e tutte le minime azioni che doveva compiere nell’arco di una giornata e tutte le minuzie e le parentesi che si aprivano e che si richiudevano tra la portiera dell’automobile e l’ingresso dal panettiere, tra una corsa al parco e un caffè al bar, tra il salire le scale e il portarsi la forchetta alla bocca, tra uno sbadiglio e un prurito all’orecchio. Centinaia e migliaia di cose da fare.
Z era dunque molto impegnato a fare tutte quelle cose che occupavano – nel senso dello stare – nel senso che erano tutte collocate in uno spazio tempo precisissimo – tutti i giorni, tutti quanti i giorni uno dopo l’altro in fila e tutti gli spazi uno dopo l’altro in ordine.
Z aveva così deciso di incominciare a cercare il silenzio dai luoghi che gli sembravano i più ovvi – ormai molto tempo prima di quella ennesima mattina piena di rumori – l’idea era stata quella di cercare negli spazi vuoti, nelle ore buche, in quelle ore povere di argomenti, di appuntamenti, di scadenze, negli intervalli, tra una cosa e l’altra: nell’attesa di qualcuno, in fila alla cassa del supermercato, mentre aspettava che si scaldasse l’acqua della doccia, a un semaforo rosso, in fila alla mensa; si era messo in ascolto nei ritagli di tempo convinto che, con un po’ di fortuna, potesse trovarsi proprio lì almeno un po’ del silenzio che cercava.
Ma ben presto aveva scoperto che non c’era nulla di più rumoroso di una fila al supermercato, o del rumore del traffico fermo al semaforo, o quanto fosse rumoroso il silenzio nell’attesa della persona con la quale abbiamo un appuntamento qualsiasi: il rumore dei suoi passi che andavano e venivano, delle dita della mano che picchiettavano il tavolino, della lingua che batteva e ribatteva contro il palato, del respiro che diventava ogni minuto più pesante.
Z a quel punto aveva iniziato a restare sveglio di notte, con la testa a penzoloni e gli occhi gonfi, e a girare per casa convinto di essere sulla buona strada. Aveva deciso di sacrificare le ore di sonno per la sua ricerca e di passare le notti sveglio a cercare il silenzio. Come fiutava un angolino, zitto zitto, si metteva in ascolto e quando era sul punto di dirsi che ce l’aveva fatta, che l’aveva trovato, ecco che una zanzara prendeva a girargli intorno; oppure la sua pancia si lanciava in potenti gorgoglii intestinali: niente silenzio. Il solo suono dei suoi piedi nudi sulle mattonelle riempiva di rumore la stanza intera: una specie di spugna che aderiva a ventosa al pavimento interrotta da improvvisi scricchiolii di ossa che si muovevano le une contro le altre. E se provava a fermarsi nel punto esatto nel quale si trovava, se provava a rimanere fermo, ma proprio immobile, proprio con tutte le ossa ferme e con tutti i muscoli in tensione verticale risucchiati dalla forza di gravità, ecco che immancabilmente si era fermato proprio sopra alla camera da letto del vicino di casa del piano di sotto, e allora incominciava a sentire ogni sua russata ritmicamente scandita: e allora tutto il corpo veniva nuovamente sbattuto giù, si disarticolava rumorosamente sul pavimento con tutto un frastuono di ossa e di respiri non più trattenuti.
Aveva scoperto che tutta la casa era piena di rumori: il frigorifero che attivava i suoi ricicli di calore, la caldaia che si attivava dopo un certo tempo, persino la piccola lampadina che teneva attaccata nel corridoio, se accesa, emetteva come un sibilo continuo, una linea rumorosa quasi impercettibile, ma presente. Nelle notti di vento le tapparelle sbattevano, il legno degli armadi produceva schiocchi potenti, l’acqua gorgogliava nei tubi dei riscaldamenti.
Ma sulle notti aveva insistito, era convinto che se il silenzio esisteva davvero allora non poteva che trovarsi nel buio, sul limitare del sonno, fuori da qualsiasi impegno diurno di lavoro, di socialità, di dover fare, sulla riga sottile che separa la veglia dal sogno, negli occhi chiusi, nella posizione lunga distesa, nell’abbandono muscolare che prelude al rallentamento di tutte le funzioni vitali: e così, ogni volta, finiva per addormentarsi quasi per una forma di autosuggestione.
Per restare sveglio aveva incominciato ad uscire di notte. Ma la città era una forma di vita così costantemente vigile che gli era bastata qualche ora per annotarsi tutto un lungo elenco mentale dei rumori che lo avevano investito al solo uscire di casa: le luci elettriche ronzavano continuamente, i taxi, le auto, gli autobus notturni, le vetrine illuminate a giorno piene di meccanismi elettrici, i bagni pubblici sempre aperti, qualche uccello notturno che svolazzava da un tetto all’altro, qualcuno che rientrava a casa a tarda notte camminando velocemente, un gatto che sgusciava lungo un marciapiede, gli alberi mossi dal vento.
Niente da fare dunque. Niente silenzio.
Eppure non era una forma di pace quella che cercava. Era solo una forma di vita. Era una forma qualsiasi, un modo come un altro di restare, di stare, di essere.
Non aveva tempo di cercarlo in altri spazi, pensava. Aveva provato ad alzarsi la mattina presto, ma non era mai abbastanza presto. C’era sempre qualcuno già sveglio: l’edicolante, il fornaio, il netturbino, il poliziotto, il barista, il pasticcere, il medico di turno. A forza di alzarsi presto stava ritornando nel cuore della notte, e lì sapeva bene che del silenzio non c’era nemmeno l’ombra.
Così Z aveva preso un’altra decisione: avrebbe iniziato a cancellare alcuni impegni delle sue giornate per dare spazio alla ricerca.
Aveva incominciato a cancellare appuntamenti dall’agenda: con la penna tracciava linee dritte sopra all’orario e alle cose da fare: cancellava. Adesso parte del suo tempo era dedicato alla cancellatura. Gli impegni che aveva preso venivano sistematicamente annullati; avrebbe preso impegni per annullarli. Via le cene, gli aperitivi, il cinema, gli incontri, la spesa era stata relegata a pochi minuti, niente lavanderia, niente negozi, niente di niente. Forse se avesse eliminato tutte le cose da fare e avesse avuto tutto il tempo a disposizione allora il silenzio sarebbe stato a portata di mano: l’avrebbe trovato; finalmente avrebbe potuto ascoltarne il suono, il tempo, ne avrebbe misurato lo spazio, lo avrebbe visto, forse, forse il silenzio aveva un contorno, una specie di bordo un po’ spesso, aveva un suo spessore, una sua forma, una sua propria consistenza.
Seduto sulla sedia Z fissava la finestra. Quella mattina tre parole avevano rotto il silenzio e tutta una serie di rumori si erano trascinati dietro correlativi oggettivi di cose, di eventi. Fuori la pioggia cadeva fitta e il vento la faceva muovere da una parte all’altra come fosse stata una cosa così tanto leggera che la sola presenza dell’aria poteva farla oscillare e cadere. Il ticchettare delle gocce sui vetri arrivava ritmico, regolare.
Z era rimasto lì così, ad ascoltare il battito della pioggia e a furia di ascoltare si era accorto che non era più la pioggia quello che sentiva, era il ritmo del respiro che oscillava e cadeva anche lui e andava e veniva e restava lì con lui e con la pioggia e con il tempo ripieno di tempo che era lì anche lui, come non ci fosse altro intorno, come se tutto quello che si poteva ascoltare fosse tutto lì in quel momento, in quel punto esatto, preciso: nel bel mezzo del silenzio.
Complimenti, bella narrazione
Elisa,
bello il tuo racconto. La necessità di Z di trovare il silenzio, questa “forma qualsiasi, un modo come un altro di restare, di stare, di essere” (adoro questa frase!) l’ho percepita con intensità sempre crescente a mano a mano che andavo avanti nella lettura. Sei riuscita a trasmettere la sua angoscia in più punti, e soprattutto sei stata in grado di trasformare le tue parole in rumori e suoni. Ho sentito tutto quello che sentiva Z, dal ritmo frenetico delle sue giornate al gocciolio della doccia al piano sopra il suo. Mentre alla fine tutto si conclude con un dolce dondolio, il ritmo del respiro e finalmente il silenzio. Grazie per tutte queste sensazioni!
Grazie Luigi Cantini
Grazie Carola Maselli per il tuo dettagliato commento. Uno dei motivi che voleva spingere la narrazione erano proprio le sensazioni concrete, fatte sopratutto di elenchi e il ritmo voleva essere proprio quello che tu descrivi! Grazie davvero!
Una forma di paranoia addolcita dalla poesia, che forse è a sua volta una forma di paranoia. Un’ossessione che si può prendere a simbolo del vivere contemporaneo. Fratello di questo irraggiungibile silenzio, nella nostra quotidianità, potrebbe essere il buio, una realtà quasi estinta nell’arco delle nostre 24 ore standard: una forma di silenzio visivo. Complimenti, un racconto di grande spessore.
Si percepisce il senso dell’ossessione, del rumore tramite il ritmo della narrazione e questa ricerca del silenzio, che avviene alla fine come una catarsi. Complimenti, Elisa.
Che bel racconto, Elisa! Nel bel mezzo di un temporale ho sentito tutti i rumori da te descritti. Le parole sono efficaci e dall’inizio del racconto fino alla fine il mio udito passava da un suono all’altro. Hai creato un effetto bellissimo con le parole, brava e in bocca al lupo.
Grazie dei bellissimi commenti
@Ugo Mauthe: bell’idea quella del buio, in effetti ci sono molti “fratelli” di questo silenzio nel mondo contemporaneo
@Eleonora: grazie per il riferimento al ritmo, in effetti per me è qualcosa di intrinsecamente legato alla scrittura e che aiuta le parole ad avvicinarsi maggiormente alle cose, alla vita
@Aurora: grazie per le parole che creano suoni!
Ciao Elisa, ti confesso che volevo scrivere un racconto sul silenzio e la tua fantasia me l’ha rubato. Mi è però capitato di passare una notte in solitudine in una baita senza corrente elettrica a duemila metri. Ti dirò che il silenzio totale non è proprio rasserenante, forse per l’abitudine che ha il nostro orecchio a sentire tutti i rumori che hai elencato con dovizia di particolari. Brava
Ciao Michele,
grazie per la tua esperienza di silenzio alpino…il silenzio che volevo raccontare non voleva essere rasserenante in realtà, ma voleva solo essere uno specchio che ci facesse sentire i rumori nei quali viviamo, senza che necessariamente fosse un qualcosa di positivo o negativo; voleva solo essere una “descrizione”, la catarsi finale non è in realtà una catarsi, ma un momento, brevissimo, che può accadere a ognuno di noi, oppure può non accadere mai, ma che dura un istante brevissimo, per poi ritornare ad una vita piena di rumori…
grazie!
Bella questa storia di Z che mi ha ricordato, a tratti, certe pagine strampalate di Rodari, come quella del Barone Lamberto, che si impiantano come vorticose ossessioni ma solo per farti vedere che, se la fantasia ti porta a spasso, non è mai per farti paura ma anche solo per farti approdare su un punto puro e semplice. Che nel tuo caso è nel bel mezzo di un respiro. Complimenti di cuore per questa bella sperimentazione.
Grazie Simona del tuo bel commento!
Bel racconto Elisa. Mi hai fatto pensare a quei momenti, che sembrano interminabili, che precedono un sonno che non arriva. Cerchiamo il silenzio sperando che sortisca un effetto soporifero. Ma più’ lo cerchiamo e più ci danniamo perchè ci rendiamo conto che tutto parla, sempre. E saranno i ” rumori bianchi “, i cosiddetti ” non rumori ” ritmici e ripetitivi a farci trovare pace, infine. Brava.
Grazie Gloria, il ritmo è una questione molto importante nella narrazione, grazie
Brava Elisa. Anch’io, come Z, desidererei mettermi in cerca del silenzio assoluto, e spesso mi domando come potesse essere la vita parecchi secoli fa quando la 2colonna sonora” della nostra vita quotidiana non esisteva. La tua storia ha qualcosa di fiabesco ed è molto, molto poetica; davvero bello il finale. Complimenti.
Anche io Giada ogni tanto ci provo…difficile!!
Grazie per il “poetico”, mi ha emozionata
Elisa,
ho intepretato il tuo racconto come una calzante, “poeticamente paranoica” (per dirla con Ugo, che non sbaglia mai un colpo :-)) metafora sull’indole dell’essere umano, tanto irrequieta ed insoddisfatta da ricercare ciò che non possiede o che, addirittura, neppure esiste.
Un finale vivido, quasi un quadro, che mi ha fatto domandare se adesso Z, conquistato il silenzio che tanto desiderava, non comincerà ad affannarsi per ritrovare il rumore della sua vecchia vita.
Cercherò una risposta leggendo nuovamente il tuo bel lavoro.
Complimenti.
Grazie Lorenzo del “finale vivido, quasi un quadro”!
Ciao Elisa,
Il tuo racconto mi ha fatto pensare alla meditazione. La ricerca del silenzio come ricerca di assenza di pensiero, come astrazione pura. Non so perché ma l’ho visto come una possibile metafora di una ricerca di vuoto intellettuale di una mente in cui si affollano miriadi di pensieri.
Ciao Ivana,
la tua intuizione è parecchio azzeccata, diciamo che il racconto nasce da un’esperienza di meditazione, la quale tuttavia non è assenza di pensieri nè ricerca di un’assenza,ma consapevolezza di quello che c’è intorno a noi, nella vita di tutti i giorni, semplicemente.
Grazie del tuo commento
Elisa, sei stata bravissima a farmi percepire l’assenza di una connotazione positiva o negativa nella ricerca di Z, come tu hai spiegato in una risposta.
È una pura Recherche del silenzio perduto.
Dimmi se mi sbaglio ma Proust mi è apparso nelle ultime righe “con il tempo ripieno di tempo”. Mi sono fatta persino un’idea sul nome del protagonista: se ricordo bene, gli innumerevoli personaggi dell’opera proustiana hanno nomi che vanno dalla A alla W, ma nessuno con la Z.
Quindi mentre leggevo mi sono fatta un film.
Magari io ho sbagliato tutto ma tu non hai sbagliato niente.
Complimenti.
Ciao Elisa, ho letto il tuo testo spinta dalla curiosità, perché ha lo stesso titolo del mio! Il tuo modo di parlare del silenzio naturalmente è diverso nello stile: bello il tuo, che mi sembra una favola per adulti, un racconto di fantascienza, diversamente dal mio. Ma la ricerca del silenzio, l’anelito a trovarlo è ciò che caratterizza entrambi i nostri protagonisti, perché probabilmente oggi questo bisogno di silenzio è un tratto comune a molti di noi. Brava!
Elisa, mi ha molto colpito questa tua affascinante storia ,la ricerca del silenzio perduto diventa la meravigliosa evidenza dell essere espressione del suo suono proprio.
Il silenzio assume il ruolo di misuratore della realtà, come il foglio bianco accoglie la parola scritta e pre farlo sacrifica il suo vuoto, così il silenzio introvabile sacrificato al suono dell essere di ogni cosa.
È molto profondo il tuo messaggio è originalissimo insieme, scritto con maestria e grande matura eleganza.
Il finale è straordinario, se posso permettermi mi ricorda Cartesio in versione modificata “Ascolto quindi sono”
Complimenti!
Elisa, mi è piaciuto molto il nome che hai scelto per il tuo protagonista: Z, come se lui stesso fosse un ronzio. Ognuno di noi è il rumore di fondo delle sua propria esistenza; ed in noi stessi abbiamo la capacità di trovare il silenzio!
Un’affannata ricerca, come quella di chi vuole scoprire se l’universo abbia una fine… Un silenzio/non silenzio e viceversa! Bellissimi giochi nell’uso delle parole, dei suoni e anche delle immagini. Mi è piaciuto molto. Complimenti!
@ Marcella Cassisi: grazie per il tuo commento Marcella, sono felice che si possa percepire l’assenza di giudizio nella ricerca del silenzio…per quello che riguarda il nome ti lascio alla tua immaginazione, che è sempre quello che completa un testo scritto! grazie!!!
@Annalisa Rabagliati: Grazie Annalisa, ho letto anche io il tuo racconto come saprai dato che ti ho fatto i complimenti! brava ancora!
@Gianluca Zuccheri: Grazie Gianluca per le tue generose parole! una lettura nella quale mi ritrovo
Complimenti per questo bel racconto in cui noto un sacco di riferimenti un po’ zen (a partire dal nome del protagonista!): una ricerca del silenzio che è diventare silenzio, un silenzio senza silenzio, una sorta di illuminazione finale.