Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2017 “Dizionario di sintomatologia” di Alessandra Chiappori

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017

Era uno statico e grigio pomeriggio di metà novembre, il regolare ronzio della lavatrice in sottofondo, uno sguardo perso oltre le lenti degli occhiali da lettura, avvicendato a farsi cullare e a progettare curva dopo curva i pensieri sulle note di un pezzo di chitarra. A suonare era un giovane chitarrista pugliese che faceva cose belle, che le risuonava dentro e che le stava illuminando una giornata bigia. Enrica fingeva di lavorare, in realtà ascoltava e pensava che a lui sarebbe piaciuto, che avrebbe potuto mandargli l’album per Natale, una scusa come un’altra per fargli un regalo. Ma poi, svegliatasi dal sogno, aveva visto la sua faccia nauseata, il disco in mano, l’espressione infastidita, il cestino della spazzatura, e l’ennesima ferita a un’illusione di nebbia.

Aveva aperto il dizionario per illudersi di concentrarsi sulla tesi. L’aveva aperto a caso e le pagine si erano automaticamente separate pari e dispari su un foglietto piegato a metà, inserito lì dentro l’anno scorso, doveva essere settembre. Un’altra scusa per rallentare, fermarsi. Lo aveva letto, cercando di risalire alla data precisa: la lista delle cose da fare, i conti delle spese del viaggio di Londra, c’era il simbolo delle sterline. C’era scritto Paolo. Doveva averlo scritto lei, la sua calligrafia corsiva in nero, tra cifre e calcoli, incuneata tra la pagina della c, a sinistra il confetto, a destra il confondere. Tra le scene di un matrimonio e quelle del caos che lui aveva generato nella loro vita da un anno a questa parte. C’era proprio lui, lì in mezzo, scritto di suo pugno, un tratto di penna inciso in un momento in cui Enrica ignorava che sarebbe sparito dalla sua vita, in cui scrivere Paolo era come scrivere il proprio nome, una certezza inconfutabile, una sicurezza. Paolo, cinque lettere e uno schizzo corsivo automatico. Scontato, banale, quotidianamente assorbito nella dinamica dei gesti e delle pieghe mentali. Abitudine. Il nome di lui, la calligrafia di lei, la sua bic nera, i foglietti sparsi con brandelli delle sue giornate affollate, con gli appunti della sua tesi. Chi se lo sarebbe aspettato, il colpo di coda del dizionario. Bastava davvero poco: l’inaspettato comparire di un segno tra segni, tra pagine di sostantivi e verbi, elencati in ordine alfabetico sotto la c. C di cose, casa, calore, condivisione e complicità. C di canzoni e cavolate, di chiacchiere e confidenze, di cene e caffè. C di Come stavamo bene, di C’era una volta.

Sì, Enrica pensava davvero che se fosse stato ancora il Paolo di un tempo questo chitarrista gli sarebbe piaciuto, avrebbe detto che era bravo, gli sarebbe venuta voglia di rimettere le mani sulla sua acustica blu che le piaceva tanto, quella su cui aveva cercato di farle imparare le prime note, le prime posizioni delle dita, tra le lamentele e il male alle falangi, tagliate dalle corde. Era bastato un attimo: la c di chitarra si era portata dietro la c di corda. Come si fa a dimenticare? A casa sua, a Genova, le corde che aveva cambiato lui, lui che strimpellava sul suo letto, lei sdraiata, invasa da una felicità che le sembrava dipingere un grande cielo infinito.

C di cielo, quello che aveva attraversato con lui a fianco. Aveva creduto di poter vivere al completo riparo, sotto quel cielo che non faceva più paura, in assoluta serenità e fiducia. Invece si era abbattuta la tempesta, lo aveva squarciato, rivelandone una finzione così ingenua e infantile da farle domandare se non avesse sognato tutto. Oltre quella meravigliosa parete teatrale era rimasto solo silenzio, una cassa di chitarra che suonava a vuoto, uno spoglio palco dove tutto andava avanti secondo regole base, ma dove ormai mancavano la passione della recitazione viva, la presa degli sguardi ironici e complici, degli abbracci inaspettati, delle strette affettuose che scatenavano roba strana nello stomaco e generavano calore a profusione, sorrisi solitari nello scomparto di un treno.

Sarebbe stato un altro inverno freddo, artico. Sarebbe stato altrettanto scomodo, Enrica sperava solo non sarebbe stato così triste e affollato di magoni irrisolti e lacrime trattenute per assenza di braccia pronte a prenderla al volo. Sperava sarebbe passato veloce, indolore. Sperava, in modi che non sapeva ancora prevedere, che sarebbe riuscito a generare calore altrove, calore profondo come quello che era stato capace di dare vita a un’assenza così lunga e dolorosa. Sperava di essere forte abbastanza per pattinarci sopra con un’espressione matura, un pacato sorriso privo di illusioni. Sperava di non rivederlo, perché le avrebbe fatto ancora male. Un male improvviso, remoto, senza forma né nome. Un male come un refolo di vento gelido che attanaglia le viscere.

Sapeva che avrebbe dovuto mettersi al riparo da quel rischio, chiudere la porta, rifugiarsi al sicuro, non farsi avvolgere da una spirale nera. Sapeva che doveva voltare la pagina del dizionario, spostarsi da confondere, approdare su conformare. E partire da lì: conformare, modellare, adattare, adeguarsi. Pagina dopo pagina avrebbe incontrato la d di dolore, la e di esperienza, la f di forza, la g di una nuova gioia.

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7 commenti »

  1. Mi è piaciuto questo bilancio nostalgico ma non debole, scatenato da un oggetto che oggi sembra appartenere sempre più a un altro mondo. Sono in pochi a usare il dizionario di carta oramai. Invece delle solite foto o di qualche lettera sgualcita la potenza delle parole, nella loro forma più essenziale. Semplice? Forse, ma ammesso che sia così non bisogna mai aver paura della semplicità. Grazie di questo bel racconto 🙂

  2. Alessandra,

    sei saltellata tra le lettere di dizionario e le sue definizioni con una semplicità spiazzante, creando un fitto legame tra i termini appiccicati alle pagine e gli avvenimenti che narrano di una storia finita, che, se affrontata con il giusto piglio, donerà alla protagonista ancora molte parole ed emozioni di cui godere.

    Un’ottima ed originale struttura per una toccante vicenda di vita.

    Complimenti.

  3. Mi piace molto il titolo. Mi piace molto la scelta di questo meraviglioso strumento, il vocabolario appunto, che non mi stanco mai di sfogliare, quello monolingue, quello bilingue, quello dei sinonimi, … Il tuo racconto lo trovo emozionante. E questo è quello che cerco attraverso la lettura.

  4. Anch’io ho fantasticato spesso tra le pagine del dizionario: percorrere le sue pagine in modo casuale poteva rivelare messaggi inaspettati. Gli antichi facevano la stessa cosa pescando a caso un verso di Omero. Ma in questo interessante racconto la protagonista ha già chiare le tappe del suo percorso interiore: non è poco.

  5. Grazie a tutti e quattro i commentatori: è un racconto di qualche anno fa che ho riverniciato e che non pensavo potesse trasmettere quanto mi avete invece scritto. Inutile dire che mi fa molto piacere constatare che non solo il racconto funziona, ma riesce a emozionare. Onorata del vostro parere!

  6. Alessandra, hai scritto un racconto originalissimo, coinvolgente e esemplare, per la tua bravura e per il contenuto di forza caratteriale che trasmette.
    Sintomi rilevati: battito accelerato, guardo attento… sorriso.
    Ho apprezzato moltissimo la fonetica del testo creata con le ripetizioni, allitterazioni; insomma, solo belle figure retoriche senza nessuna retorica.
    C di complimenti!

  7. Ciao Alessandra, anch’io vorrei unirmi ai complimenti generali, perché il tuo racconto è azzeccassimo nella sua semplicità. Seguire gli strascichi di un amore finito attraverso le parole di un dizionario: un’idea che funziona a livello strutturale, e che inoltre evoca un livello di significati legato alla superstizione e alla divinazione. Concordo con Ugo: il dizionario è un oggetto che sprigiona un fascino innegabilmente magico. Non vado oltre perché rischio di dire troppo, laddove tu col tuo racconto hai detto già tutto perfettamente. Brava!

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