Premio Racconti nella Rete 2017 “Mal d’Africa” di Riccardo Negri
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017E niente! Stamattina non mi sento niente bene…
E’ come se avessi spostato mattoni tutto ieri, senza bere sotto il sole. E poi dormito sui sassi. Come se processioni di termiti mi avessero camminato in gola, incessantemente, per tutta la notte. E scimmie dispettose tirato i peli, e sberle in testa. Plotoni di mosche incollerite mi mulinano nel cranio, e rintronano col loro baccano.
Ho bagnato le labbra con un po’ d’acqua. L’ho biascicata a lungo in bocca, come quella birra fangosa che preparano qui, non ce la facevo a deglutirla.
E’ troppo nera la notte da queste parti, e silenziosa. Ho dormito forse un poco solo quando ho sentito i Padri alzarsi per le lodi mattutine. Li ho intravisti dalla finestrella, con le lampade a petrolio in mano, mentre s’affrettavano verso la cappella. Uno ha detto qualcosa.
Camillo, il mio compagno di stanza, m’ha portato un caffè e un pezzo di pane, ma non li ho nemmeno toccati.
Oggi avevamo in programma di tinteggiare le aule della nuova scuola. Proprio oggi! Eravamo venuti per questo, si può dire; per questo ci eravamo presi le ferie…
Mi vesto; o meglio, calzo le pedule, perché ieri sera mi sono ficcato com’ero nel sacco a pelo, senza cambiarmi, in jeans e maglione. Sento le gambe che cedono, la schiena, il collo irrigidito, e i muri vacillare intorno a me. Ingurgito l’aria con brevi ansiti affannosi. Sudo e ho i brividi. Un po’ di febbre, chiaro; ma pretendo di andare ugualmente con gli altri. Mi rannicchio sul sedile posteriore del fuoristrada, con la cuffia calata sugli occhi e il bavero del giubbotto rialzato fino al naso.
Fuori il sole equatoriale picchia già . Anzi graffia. Scortica… è questo il verbo giusto! Ma io mi sento ghiacciare dentro.
Gli altri ci provano, a tenermi su di morale. Sono carini. Giungono alla conclusione che mi avranno fatto male gli sbalzi di temperatura: la notte sull’altipiano, qui in Tanzania, può essere davvero fredda; e lavarsi con l’acqua gelida del serbatoio non è il massimo…
«Un paio di giorni, vedrai! e sarai di nuovo in forma».
«Sì», concedo. Il mio cervello non può formulare pensieri più complessi.
Però a dargli una mano non ce l’ho fatta. Li sento dentro il cantiere della scuola, che chiacchierano e scherzano mentre lavorano. Ogni tanto viene qualcuno, getta un’occhiata dal finestrino e mi chiede se sono ancora vivo e se per caso preferisco tornare subito al convento. Gli dico no, davvero: adesso non potrei reggere i sobbalzi della jeep sulle buche del sentiero. Non riesco nemmeno a capire che, se non è ora, sarà tra poco…
Alcuni bambini si mettono per gioco al volante, e fingono di guidare mimando il rumore con la bocca. Ma non dovrebbero stare in classe? Solo quando tossisco, si accorgono che sotto quel fagotto di coperte buttato in auto ci sono io, che ancora respiro. Mi sogguardano impacciati. Fingo di sorridergli… e cazzo, mi fanno male persino i muscoli delle guance, come se non li avessi usati da mesi.
Uno dei bambini lo riconosco, viene spesso a giocare alla missione: ha il faccino birbante, la divisa scolastica slabbrata e un po’ di moccio incrostato tra naso e labbro. Gli faccio capire con uno sguardo che sono malato, tirando appena le labbra; e lui muove gli occhi come dire «Capita!». E’ uno di quelli adottati a distanza dalla nostra parrocchia. Ci siamo già stati a casa sua. Una capanna di fango e paglia, senza finestre: mamma, papà e un tot di fratelli dormono sulle stuoie, sulla terra battuta assieme alle galline ed ai porcellini d’India, con le braci sempre vive nel mezzo perchè il fumo tenga lontani topi e insetti.
***
Padre Saverio bussa ed entra. E’ magro. Con lui c’è la signora del dispensario, fiera e grave nel suo kanga sgargiante. E’ alta. E ha una borsa in mano.
Il missionario mi chiede come sto, ma sembra saperlo già. «Sar un po’ di malaria», mi dice.
Malaria? Malaria!? E così me lo dice, che devo morire qui, a tre ore di strada dal più vicino ospedale, a più di 10mila chilometri da casa? Senza nemmeno poter salutare i miei, perché i cellulari qui non hanno campo?
L’infermiera estrae da una scatoletta un vetrino e un ago sterile, mi punge un dito e ne raccoglie una goccia di sangue, mentre Camillo filma la scena e fa dei commenti cretini. Sorrido all’obiettivo con le dita a V, ma mi sa che non dovrei fare tanto il gradasso.
Ci siamo passati spesso per il cimitero, bisogna attraversarlo per scendere giù al campo da calcio: le ho viste quelle lapidi, cosa credi… Li ho letti anch’io quei nomi e quelle date: Joseph 28 anni, Zirifa 17, Teresia 16, Kosmas 21, Oliva 12…
La donna comunica qualcosa a Padre Saverio. «Il campione che ti ha prelevato – traduce dallo swahili – deve riposare dodici ore. Poi domattina lo esamina al microscopio, e ci fa sapere».
Trascorro un’altra notte orribile.
Vedo il sole sorgere dalla finestrella.
Mi sono appena addormentato, quando il Padre porta la diagnosi: «Come immaginavo, hai qualche plasmodio in corpo. Prendi tre di queste pasticche ogni otto ore; e non temere».
Già , come se fosse facile! Come se fosse facile mentre c’hai un parassita bastardo che ti circola nelle vene, e prolifera, e se la ride, e ti divora i globuli rossi uno alla volta.
Lo so quando l’ho beccato! Lo so quando mi ha punto, quella puttana! E’ stato la prima notte, prima di venire qui, appena sbarcati in aeroporto, all’ostello… la zanzariera che proteggeva il lettuccio era strappata, avevo anche pensato di farmela cambiare!
Penso ai miei in Italia, che non immaginano nulla. Lo sconforto mi fa male come le ossa. Ingurgito la pastiglia, ma non dormo, neancora: penso ai miei anni che non avrò…
***
E a proposito… sono guarito.
Ti supplico di credermi.
In un giorno, o poco più, dolori e tremori erano cessati. Niente più parassiti in circolo, come aveva garantito l’infermiera, li avevo completamente debellati.
Mi ero messo a fare lo spiritoso: baciavo e abbracciavo tutti, e dicevo «Ti attacco la malattia».
Non ho telefonato a casa. Ho raccontato al ritorno cosa m’era successo, quasi per caso, minimizzando.
Stavo bene ora; e segretamente ero quasi orgoglioso. Mica avevo preso la diarrea del viaggiatore, chessò, un’insolazione, o una puntura di medusa! Ero venuto per condividere un tratto di cammino con la gente della missione, non per una vacanza… e così era stato, mi dicevo.
Stupido che sono! Avevo attraversato decine di volte il cimitero del villaggio, per scendere giù al campo da calcio… ma solo adesso le lapidi mi parlavano davvero.
Decine di piccole croci, rosse di polvere e ferite, lisciate dalle piogge e dalle lacrime…
Joseph 28. Zirifa 17. Teresia 16. Kosmas 21. Oliva: 12 anni…
Morti di Aids, alcuni di malaria. La verità che quelle tombe raccontano è che io avevo 15 – sì 15! – euro per pagarmi le pasticche miracolose; ed ero guarito. Ma 15 euro, in quest’economia di sussistenza, equivalgono al reddito di due settimane per una famiglia: si potrebbe mai tenere un figlio a digiuno così a lungo? Se un bimbo del villaggio, o la mamma, o la sorella, si beccano la malaria… ebbene, se la tengano! Magari il primo attacco non uccide, e il secondo nemmeno; ma la febbre alta debilita, spacca il cervello, danneggia l’organismo. E l’impotenza maledetta danna l’anima.
Col corrispettivo del mio biglietto aereo, quanti ne avrei potuti salvare? Il pensiero mi squassava più della febbre: volevo quasi scusarmi di essere giunto a mani vuote. Volevo scusarmi di essere andato.
* * *
E’ l’ultimo giorno. Alla partita di saluto ci sono anch’io. Ho fatto pure gol. Siamo ventotto contro venticinque: giocano anche i bambini, scalzi. Corrono disordinati, e ridono. La palla è un po’ sgonfia, il campo in pendenza, ma non conta. Decine di ragazzine della scuola ballano e tifano, si mettono in posa per le fotografie e corrono ad ammirarsi nel display. E’ una festa. «E i loro sorrisi – mi rincuora il missionario – sono per te, non per i tuoi soldi».
Ho lasciato una parte di me: ancora gioca a calcio coi fratelli, e con loro cammina paziente sulle rosse strade sterrate del Kilolo. Ma in valigia ho riportato lacrime, speranza, una duplice guarigione e un diario.
Ci sono poche frasi.
C’è scritto: la vita non ha prezzo; eppure per salvarne una bastano 15 euro…
C’è scritto: un sorriso è una benedizione di Dio; e per riceverla, valeva la pena di volare sin qui…
Grazie Riccardo per aver condiviso questa storia, che invita a riflettere su tante cose. Quasi come il virus del titolo, sei riuscito a contagiarmi della passione che provi per per questo continente.
Molto toccante. Arriva fino al cuore e fa riflettere. Bravo Riccardo.
A volte non è necessario morire per rinascere, a volte basta ammalarsi due volte: di mal d’Africa e per colpa di virus. Perché spesso il corpo ammala quando l’anima ha male.
Esperienza formativa e intensa anche per chi legge.
Riccardo, temo che sia stato eliminato il mio commento, dove avevo espresso l’apprezzamento per il tuo racconto, piacevole da leggere e pieno di contenuti; mi ero soltanto permessa di segnalare la non esistenza della parola ‘neancora’, specificando che si tratta di un idiotismo (che non è un’offesa) usato nel Nord-Est da chi non ha molta familiarità con l’uso della lingua italiana. Non mi pareva di aver offeso nessuno, anche perché il racconto mi è piaciuto veramente. Ci riprovo, ma è il secondo commento che pare sparito…
Vi ringrazio tanto per i commenti! E’ molto importante, per chi le ha vissute, condividere certe esperienze… Spero di esserci riuscito almeno un po’.
Grazie per questa storia Riccardo, semplice e densa di emozioni vere, anche le tue parole sembrano essersi asciugate sotto il sole della Tanzania, sono rimaste quelle essenziali, forti e incisive. Alla fine resta un messaggio nelle nostre coscienze, una benedizione ci può assolvere, in parte, ma bisogna volare fin lì per capirlo.
Grazie ancora grazie.
Una storia che mi fa arrabbiare per la stupidità del sistema economico, per l’arbitrarietà di ciò che accade … e per l’infelicità che a volte mi prende in questo lato del mondo dove non ci sarebbe niente per cui non essere felici. Questa lettura serve, anche se ci bombardano di pubblicità sul tema, le parole di chi racconta prendono un’altra vita nella testa di chi legge (e un altro peso)
@Paola Dalla Valle: nessuno mi aveva mai dato prima dell’idiotista! 😉
Seriamente: non so che fine abbia fatto il precedente post, ma ti assicuro che non mi sento minimamente offeso dal tuo appunto. Anzi, mi fa piacere che tu abbia notato questo aspetto. Una confidenza: mentre scrivevo, Word continuava a sottolineare in rosso il termine “neancora”, che pure io utilizzo regolarmente nel mio parlare quotidiano, così come i miei famigliari e conoscenti (vivo in provincia di Mantova). Sono andato a consultare un po’ di dizionari, e solo in questa occasione ho appreso che il termine non è corretto dal punto di vista dell’italiano, e che probabilmente suona strano ad orecchie non abituate. Ho cercato allora dei sinonimi, o un modo per aggiustare la frase incriminata; ma, in definitiva, mi apparivano tutti meno spontanei ed efficaci, e così ho deciso di lasciare “neancora”. Non so se ho fatto la scelta giusta, ma al momento non mi viene un’alternativa.
Ti ringrazio di cuore per il tuo apprezzamento.
Caro Riccardo, ti confesso che io sono di Vicenza, dove la lingua italiana viene quotidianamente massacrata per la traduzione simultanea che si fa dal dialetto all’italiano. In classe, continuo con le litanie: apposto vuol dire appostarsi e non a posto, neancora non esiste se non nelle vostre case, cesario non è un taglio… potrei aggiungerne… quindi capisci la mia deformazione. Comunque mi è piaciuta la tua risposta 🙂
@Gianluca Zuccheri: sono io che ringrazio te, davvero.
Riccardo! E io che pensavo l’avessi utilizzata di proposito! Secondo me ci sta bene e rende meglio la genuinità del personaggio che poi è la tua. Hai fatto bene a non dare retta al correttore.
Stamattina pensavo all’anima e mi è sfuggito di farti tanti complimenti perché sei un ragazzo d’oro, come direbbe mia mamma, e rappresenti quella parte di gioventù che c’è e che è speranza e sollievo.
Grazie per aver condiviso la tua significativa esperienza.
Bravo, giovanotto!
Bella storia raccontata con la spavalderia di chi non sta a lesinare su avverbi e modi giusti di dire, e per il messaggio. Quei 15 euro che possono salvare una vita umana e che a noi sembrano un niente. Metti a posto le cose realmente importanti e lanci un monito senza ostentazioni da saccente, ma mostrando, semplicemente mostrando quelle lapidi che incidono il cuore.
Riccardo, un racconto indubbiamente unico e, come scrive Marcella, formativo. Con una scrittura sobria e asciutta, ma ricca di dettagli, ci insegna cosa significa mettere in gioco tutto sé stesso, ci accompagna lentamente nel profondo di un’esperienza di coraggio e umanità.
Complimenti, e grazie davvero per questa storia!
quando ho detto “come scrive Marcella”, mi riferivo al suo primo commento. Non avevo notato che nel frattempo ne erano “spuntati” altri (cosa che mi fa piacere, perché significa che in molti hanno apprezzato). Ancora complimenti!
Riccardo,
il diritto di vivere, per noi scontato e “compreso nel prezzo di nascita”, assume sfaccettature e risvolti fortemente contrastanti solo a qualche ora di aereo dalle nostre case da “primo mondo”.
Una lucida e condivisibile riflessione, la tua, che porta alla mente il coraggio e la dedizione di coloro (missionari, medici ecc.) che lottano per rendere effettivo e tangibile quel diritto alla vita, mettendo ogni giorno a repentaglio il proprio.
Oltre al messaggio, meraviglioso, ho adorato le ruvide descrizioni degli scenari ed i racconti degli aneddoti quotidiani: pensa che l’ultimo paragrafo mi ha ricordato la scena di Invictus in cui gli Springboks organizzano incontri con i bambini poveri per insegnargli il rugby.
E mi hai fatto pensare che se “se per salvare una vita bastano 15 euro”, per regalare un sorriso forse ne servono ancora meno.
Bellissimo racconto, sul serio.
Bravo.
Difficile veramente capire l’Africa. Forse con un po’ di malaria in corpo ce la sentiamo un po’ più vicina, un po’ più comprensibile. Forse vivendo un giorno, un solo miserabile giorno da tanzanese, avremo gli occhi un po’ aperti…? Grazie per averci aperto a queste riflessioni, usando fra l’altro un racconto sobrio e privo di sentimentalismo e di toni mielosi.
Grazie mille a tutti! Di cuore, non ho parole…
Bello questo diario africano. Sincero, partecipato, senza retorica. Mica facile. Bravo davvero!
Grazie Ugo. Mi fa piacere sentirti dire che hai trovato questo diario privo di retorica: per me era importante mantenere un certo tono, perché non volevo mettere al centro del racconto “me stesso”, bensì un aspetto dell’Africa.
Ciao e bravo Riccardo, mi è piaciuto il tono in cui hai trattato il tema, il burrone della retorica era aperto da entrambi i lati del cammino, ma sei andato dritto senza caderci, trovando nella (doppia?) malattia e nella doppia guarigione la chiave giusta per il racconto. Un altro occhio si apre per vedere il mondo in modo diverso.
“Stupido che sono! Avevo attraversato decine di volte il cimitero del villaggio, per scendere giù al campo da calcio… ma solo adesso le lapidi mi parlavano davvero.”La forza di un”esperienza” di solidarietà che parla davvero al cuore! Bravo!
Bellissima testimonianza. Mi sembra di vederli, fotografati, gli occhi birbi del bambino, e mi fanno rabbia quei quindici euro, che abbondano nei nostri portafogli e che, in certi luoghi, sono la discriminante tra malattia e guarigione e non tra pizza e birra o pasta e vino.
Grazie per questo bel racconto.,
Neancora… Vengo anch’io dal nord est ma da me non si usa. Addirittura non l’avevo mai sentito. Mi ha fatto piacere questa vostra botta e risposta sull’uso del dialetto e sulla necessità, secondo Riccardo, di salvaguardarne l’uso perché, appunto, preserva la genuinità di un testo. Anch’io ne sono convinta e per questo motivo, con qualche sforzo, ho messo in bocca alla mia piccolina un dialetto che non mi appartiene.
Del tuo racconto, Riccardo, trovo veramente fulminante l’incipit. Anche il resto mi piace, ma l’incipit lo trovo magistrale.
@Marco, @Anna Rosa, @ Silvia,
grazie per i graditi commenti.
Per Marco: i “mal d’Africa” da me sperimentati sono forse addirittura tre. La malattia, la malaria. Il “mal d’Africa” come comunemente lo si intende, cioè quella specie di nostalgia. E il disagio sociale ed economico di una parte della popolazione. Credo che solo dalla nostalgia non si possa guarire… Lo spero.
@Simona: il fatto che tu abbia apprezzato l’incipit mi rende felice, perché sapevo che era importante portare subito il lettore al centro della situazione, ma non ero certo di esserci riuscito. Il tuo commento mi rincuora.
Eeeh! Allora non è giunto a caso. Anvédi Mascherina!
Bellissimo racconto di viaggio.
Ho sentito da altri resoconti di viaggio, persone che sono state in Africa, Kenia, Tanzania,hanno riferito che la gente è molto accogliente. Tranquilla e serena vive la propria vita.
Basta pochissimo per stravolgerla, un parto con esiti negativi, la morte di un familiare sono sufficienti per cambiare la sorte di intere famiglie. La malattia, la mancanza di istruzione…
A noi invece basterebbe poco… 15 euro…
Grazie per questo bel racconto.
Condivido ….. l’incipit è azzeccatissimo.
Un bel racconto che aiuta a sentire come vicine e concrete verità che tendiamo ad allontanare.
Tantissimi complimenti Riccardo di Mantova! Il tuo racconto era sicuramente tra quelli che meritava di vincere. Sono molto orgogliosa di averlo letto per tempo e averlo tanto apprezzato!
Continuo a pensare che l’incipit sia la sua parte migliore… ;-)) Simona.
E bravo giovanotto!
Dimenticavo di dirti che per mia mamma fino a cinquant’anni sono tutti ragazzi e giovanotti…
E poi qui siamo tutti giovini! Anche chi ne ha 60, 70, 80…
Congratulazioni Riccardo!
Congratulazioni Riccardo! La mia opinione sul tuo racconto la sai già e sono felice di averlo commentato per prima! Toglierei però quel neancora, avevo trovato interessante la disputa che si era creata però sinceramente mentre leggevo avevo pensato a un refuso. La parlata spontanea va bene, non sono una purista, ma quel termine mi sembra un po’ troppo circoscritto per essere capito da tutti.
Marisa, Alberto, Simona, Marcella… che dire: grazie di cuore per gli apprezzamenti e gli incoraggiamenti. Davvero!
E niente! E’ un racconto bellissimo Riccardo. Nemmeno sfiorato dalla retorica ma caldo e genuino ed emozionante. Proprio come l’ Africa! Complimenti per le tue vittorie, quella umana e questa letteraria. Spero di conoscerti a Lucca!
Ivana e Gloria! Grazieee…
Complimenti per questo tuo racconto di vita vissuta ….almeno é quello che ho percepito io. In ogni caso questa mia impressione conferma la tua bravura. Tutti dovremmo fare un viaggio in Africa o almeno stare vicini a quei piccoli col cuore e quindi con qualche minimo gesto di carità cristiana. Sono contenta infatti di essere tempestata di lettere dalle Terre lontane delle Missioni Don Bosco. A presto …a Lucca!
@Lucia. Si, è un racconto di vita vissuta, anche se – diciamo così – un po’ “sintetizzato”. E sono d’accordo con te: molto spesso le lettere dei missionari da terre lontane sono gioielli di umanità e cultura, e meriterebbero di essere molto più diffuse e lette. Grazie per gli apprezzamenti. A presto!
Racconto davvero “graffiante” sia come scrittura che come contenuto. Complimenti… hai prodotto altri testi che siano stati pubblicati?
@crielevio. No, non esistono altri miei testi pubblicati. Grazie mille per i complimenti e per l’interesse. 🙂