Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2017 “Colazione da Rivoire” di Giovanna Paolucci

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017

Era una specie di rito. Un rito buffo, Inusuale. Però reggeva. Il cappuccino al Gran Caffè San Marco in Piazza San Marco, appunto. Dopo la mensa, che distava pochi minuti a piedi, ci ritrovavamo tutti lì alle 14:30 in punto,.Fin da bambina, mio nonno mi indicava quel locale come il bar che durante la sua giovinezza veniva ben frequentato da intellettuali, filosofi, artisti, pittori, professori. ma anche da studenti, univerisitari proprio come noi. Fu così che quella tradizione, iniziata un pò per caso, assumeva nella mia testa il segnale incontrovertibile della mia affiliazione a una elite di eletti, I ragazzi americani che vi avevamo incontrato erano stati poi la classica ciliegina sulla torta, Erano anche loro studenti. Giovani e belli pure loro. ma, a differenza di noi, negli Stati Uniti, frequentavano uinversità private esclusive, come Harward o Yale o Princeton.

Sin dal primo giorno che facemmo conoscenza, ci diventò naturale il pensare che il rito del pranzo insieme alla mensa di Via San Gallo dovesse finire con un bel cappuccino con molto caffè e molto ma molto zucchero di canna.

Arrivavamo in gruppo e ci assiepavano lungo il bel banco di marmo. Era un rituale per noi studentesse italiane. Una sorta di cerimonia giornaliera che sanciva la nostra entrata in società. Non eravamo abituate affatto, all’epoca, a prendere il caffè al bar. Era un cosa da “grandi”, e poi non avevamo molti soldi. Ma questo “dopo pasto” speciale in quel bel caffè del centro, a due passi dalla Facoltà. era un lusso a cui non volevamo rinunciare.

Appena entravamo ci accoglieva un profumo inebriante e caldo di caffè e brioche, e qualche americano accompagnava anche un bel cornetto al cappuccino e all’espresso. Anche se erano le due e mezzo del pomeriggio, e noi italiane ne ridevamo, loro trovavano ciò un delizioso ed irrinunciabile dessert.

Ho sempre pensato che per i nostri amici americani prendere l’espresso equivaleva a darsi un pizzicotto e dirsi: “Sì, è tutto vero, sono in Italia, a Firenze, la culla della civiltà e infatti bevo un bell’espresso”.

Per noi italiane tutto quell’amore per il caffè e il cappuccino era esagerato però, pensavamo… Boh se trovano un espresso così speciale questi ricchi americani che hanno già tutto, magari siamo noi i fortunati e non ce ne rendiamo neanche conto.

Era così anche per altre cose, la pizza, il gelato, i musei, le chiese, i negozi di Gucci e Ferragamo; per noi era come se fossero stati lì, nella nostra città, a portata di mano, dall’inizio dei tempi, mentre per loro era tutto da scoprire: un tesoro di cose fatte da elementi tutti italiani, che noi avevamo appunto dato per scontate praticamente da sempre.

Quel caffè, infatti, o quel cappuccino, già oggetto del desiderio anche per noi, diventava insieme agli americani una specie di nettare degli Dei. Profumato, prestigioso, sublime. Capivamo allora tutta la cerimonia della cioccolata del Giovin Signore del Parini. Il caffè o il caffè in versione cappuccino era la bevanda di un’elite, la nostra. Tutta speciale. A noi sembrava di esserlo, Specialmente a noi tre belle italiane che facevano coppia fissa con tre americani. Se l’Italia era per i nostri ragazzi il bel paese nella vecchia Europa, l’America era per noi la meta, quella per eccellenza . Tutte e tre volevamo andarci e non solo perché studiavamo inglese e anche letteratura Nordamericana, ma anche perché inconsapevoli vittime di un battage mediatico sulla America rampante di Regan e sul suo famoso edonismo.

Eravamo noi tre, forse odiate dalle ragazze americane perché sottraevamo alcuni dei giovani uomini più desiderati del loro gruppo.

Tra queste vi era una giovane donna di etnia indiana. Intendo indiana di America, che aveva in sé davvero le qualità visibili e, anche se non lo sapevo ancora, quelle invisibili di una squaw.

Usciva con un gruppo di ragazzi del sud che studiavano architettura. Mentre i nostri ragazzi seguivano le lezioni alla Cesare Alfieri in diritto internazionale. Quando capitava che ci incontravamo per una pizza o anche per un semplice caffè, si incontravano due mondi.

La Ruth -così si chiamava la giovane “squaw“- sembrava una figlia dei fiori nonostante quel tempo fosse passato e fossimo già nei ruggenti anni ’80, e i ragazzi napoletani armonizzavano con il suo stile ma in modo molto più fantasioso e creativo. Erano dei veri casinisti, come si diceva. I ragazzi americani erano il loro opposto, perché, seppur molto espansivi e amichevoli, dirigevano la loro vita secondo binari diritti che credevano lì avrebbero portati al successo. Di lì a poco, cominciò a fare coppia fissa con Michele, uno dei napoletani, il più istrionico dei futuri architetti. Portava i capelli ricci e lunghi e scarmigliati, e aveva belle spalle larghe e squadrate,.

Io parlavo spesso con Ruth, perché lei ogni volta che andavamo da qualche parte mi veniva vicino e mi parlava in inglese. Ero quasi sorpresa che cercasse me che, tra le tre, ero quella meno versata nella sua lingua, ma certo non protestavo: mì impratichivo, e lei era davvero molto simpatica. Molto sportiva, faceva poche ciance. Nessuno avrebbe detto che veniva da una ricca famiglia,

Per le vacanze di Natale, Michele la portò a Napoli, e quando tornarono Ruth mi chiese se noi due potevamo vederci qualche volta.

Abitava in Santo Spirito, che era per me di strada quando, da casa, mi recavo in Facoltà in via San Gallo.

Partivo un’oretta prima, e mi fermavo a prendere un caffè da lei.

Diventammo veramente molto amiche, e all’esame di conversazione inglese presi un bel 28, impensabile solamente un mese prima.

Ruth si lamentava di Michele, il quale era disordinato e sempre senza soldi, ma diceva che la faceva ridere un sacco, anche se mi confessò che faceva una gran fatica a capirlo. Mi disse anche che la sua famiglia la aveva accolta benissimo, e che con la madre di lui si era trovata molto bene.

Mi sembrò molto strano perché conoscevo la madre di Michele, che era donna “verace” del popolo, piuttosto sguaiata e cialtrona. Ruth era invece sempre composta, quasi rigida, e parlava con un tono quasi mascolino, eppur raffinato, Questa caratteristica emergeva soprattutto quando si parlava degli indiani d’America, allorché si affrettava a correggere l’interlocutore che, una volta conosciuta la sua esatta provenienza, la ascriveva alla stirpe Sioux: “Lakota, not a Sioux”, soleva ripetere. Spiegava poi che quel brutto nome col quale si riteneva di poterla appellare era stato affibbiato ai suoi avi dai francesi (in particolare, sembrava avercela con la Francia non so bene se per via di quell’infelice nomignolo -pare che n francese il termine “Sioux” inizialmente significasse “piccole vipere”- o a causa della vendita agli Stati Uniti delle terre centramericane da parte dei francesi nel diciannovesimo secolo); in verità, avevo persino colto nel suo fare una punta di superbia quando si veniva a parlare della sua famiglia, allorché vantava un parente strettissimo che sarebbe stato avvicinato nientemeno che da Kevin Costner in vista di una consulenza per la preparazione di un film (si seppe poi che si trattava del famoso “Balla coi lupi”), nonché uno zio che sarebbe persino comparso come attore nell’“Uomo chiamato cavallo”; forse per dissimulare questo malcelato orgoglio, riportava comunque che alla sua gente era “sfuggita” la collaborazione con lo staff del “Piccolo grande uomo”; io personalmente ho sempre pensato che il suo soggiorno nel cuore della vecchia Europa fosse, almeno inizialmente, motivato dal suo desiderio di recuperare parte della storia… Sta di fatto che, un giorno, mentre prendevamo il caffè, mi chiese come andasse con John, il mio ragazzo. Dissi, con ritegno e pudore, che andava tutto bene e che non c’erano problemi.

Lei mi guardò fissa e mi disse: “Ti piacerebbe sposarlo?” Io arrossii e risi e mi schernii…Proruppi poi con un diplomatico “What are you talking about?”

Lei mi disse: “Wait… I’ll show you something, Do not drink all your coffee, leave some…” e sparì in cucina, Tornò in salotto con un piattino. Lo mise sul tavolo e ci rovesciò sopra il caffè rimasto nella mia tazzina. Rivoli scuri serpeggiarono per istanti sul piattino,

“Che fai?” Le chiesti in italiano. Lei mi rispose in italiano. Italiano strano, anzi stranissimo . Aveva un non so che di napoletano…

“Senti a me”, mi disse guardando fissa nel piattino, “qui si vede…Vuol dire fine di un amore” .

“Fine? Come sarebbe a dire ‘fine’? Ma figurati, io non credo a queste cose… E poi, scusa, ma come fai a sapere come si leggono I fondi di caffè?”

“Me lo ha imparato la mamma di Michele”.

“Ah”, feci io, con un sorriso incredulo ma anche di sufficienza; lei riprese: ( Don ‘ ti give me that look, Don’t patronize me, it’s serious stuff, poi proseguì in italiano “Sì, mi ha detto che io ce l’ho nel sangue, e che devo essere io a tramandare la tradizione in famiglia”.

“In famiglia?”

“Sì”, replicò lei, “In famiglia: lei è sicura ma proprio positive che io mi sposerò con Michele, e in casa loro nessuno ha -come si dice?- the gift come lei”.

“Ma perché tu pensi dì avere questo gift?”

“Il mio bisnonno era uno sciamano, Mia mamma mi ha detto sempre: ‘You have the gift’”.

Mi raccontò che lei veniva da una famiglia di nativi indiani, un po’ speciale perché, a differenza di molti nativi americani, i suoi genitori si erano entrambi laureati ad Harward e si erano allontanati dalla comunità indiana in tutti i sensi. Ma per lei, si sentiva, questo allontanamento era stato un male.

Mentre parlavo la guardavo, e mi appariva veramente come una piccola squaw sinuosa, con una grossa treccia scura, gli zigomi alti, e le gambe forti e asciutte.

Mi sembrò che la sua voce tremasse e che si trasformasse in un sussurro quando mi disse:
“What about casting a spell?”
“Casting a spell?”, Mi ripetevo io… “Gettare un incantesimo ? E perché? E a chi?”

“Per farlo innamorare ancor di più, e perché non se ne vada mai più da Firenze, perché rimanga qui, con te, for always”.

“Ma figurati…No, io, proprio, non ci credo a queste cose”.

Lei insistette. Non so perché le interessasse così tanto. Era convinta che io e lui ci saremmo lasciati, che i fondi del caffè non avrebbero mai mentito, e che comunque lei se lo sentiva. Ogni volta che parlavo di John mi chiedeva se per caso avessi cambiato idea e per mesi la risposta fu la stessa: “No”.

Finché un giorno, tra le lacrime, le dissi che John era cambiato, che non era più lo stesso ragazzo dei primi tempi, che spesso mi sfuggiva, tirava sempre fuori delle scuse…

Dissi:

“Ma che incantesimo vorresti fare per me?”

“Tu non preoccuparti….Mi ha imparato la mamma di Michele, ti ho detto, tu portami solo

un suo fazzoletto o una sua canottiera e una sua foto”.

Le portai tutto ma Lei giorni dopo mi richiamò chiedendomi di portarle anche alcuni suoi capelli e una federa su cui lui aveva dormito con me. Mi sembrava tutto una scemenza, eppure reperii tutto e glielo portai. Mi sentivo una vera stupida, ma lei sapeva rassicurarmi.

“Do not to worry! Everything will turn out just fine, just fine”

Nei giorni seguenti, però, la situazione con John andò di male in peggio. Avevamo progettato di andare tutti insieme al mare in un week- end di maggio, ma lui non venne, e all’ultmo momento anche Michele e Ruth avvertirono che non ci sarebbero stati..

John mi disse che era andato a Roma a incontrare degli amici americani che si trovavano lì di passaggio, e Ruth mi disse che era stata a casa con un “bad cold”.

La chiamai il giorno dopo al telefono, per sapere come stesse, e lei mi disse: “Pretty good now, thanks, and you?”

La voce tradiva una malinconia profonda. Non era più la voce battagliera di Ruth. Sembrava che fosse nato in lei un senso di smarrimento profondo, un dubbioso presagio.

Me? Io sto malissimo Ruth… Malissimo! Secondo me lui ha un’altra… Non è che potresti guardare nei fondi del caffè?”

Così il giorno seguente ci ritrovammo: solito caffè, solite modalità,

Responso: “Risoluzione in arrivo, fine di un incubo”.

Tornai a casa confortata. La mattina seguente avevo un esame scritto alle 9 in punto, che doveva durare fino all’una.. John mi avrebbe aspettato alla mensa alle 13.30.

Arrivata in facoltà in via del Parione, trovai la porta sbarrata con una scritta: “Chiuso per sciope-ro. Gli esami sono rinviati a data da destinarsi, rivolgersi alla Segreteria di San Marco per ulteriori informazioni”, Un folto gruppo si guardava sgomento. Non sapevamo a chi rivolgerci. La segreteria era lontana.

Con altri che si trovavano nella mia stessa situazione, ci trovammo a chiacchierare sul da farsi ma, vedendo che non c’era verso, quel giorno, di fare l’esame, decidemmo di andare a fare colazione in un gruppo dal famoso Rivoire in Piazza della Signoria, o Piazza della sinorina come diceva sbagliando John. Da via del Parione fu un attimo,

Benché fosse giugno faceva freddo, e si alzò un fortissimo vento quel giorno, per cui rimanemmo dentro il bar per una buona mezz’ora. Faceva talmente freddo che alcuni di noi si azzardarono a prendere persino una cioccolata calda che di quel bar fece la fortuna, con una segreta e antica ricetta, negli anni che videro Firenze capitale. Mi venne naturale mettermi a pensare a tutta la gente che in quello stesso luogo era venuta, si era seduta , aveva parlato, si era conosciuta e magari si era pure innamorata.

Si dice che Rivoire fosse allora splendidamente frequentata: la crème della crème, aristocratici, banchieri, politici, personaggi famosi. Scrutai i clienti uno ad uno chiedendomi quanto fosse cambiata la clientela nel frattempo. Avevo ordinato un caffè, e mentre mi apprestavo a berlo lo sguardo mi si posò sull’ultimo tavolo della sala. Il vento fuori faceva vibrare le vetrate,

Era un tavolo tondo, piccolino su cui un cameriere in livrea aveva posato un vassoio d’argento con due tazze di cioccolato e dei pasticcini. Era nell’angolo più remoto della stanza, proprio in fondo al locale, e là, non vista, vidi John che stava seduto molto vicino ad un’altra persona: scherzava e rideva e, cercando di non dare nell’occhio, sfiorava leggermente con la propria mano la mano dell’altra persona, che sembrava rispondere a tale nascosta carezza con un movimento del corpo che trasmetteva una sorta di languido consenso.

Per alcuni minuti non volli vedere. Poi misi a fuoco: Oh quanto avrei preferito che fosse stata Ruth, oh, quanto lo avrei preferito! Avrei voluto vedere la sua bella treccia nera e lucente che ricadeva sulle sue spalle belle e armoniose, ma aveva i capelli ricci e lunghi e scarmigliati, e aveva belle spalle larghe e squadrate; era facile capire chi fosse, e Ruth l’ aveva capito prima di me, aveva visto tutta la storia , e aveva voluto intervenire e, forse anche la mamma di Michele aveva cercato di interferire, tentando di deviare il destino con la magia e con i fondi del caffè. Era facile capire chi fosse, anche se era seminascosto da una grande colonna di marmo,

E quell’incantesimo, quel rito, non era stato fatto per me, né per il mio bene, o per il mio fidanzato, ma per quello di Ruth, che in realtà si era invaghito del mio. Al punto che nessuna magia aveva funzionato!

Finii il caffè di Rivoire. All’epoca dei fatti un caffè da Rivoire era sempre un caffè da Rivoire, anche se erano passati più di 100 anni dalla sua apertura; insomma pensai automaticamente “una vera sciccheria”, come avrebbe detto la mamma di Michele, meglio che al Gran Caffè di Piazza San Marco. Guardai nella tazzina, vi era rimasto un po’ di quel buon caffè. Me lo bevvi fino all’ultima goccia. Guardai il fondo che appariva pulito e lucido. Pagai e uscii. Senza salutare nessuno, Alzai lo sguardo e Palazzo Vecchio mi guardò spavaldo e fiero. Si era abbassato il vento, e dal cielo incupito aveva cominciato a piovere forte. Le gocce si posarono sul mio viso, simili a lacrime, e sciolsero il rimmel che si sparse tremulo in rivoli scuri, come piccoli serpenti. After all, Sioux, not a Lakota.Maybe.

Loading

2 commenti »

  1. Giovanna, bella questa commistione di culture, di lingue e linguaggi, e di tradizioni. Con il tuo racconto, riesci a trasmettere il senso dell’amore non pianificabile e la freschezza di una gioventù che sperimenta il dolore senza accasciarsi.

  2. Una vera immersione nella città di Firenze, la vita dei giovani universitari.
    Descrizione puntuale e accurata dei luoghi. Su tutto il racconto aleggia l’amore.
    Piacevole lettura , complimenti!!

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.