Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2017 “Le maschere di carnevale” di Giovanna Paolucci

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017

“Che dici… Ci mettiamo qui “?

Il vassoio ricolmo di pane, un piatto di pasta, uno con un quarto di pollo e purè e uno yogurt alla banana.

“No meglio quello laggiù , quando arriva Steven lo vediamo subito”.

Era il nostro ristorante e sembrava bello e sembrava buono. Attorno, giovani quasi tutti più grandi di noi, chiacchieravano e ridevano. Muoveva tra i tavoli la Dea Fortuna, tutti vivevamo nell’eternità e ci aspettavamo grandi cose. Anche quelli di noi che erano studenti fuori sede, sembravano felici di vivere il grande privilegio di essere studenti. Dell’Università. Di Firenze. La città più bella al mondo.

Sceglievamo sempre lo stesso tavolo proprio davanti al percorso che conduceva al banco dove venivano distribuiti i pasti, dove gli studenti sfilavano chiacchierando e ridendo. Ci piaceva, vedevamo sfilare tutti i cittadini di domani e mi chiedevo se tra loro non ci fosse un futuro uomo di stato.

Ogni tanto c’era qualche rissa, tra iracheni e iraniani, e allora volavano piatti e parolacce per noi incomprensibili. Avevamo un po’ di timore, ma tutto ciò ci produceva, sotto sotto, un po’ di eccitazione, quasi come fossimo spettatori di un evento da film d ‘azione. Era la vita, quella da grandi, che sfrigolava davanti a noi, che accendeva il nostro orgoglio di essere davvero adulti.

Era bello per noi andare a mensa, A differenza di molti fiorentini, noi preferivamo restare in centro e andare a mensa. Ci piaceva anche il cibo e costava pochissimo. Ma non era solo quello: ci sentivamo appunto ammessi ad uno status di privilegiati, quello degli studenti universitari.

Alcuni giorni prima, mentre aspettavamo pigiati come sardine nell’atrio che ospitava gli studenti in attesa di entrare nel percorso delineato da nastri per arrivare a ritirare il pranzo, si era sparsa tutt’un tratto la voce che John Lennon fosse morto. Ucciso. Cominciammo tutti a parlare l’un l’altro: sconosciuti che si ritrovarono a scambiarsi commenti di sdegno e dolore, come ad un funerale,insomma. Una sorta di condoglianza collettiva. Un ‘atmosfera di lutto composto si calò sulla lunga fila che, prima festosa e scomposta , cominciò a muoversi lenta e mestamente ordinata.

Fu così che io e Ivana conoscemmo Steve… Già il fatto che fosse americano calamitava la nostra attenzione: noi studentesse di inglese ne cercavamo di persone con cui scambiare quattro chiacchiere in lingua, e con Beppe Grillo che ogni sabato faceva morir da ridere con “Te la dò io l’America”, un programma che ironizzava sulla fascinazione potente che gli Stati Uniti esercitavano, con una moda scoppiata quasi di sorpresa su molti italiani, era difficile non rimanere coinvolti in questo impazzimento generale per gli Stati Uniti d’America. In più, i suoi occhi verdi brillavano come stelle, come zaffiri, come luci di un altro mondo e il forte accento americano lo rendevano assolutamente e unicamente irresistibile.

Noi due, amiche, divenimmo rivali, credo nel giro di una mezz’ora. Ivana era sempre molto discreta nei modi, diversamente da me che ero espansiva e ridevo spesso di gusto. Tra le due, forse, io ero più avvenente ma era lei che riusciva a farsi corteggiare da tutti, senza mai dover far la civetta. Non era bella, né vistosa, ma i ragazzi si innamoravano spesso di lei, forse attratti dalla sua compostezza quasi misteriosa.

Da quel primo momento in poi, vedemmo Steve ogni giorno a mensa, entrambe sperando di venir scelte un giorno dal bel americano.

Quel giorno lo avevamo atteso fuori dalla mensa ma non era arrivato, e dovendo poi andare a lezione alle 2 di pomeriggio , entrammo sperando di vederlo già seduto o di vederlo arrivare.

Ci sedemmo dunque, gli occhi fissi sul percorso attendendo di sentire “Ehi ciao come va ? “ con il suo italiano appena imparato.

Non mangiavamo, buttavamo solo giù il cibo meccanicamente.

Ad un certo punto ci giriamo verso il posto vuoto e vediamo che non lo è più. C’è seduto un ragazzo molto alto, spalle larghe, viso chino sul tavolo, che scrive.

Ricordo ancor oggi la lucentezza dei suoi capelli, lisci e castani; sembravano una cascata brillante, e se lui si muoveva rilucevano ancor di più.

Mi allarmai e guardai la mia compagna, anche lei preoccupata.

Stavo per dire: “Guarda no, questo posto è occupato“, che lui alzò i capelli dagli occhi, quando due occhi accoglienti mi sorrisero.L’azzurro ceruleo dei suoi occhi era ammiccante e sembrava luccicare. Mi disse:
“Scusa, una domanda…”

Fu il fortissimo accento americano o fu il destino? Non so, ma mi sembrò l’uomo più bello del mondo, mille e mille volte più bello di Steve.

Io e Ivana ci guardammo complici e ci mettemmo a ridere, lui ci guardò interrogativo e ci affrettammo a dirgli che “sì, certo, poteva restare ma che se fosse venuto il nostro amico magari….”

Steve non arrivò mai e a me ormai non interessava più.

Alex: si chiamava così il “nuovo” americano. Parlammo per un’ora intera, e quando ci lasciammo mi accorsi che qualcosa di epocale era avvenuto nella mia giovanissima vita.

Tutto ciò che vidi e sentii dopo era mutato, più vividi i colori, più significativi i suoni, più intensi gli odori .Percorsi tutta Firenze con la bicicletta e mi sembrava che le ruote avessero messo le ali e che la strada profumasse di polvere di fiori, che il vento soffiasse canzoni e che il sole vestisse il mio animo.

Una volta a casa trovai mia mamma che dava il cencio al pavimento, le finestre tutte spalancate lasciavano entrare l’aria gelida ma luminosa, e mi disse di “non far pedate”. Io, per tutta risposta, saltellai sul bagnato e le dissi che avevo conosciuto il ragazzo più bello del mondo. Era pieno inverno, ma ricordo quel giorno come se fosse scoppiata la primavera. Mai era successo prima nei miei precedenti 17 anni.

Per giorni mi bastò pensarlo, incontrarlo qualche volta, per caso. Mi bastava sapere che l’avevo trovato: il grande amore di cui si favoleggia tanto. Mi accorsi che l’aspettavo da sempre o almeno da quanto a 5 anni mi innamorai di Aldo Reggiani dello sceneggiato “La freccia Nera” di Stevenson.

A Ivana non piaceva, diceva che aveva un fare da fratello maggiore, che le faceva pensare a quegli americani dei film sulla seconda guerra mondiale. A me sembrava così bello che mi sembrò strano che a lei non piacesse, ma fui contenta, pensai che fosse una vera fortuna.

Poi arrivò il Carnevale, e non so chi tra gli amici propose di andare al Carnevale di Viareggio. Anche Alex sarebbe venuto.

Partimmo dalla stazione di Santa Maria Novella, l’incontro alla Nave, una riproduzione del famoso “Gennargentu”, che adesso non c’è più. All’epoca costituiva di fatto quello che adesso si chiama il “meeting point”. Una bella nave dentro una teca di vetro. Se chi attendevi tardava, ti mettevi a scrutarne tutti gli elementi e il tempo ti passava più veloce. Ma quel giorno rimasi fissa a guardare le piccole scialuppe e il tempo non passava mentre il cuore mi diceva che non sarebbe mai venuto, Invece arrivò, e se ci penso ora. mi pare che da qualche parte. in qualche altra dimensione lui è sempre lì che mi sorride mentre mi raggiunge. Dicevano che assomigliava a Warren Betty e fu così che il “Paradiso può attendere” divenne il mio film preferito.

Alex infatti arrivò con un grande zaino militare. Il cuore mi sobbalzò in petto, ma feci finta quasi di ignorarlo. Lui faceva ridere un po’ tutti ma poi pensavamo che faceva tanto soldato -americano -liberatore -dai nazisti che quasi ci piaceva.

Era uno zaino militare enorme, con un lucchetto enorme anch’esso.

Aveva un po’ di tutto lì dentro: panini e cioccolate, chewing gums che ogni tanto tirava fuori e elargiva a tutti, spesso lanciandoli come palle da football.

Noi ridevamo perché pensavamo a tutti i film che avevamo visti sulla liberazione e sulle cioccolate americane e lui ci guardava perplesso perché proprio non capiva la ragione di tanta ilarità.

Il mio amore per lui non cresceva. Semplicemente non poteva. Sin dall’inizio era stato misteriosamente infinito. Cresceva però il desiderio di piacergli, di stargli vicino. Con una purezza di spirito e d’animo che forse non conobbi mai più.

Ricordo, di quel giorno, il grigiore del mare e del cielo che sfumavano pigri e incolori l’uno dentro l’altro. Ebbi il timore palpabile e doloroso che forse lui non si sarebbe mai accorto di me. Mi trattava come le altre, né più né meno. Sfilavano i carri tra i coriandoli, che tingevano in modo artificioso il cielo sempre più plumbeo. Tra l’allegria generale e i coriandoli e le stelle filanti e la musiche inebrianti dei carri, io ristavo assorta. Mi sentivo anch’io un pupazzo di cartapesta, messo a forza sul carro della vita. I carri sembravano sovrastarmi minacciosi e al tempo stesso assolutamente incuranti di me.

Al ritorno, sul treno, Ivana si mise a cantare delle canzoni dei Beatles e ne intonò una che, mi sembrò, essere crudelmente diretta a me. Le note e le parole di “She loves you” riempirono allegre e beffarde lo scompartimento, nel quale io sedevo di fronte a lui. Se avessi potuto scivolare via dal finestrino appena socchiuso lo avrei fatto. Lui rimaneva impassibile. Mi parve la risposta dura ai miei timori.

Passarono invece pochi giorni che squillò il telefono. Al di là del filo lui, che mi chiedeva come stavo, se mi fosse piaciuta la giornata a Viareggio e mi raccontava che era stato a Siena e che gli era piaciuta tanto. “…Ah sì, ti è piaciuta?”, risposi io un po’ stizzita, da buona fiorentina sempre in rivalità con Siena, e aggiunsi: “Ti piace di più di Firenze?“ E lui rispose: “Mi piaci più tu”.

Questa frase rimase scolpita nel mio cuore, per sempre. La rievocai senza fine nel mio cuore, forse per anni, da allora.

Lo stesso giorno mi chiese: “Per caso vorresti andare con me di nuovo a Viareggio ma questa volta io e te, da soli ?“

L’appuntamento era sempre lì, alla nave. Ancor oggi, quando mi capita di passare dalla stazione faccio capolino e spero di vederla riapparire nella sua teca di vetro. Quanti viaggiatori ha distratto, attratto, riunito. Per anni, passando di lì, le sensazioni di quel primo appuntamento riaffioravano come piccolissime bolle d’acqua in una pentola sul punto di bollire.

Non era giorno di sfilate, ma il Carnevale era nell’aria, con un tiepido sole marzolino che invitava alla primavera ormai alle porte,

Usciti dalla stazione, mi prese per mano. Percorremmo via Mazzini, con lui che mi tirava e io che mi facevo trascinare, un po’ per civetteria e un po’ perché mi sentivo le gambe indebolite sotto il peso dell’emozione.

Sulla spiaggia ci sedemmo. Era pieno di detriti ovunque, ma a me sembrava di sedere su un prato di giunchiglie gialle preannuncianti la fine dell’inverno, L’odore forte del mare, del sale, mi inebriava e persino il forte sentore di pesce mi faceva piacere. Il vento scompigliava forte i capelli, i miei e i suoi che si toccavano. Le note delle onde che si infrangevano sullo sfondo, rovesciandosi sulla battigia, accompagnarono come organo, quasi solenne, quelle ore di felicità inaspettata..

Furono cento i baci o forse mille? Mi sembrò infinito come il cielo, e corto come un lampo, quell’incantato pomeriggio. Il mio cuore tumultuava come quel mare d’inverno, ancora fosco all’orizzonte.

Quando rimontammo sul treno per Firenze, stretti in un abbraccio di innamorati, salutai Viareggio come una delle città più romantiche al mondo.

Ripassammo dalla nave della stazione di Firenze e mi sembra di vederlo ancora: alto, bello che mi saluta con un bacio e si allontana. Non sapevo che non l’avrei mai più rivisto,

Alcuni giorni dopo seppi, quasi per caso, che era partito con la mia amica Ivana, per Venezia, al Carnevale. Quando me lo dissero pensai: “Venezia la Serenissima”, e poi feci finta di niente con tutti, compresa me stessa.

Ripresi la mia vita di sempre e ritornai a mensa . Ma senza Alex, né Ivana.

La processione degli studenti in fila per il cibo mi sembrava triste. Mi apparve come una semplice fila di gente che serpeggiava nei corridoi disadorni e sporchi, aspettando il poco o il niente in quel momento e per sempre. Il brusio annoiato di code, in attesa, sembrava non finire mai.

Vidi anche Steve, un giorno Mi parve, anche lui, un pupazzo di cartapesta in un carnevale ormai finito. Mi salutò festoso, ma io mi alzai e, con una scusa, me ne andai fuori . Dove ormai la primavera imperversava, quasi violenta. Di essa non sentivo né i suoni né gli odori. Tornai a casa, dopo aver percorso le strade di Firenze, che mi guardava, muta. I rumori fiacchi e ovattati, le voci molli e lontane, appartenenti a un mondo non mio, mi raggiungevano appena.

A casa, entrai senza dir niente, mi diressi in camera mia, richiusi la porta dietro me e mi misi allo stereo, con la cuffia, chiudendo fuori la Primavera. Le note di una canzone di John Lennon iniziarono lente e cupe, restando intrappolate nella grande cuffia nera.

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1 commento »

  1. Giovanna, ricordi dolci e amari di anni pieni di sogni e di desiderio di conoscere il mondo. Bastava poco ed era dolce anche soffrire per amore, perché si viveva di storie e di eroi positivi. Spesso mi sono chiesta se, con John Lenno, non sia morta anche la giovinezza di chi avrebbe dovuto cambiarlo questo mondo.

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