Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Racconti nella Rete 2009 “Disabilita’ ” di Barbara Cerri

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009

 

AUTISMO

 Trascorrevo le giornate dondolando su me stessa .

Se cercavano di fermarmi,  mi mordevo le mani  e battevo la testa sul pavimento.

Con il tempo avevo imparato a parlare perché mi piaceva sentire il rumore dentro la  bocca e perché avevo compreso che poteva essere un modo per starmene ancora più “dentro di me”.

Un giorno mia madre e mio padre mi portarono in un edificio con un grande giardino; mi lasciai condurre passivamente lungo un dedalo di corridoi fino ad  una stanza dove, per la prima volta, ho visto lei.

 Mi disse il suo nome con una voce bassa ed un ritmo lento, come una cantilena rassicurante.

Mise dei fogli e dei colori vicino a me, ma io avevo voglia di annusarla, non mi importava di tutto il resto.

Lei è rimasta ferma e mi ha lasciata fare; era un buon profumo quello che sentivo.

Alla fine dei nostri incontri scendevamo sempre in giardino ad aspettare l’arrivo dei miei genitori.

Lei sorrideva e mi parlava degli animali, dei fiori, cose che mi lasciavano del tutto indifferente.

Ma  aveva un buon profumo e così un giorno decisi di farle un regalo.

Mi allontanai per dare la caccia ad una lucertola.

Quando riuscì ad afferrarla le corsi incontro , ma lei stava parlando con un “altro” ed io ho visto tutto buio.

Riaprendo  gli occhi ho sentito un sapore di ferro in bocca.

Lei si è avvicinata e mi ha detto piano “sputa”.

Ed io ho sputato la testa della lucertola nella sua mano.

La cosa più importante che mi ha insegnato è il significato della parola “rabbia”.

Ora so che quando  tutto diventa buio  è “rabbia” ma non ho più bisogno di spaccare tutto e di mordermi  e di staccare la testa delle lucertole.

Ora grido “rabbia” e questa rimane “imprigionata” nella parola e non può più uscire e fare male a nessuno.

Mi chiedo perchè lei non la gridi mai ,  questo “non è bene”.

DOWN

Io parlo troppo, ma a me piace la compagnia.

Non lo so se mi piace perché sono down o perché è il mio carattere.

 Quando hai qualcosa di diverso, tutti finiscono per vedere solo quello e allora ogni cosa che fai , la fai perché sei down.

Mia mamma se ne è andata; una volta ho chiesto a mio papà  il perché e lui mi ha risposto che lei aveva bisogno di altre cose.

 Io mi voglio sposare e fare i bimbi e portarli al mare con il pulmann, perché mi sa che la patente non me la danno.

Io vedo la mia dottoressa una volta a settimana.

Lei mi sta simpatica perché ride, mi abbraccia e dice “sei una meraviglia” e lo pensa per davvero perché  le brillano gli occhi.

Io le dico sempre “quando sono grande ti sposo” e lei ride  e risponde “sono troppo vecchia per te e poi sono già sposata”.

Io da grande voglio fare il cameriere.

Non credo che tutti i down vogliano fare i camerieri e quindi direi che questa è una cosa proprio mia.

Fare il cameriere mi piace per tanti motivi: uno perché sto con la gente , due perché la divisa dei camerieri è elegante e , secondo me, mi fa più magro, tre perché se lavoro in un ristorate posso mangiare un sacco di roba senza pagare.

La dottoressa  ha  detto che era d’accordo con le prime due ragioni, ma meno con la terza perché, siccome ho il diabete, devo stare attento alla dieta.

Il diabete è una scocciatura perché non posso mangiare tutto quello che mi pare sennò ingrasso e questa credo sia una cosa che riguarda l’essere down.

Lei invece è magra.

L’ultima volta  che l’ho vista mi è sembrata ancora più magra e  le ho detto “sei troppo magra, non ti sposo”

Mi è sembrata molto triste, forse c’era rimasta male e così ho aggiunto “ scherzavo!”

Lei ha sorriso e ha risposto “sono troppo vecchia” senza aggiungere altro.

Non ha detto “per te” e nemmeno “sono sposata” e aveva una voce bassa.

Poi mi ha abbracciato e ha detto “sei una meraviglia”, ma era tutto diverso.

Quando divento cameriere la invito al mio ristorante e la faccio mangiare bene, così magari smetterà di essere così magra.

E anche di essere così triste.

TETRAPLEGIA:

il mio corpo è una barriera che impedisce alla mia mente di fluire libera.

Avevo sei anni quando mi hanno portato da lei.

 Di quell’incontro conservo l’immagine  delle sue mani: bellissime, sembravano ali di cicogna.

Mi guardava senza parlare, come a voler arrivare alle parti sepolte sotto le macerie di questo sudario.

Prese da un cassetto delle figure colorate  e mi chiese di guardare quella che lei nominava.

Io eseguii.

Mi mostrò altre immagini e poi una parola scritta e mi chiese di guardare l’immagine che corrispondeva alla parola.

Mia madre le disse che io non frequentavo ancora la scuola elementare  e che quindi non sapevo leggere.

Lei non disse niente.

Mise la parola  davanti ai miei occhi: c’era scritto “CANE”.

Era una parola facile, mia madre aveva l’abitudine di leggere le fiabe tenendomi seduto sulle sue gambe ed io avevo appreso spontaneamente a riconoscere le parole scritte.

 Con grande sforzo, guardai la foto del cane.

Lei mi sorrise, guardò oltre e vide la scintilla.

Mi mostrò altre parole e con facilità  le associai alle immagini corrispondenti.

 Disse a mia madre che  ero in grado di leggere e che questo sarebbe stato il mio modo di comunicare con il mondo esterno; era sufficiente mettere una tavola  di plexiglas davanti ai miei occhi con incollate sopra le lettere dell’alfabeto. Guardandole, io avrei creato le parole per comunicare i miei pensieri.

Sono passati undici anni dal nostro primo incontro; ora utilizzo un computer portatile  a comando oculare che mi consente di scrivere con lo sguardo; la prima volta che l’ho usato ero con lei e scrissi “perchè”.

Lei abbassò lo sguardo sulla tastiera del portatile e scrisse “ perché le persone come te sono venute a guarire dalla normalità le persone come me”.

Non le chiesi mai più niente, e non mi sono mai più interrogato sul significato dell’ esistenza.

Vorrei però conoscere il motivo della sua tristezza , vorrei aiutarla in questo percorso a ostacoli.

Può sembrare paradossale: un tetraplegico che sostiene il cammino di una persona “sana”, ma è stata lei a suggerirmi la soluzione di questo enigma.

Lei, con la sua disabilitata abilità.

ABILE:

Mi sveglio con i polmoni accartocciati contro il torace e guardo l’ora: le tre di notte.

Ho fame, ma non intendo cedere.

Non sono anoressica,  penso di avere solo “delle condotte alimentari restrittive”.

Mi alzo e vado in cucina, apro il frigo , guardo tutto quello che c’è dentro e poi lo richiudo.

Uno dei miei pazienti, mi ha detto che sono troppo magra e che non mi avrebbe più sposata.

Mi ha fatto ridere, a volte mi diverto più con loro che con “gli altri”.

Come mi vesto per andare al lavoro domani ? Mi piacciono  gli abiti femminili , le scarpe con i tacchi, le collane di vetro.

Indosso questi oggetti come un fragile carapace.

Lui mi ha lasciata.

Sembra una preghiera.

È dolce da pronunciare, accarezza le labbra e la lingua, le fa fremere.

È stata una delle mie pazienti ad insegnarmi che si possono apprezzare le parole solo per  il modo in cui “toccano le orecchie”,svuotandole di significato.

Vorrei riuscirci fino in fondo.

Lui mi ha lasciata.

Bene, non sento più il morso della fame: al suo posto, ora, c’è un vago senso di nausea.

Forse se avessi avuto forme più femminili lui sarebbe ancora qui.

No, non posso cadere in questa trappola mentale.

Guardo la mia mano sinistra nuda; rimane solo una traccia di quella che era stata una promessa “fino a che morte non ci separi”.

Penso al mio paziente che adora le mie mani, le sue sembrano fatte di materiale conchilifero.

 Le quattro e dieci.

Questa notte sembra non finire mai, mi accendo una sigaretta, mi siedo sul divano. Venti anni dal nostro primo incontro.

Più o meno nello stesso periodo iniziavo a lavorare.

Avevo venticinque anni, ero già una persona problematica.

Chi sceglie una professione come la mia deve avere dei nodi irrisolti, altrimenti si fa qualche anno di analisi e poi manda tutti a quel paese.

Ma io no, io volevo quel lavoro e quell’uomo.

Non ne ho azzeccata una. Provo  una grande stanchezza, profonda, midollare.

Le cinque e trenta.

Sta albeggiando, sento il pigolio tenue degli uccelli che si stanno risvegliando.

Mi sembra di vederli mentre arruffano le penne e si scuotono la notte dalle ali.

Apro la finestra; che miracolo la vita, talmente bella che vale la pena di morire per lei.

Bella anche quando si incapriccia e le viene in mente di cambiare le regole della creazione e  mette troppi crosomoni nel corredo di un bambino o ne altera i circuiti neuronali.

Inconsapevolmente crudele, ma bella.

Quando nella mente disturbata di una bambina sboccia il fiore di una nuova parola, quando  c’è qualcuno che sorride e sogna di diventare cameriere, quando gli occhi di un ragazzo  scrivono frasi che parlano direttamente alla tua anima, la vita è bella.

Guardo dalla finestra, poi guardo le mie mani.

Sembrano ali, potrei volare, potrei farlo, è solo un attimo.

 Venti metri  verso l’alto o verso il basso, poco importa.

Mi allontano dalla finestra pensando agli sguardi chimerici di chi incontrerò stamani, alla crudeltà della vita, alla sua bellezza.

Apro il frigo e metto a scaldare il latte, prendo i biscotti al cioccolato e sorrido, di nuovo sorrido.

Loading

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.