Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2017 “La donna che si sveglia ogni sera” di Mara Carella

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017

Bologna d’estate è calda, molto calda.

L’afa avvolge ogni cosa e non dà tregua. Pare nascondersi negli stessi muri degli edifici della città, sotto le sue strade e infilarsi in quei portici che hanno reso Bologna celebre nel mondo.

In un apparentemente anonimo monolocale del centro, una donna si sveglia non appena il sole cala.

Le sue finestre sono sigillate con scotch e cartone per non far entrare nemmeno uno spiraglio di luce.

Le apre, ma il caldo non diminuisce: l’aria è immobile e ancora impregnata di quella maledetta afa.

Miriam – questo il nome della donna che adesso siede sul letto con aria assente – rimpiange di tanto in tanto il Nord Europa. Ma poi si ricorda che lassù, in estate, c’è troppa luce.

A luglio a Bologna riesce a svegliarsi intorno alle dieci di sera. Alcune sere anche anche un po’ prima.

Quella sera è una di quelle.

Miriam si alza dal letto e cammina per il suo strano appartamento.

Ci ha buttato qualche cianfrusaglia qua e là perché possa somigliare a un’ordinaria abitazione. Non che la cosa le importi granché: riceve molti pochi ospiti.

Ha avuto però la premura di disporre un letto matrimoniale e un armadio capiente nella prima stanza a sinistra. Sono tra le poche cose che le servono per davvero.

Niente specchi o abbellimenti.

Nel bagno si trovano solo i sanitari e un quadretto raffigurante un paesaggio marittimo che il precedente proprietario deve aver lasciato. Miriam non ha mai avuto – questo è vero – motivi di tenerlo, ma nemmeno di disfarsene. Perciò è rimasto al suo posto di fronte alla vasca da bagno.

Nel soggiorno ha sì un divano ma nemmeno un tavolo.

In una libreria Ikea – altra eredità – si trovano qualche libro e pochi vinili. L’aspetto squallido e quasi lugubre di quella libreria mezza vuota avrebbe lasciato intendere che la sua proprietaria sia tutto fuorché un’appassionata. Il che, in un certo senso, corrisponde a verità.

Eppure a un secondo sguardo, un osservatore attento noterebbe che la maggior parte di quei pezzi è costituita da rarità, alcune di inestimabile valore.

Che razza di collezionista è mai questa? Si domanderebbe l’attento osservatore di cui sopra.

Una collezionista di vite. Risponderebbe Miriam.

Non è nemmeno una persona particolarmente colta. Almeno, non in senso stretto. Piuttosto, ha avuto molto tempo: un’infinità di tempo.

Accanto al soggiorno si trova la cucina, dall’aspetto stranamente nuovo e i cui mobili sono completamente vuoti, al di fuori di qualche bicchiere di vetro, bottiglie di varie dimensioni e materiali, una caraffa di plastica trasparente, un set di coltelli e un frigorifero sempre semivuoto.

Dopo essersi alzata, per prima cosa va a bere qualcosa di fresco. Ha solo una bottiglia di plastica contenente quel tanto che basta a riempire un bicchiere.

Quella sera sarebbe dovuta uscire di nuovo…

Sa che è rischioso, ma non ha alternative. E comunque fa troppo caldo per rimanere chiusa in quell’appartamento.

In fondo, si ripete da ormai parecchio, la sua libertà comporta sì, tante difficoltà, ma anche alcuni vantaggi.

Miriam indossa una parrucca rossa, una camicia bianca e una lunga gonna blu.

Lo stabile in cui vive è praticamente deserto: gli studenti hanno ormai lasciato la città e anche la famiglia del terzo piano è scappata dall’afa per andarsene al mare.

Uscita dal portone ha due scelte: a sinistra, dopo pochi metri, c’è via del Pratello, la strada che parrebbe non dormire mai; a destra la sua parallela silenziosa. Sceglie la seconda opzione: è ancora troppo presto per passare davanti a decine di locali affollati. È sì travestita, ma è pur sempre pericoloso…

Cammina senza pensieri per un tempo imprecisato: intorno a lei ci sono solo saracinesche abbassate. In un attimo è arrivata nel cuore della città e da via Ugo Bassi prima e via Rizzoli poi, vede le due torri. La gente uscita di casa dopo il tramonto per cercare un po’ d’aria passeggia qui, su queste strade.

Come ogni sera da qualche tempo, Miriam finisce in piazza Maggiore, la piazza che nelle sere d’estate si riempie di gente intenta a guardare film proiettati su uno schermo al centro della piazza.

È rischioso, per lei, sedere in mezzo a tanta gente: sono quelle situazioni da evitare e, sì, lei lo sa bene…

Eppure non resiste a tanta bellezza fine a sé stessa: le piace sedere in quel luogo di origini tanto antiche e sentire sulla propria pelle l’aria che si fa sempre più fresca – a volte tira quasi vento; le piacciono anche quei film spesso datati, che lei non ha mai sentito nemmeno nominare; ma soprattutto, le piace tornare a sedere in mezzo a tanta gente, a sconosciuti che come lei cercano qualcosa di bello. O solo un po’ di fresco. Una distrazione.

Anche quella sera si mette a sedere in una delle sedie libere in piazza. Il film è iniziato da un po’, ma non le importa. Lascia che le immagini scorrano e si susseguano senza realmente seguirle: è inebriata da tutti gli odori che la circondano. Quegli odori così umani. Quasi la eccitano…

Quando il film finisce aspetta che tutti se ne vadano e poi si alza. Nel frattempo, più nottambuli, si sono dati appuntamento con qualcuno, mentre gli altri sono tornati a casa a dormire.

Miriam ripercorre la stessa strada al contrario.

Solo che questa volta deliberatamente sceglie via del Pratello. È mezzanotte e mezzo: di gente ce n’è ancora parecchia, ma di meno; se aspetta troppo finirà per svuotarsi.

Quella via un po’ la confonde: tanti rumori, voci e odori.

Prima il kebabbaro con le sue spezie, con la carne troppo abbrustolita, i falafel appena tirati fuori dall’olio e il sudore di tutti quelli che – indifferenti al caldo – fanno la fila in quello stanzone torrido pur di ottenere uno spuntino notturno. Poi ci sono una pizzeria, una trattoria bolognese e l’ennesimo pub…

L’odore di cibo, di bruciato, di alcool, di tabacco, di doposole al mentolo che una ragazza bionda accanto a lei si è spalmata qualche ora prima, di ritorno da una giornata in piscina, si mescolano. Le danno a tratti la nausea.

Ma Miriam non è lì per raccogliere gli odori dell’umanità e catalogarli. Oh no, quello è solo uno stupido hobby.

Il suo motivo di vita è un altro: Miriam osserva. E cerca.

Cerca con lo sguardo la sua vittima ideale.

La trova fuori da un bar verso la fine della strada.

La musica che proviene da dentro al locale è quasi assordante e l’uomo è alla terza birra.

Non è difficile convincerlo con qualche sguardo un po’ troppo deciso e con un sorriso all’apparenza innocente che sì, lei è la cosa più bella che lui abbia visto fino a quel momento. E a seguirla.

L’uomo si convince persino a guidare fino a una zona isolata dei colli di Bologna. C’è anche una canzone che parla di quei colli, a Miriam pare di ricordare…

Sui colli è buio, a parte qualche lucciola e i fanali dell’auto. Tira anche una piacevole brezza fresca.

I due escono dalla macchina e si dirigono verso un prato.

Miriam si spoglia completamente, fingendo un’ improvvisa e inarrestabile passione.

La verità è che non può correre il rischio di sporcarsi.

L’uomo la guarda e sì, il suo ultimo pensiero sarà davvero che quella è proprio la cosa più bella che gli sia mai capitato di vedere. Questo, subito prima che lei si chini sul suo collo.

Solo che invece di baciarlo lo morde con tutta la forza che ha in corpo.

In quel momento Miriam non pensa a nulla tranne che alla sua sete. Cerca di succhiare più sangue che può.

L’uomo muore quasi all’istante e senza soffrire, almeno non troppo. Il suo cadavere giace davanti a lei.

“Credi che sia stata crudele, non è vero?!”

I suoi occhi sono rimasti aperti, sbarrati e paiono guardare nella sua direzione.

“La verità è che sono stata molto più buona di quanto non siano stati con me, tanti anni fa…”

Dalla borsa estrae tutto il necessario: un coltello, siringhe e sacchetti di plastica di quelli usati per i prelievi.

Qualcuno la avrebbe scambiata per l’attrezzatura di un medico. Solo che lei le vite non le salva.

Finisce il lavoro rapidamente, ormai è diventata veloce: raccoglie il suo sangue dopo aver fatto a pezzi quel cadavere e poi si pulisce.

Quindi si riveste e guida fino in città. Sulla strada si ferma solo una volta, qualche metro dopo il prato, per gettare i resti dell’uomo in un cassonetto.

Parcheggia vicino al centro e torna al suo appartamento a piedi. Mancan o ancora due ore all’alba ma è già esausta.

A casa, beve un grande bicchiere di sangue e, soddisfatta, si dice che quello che ha raccolto quella notte le basterà per almeno tre giorni: in fondo è per questo che preferisce i ragazzi alti e grossi.

Mentre sciacqua il bicchiere, però, si fa prendere dalla solita angoscia, quell’angoscia che le ricorda che le cose dovrebbero essere diverse.

È la mia natura. È ciò che sono. Non posso farci nulla”

Spesso, anche in passato, si è sentita in colpa. Si è sentita un mostro.

Ma è giusto chiedere a sé stessa di cambiare?

In fondo, adesso ne è sempre più convinta: lei è sempre stata un mostro. Quando ancora era umana aveva sempre preferito la solitudine alla compagnia. Ed era bella e istruita. La prima cosa la rendeva detestabile alle donne, la seconda agli uomini. Per fortuna però, era stata anche ricca, cosa che le aveva permesso di mantenere una sufficiente distanza dal resto del genere umano per gran parte del tempo.

Poi era successo, senza che se ne accorgesse veramente.

Aveva pochi ricordi dei suoi primi anni dopo la trasformazione.

Ma ricordava cosa le avevano spiegato quasi subito, mentre ancora il processo non si era completato e lei si trovava immobilizzata a un letto con dolori lancinanti, incapace di assumere qualsiasi forma di nutrimento, fosse esso sangue o cibo.

Non potrai restare qui per sempre”

La nobildonna di cui era ospite da tempo amava circondarsi di giovani ragazze e trasformarle per puro divertimento.

Elisabetta era il suo nome in italiano, ma si diceva fosse ungherese in origine e che in realtà si chiamasse Erzsebet. Era una donna sulla cinquantina ancora attraente, tanto per gli uomini quanto per le donne. Lei per prima le aveva spiegato l’importanza degli angeli.

Sai, mia cara Marianna – questo era il nome che usava Miriam all’epoca – è difficile spiegare cosa esattamente sia un angelo per noi.

In estrema sintesi: è una forma d’amore malato. E tu devi approfittarti di tutto questo. Ne va della tua sopravvivenza…

Uno tra voi – tu, appunto – dipenderà interamente dall’altro. Ma non credere che l’angelo non abbia nulla in cambio: la merce di scambio sarà da una parte il sangue, insieme a ogni forma di supporto materiale, e dall’altra amore. Perché l’angelo non potrà più vivere senza l’amore di colui per cui, intanto, avrà cominciato a fare qualunque cosa, compreso uccidere.

Ma noi, cara Marianna, non sappiamo amare, non è nella nostra natura farlo. Siamo troppo egoisti.

E così, di solito preferiamo uccidere il nostro angelo quando questo non è più capace di sostenere il proprio ruolo. Trasformarlo implicherebbe infatti perdere sangue umano, prezioso nutrimento. Appunto, noi siamo creature egoiste. Avide ed egoiste.”

Pur dopo secoli però, Miriam non aveva ancora trovato un angelo e non sapeva dove sbagliasse.

Il non sentirsi amata da nessuno la faceva sentire una creatura ancora più mostruosa di tutti i suoi simili.

Anche quella sera, come sempre dopo una caccia, si sarebbe messa a piangere.

E poi, infine, a dormire, con le finestre sigillate e il ventilatore al massimo.

Là fuori, a Bologna, la vita riprende: chi ancora lavora, ignora l’afa ed esce.

Qualcun altro, come Miriam, dorme per scappare dal caldo. Altri, pure, hanno le finestre sigillate e si sveglieranno solo di notte.

Di primo mattino, qualcuno troverà il cadavere fatto a pezzi lasciato di fronte alla villa di famiglia di un illustre primario. E ne rimarrà sconvolto.

Qualcuno finirà anche per ricordarsi dell’uomo e delle sue tre birre al Pratello.

E di una donna che lo aveva avvicinato. Forse una rossa.

Ma nessuno saprà dire altro e Miriam potrà tornare a camminare di notte per le vie di Bologna a cacciare.

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