Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2017 “Veronica” di Valentina Capaldo

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017

Veronica teneva gli occhi bassi sul banco mentre Davide faceva scempio di sé davanti alla classe. Si scaraventava contro l’armadio di metallo già pluriammaccato, contro gli spigoli della cattedra vuota, contro il termosifone, con brevi scoppi di riso nervoso e gli occhi spiritati. Il gruppo dei compagni gli faceva eco con una finta, sfrangiata ilarità. Imbarazzati, infastiditi, distratti. Ora che faceva tutto da solo, ora che faceva il buffone pazzo non c’era più gusto, non c’era più l’obbligo di aderire alla prepotenza per sfuggire alla prepotenza. Gli aguzzini assistevano in piedi al risultato della loro opera di settimane con un sorriso sprezzante e disgustato. Veronica, ormai adulta, si stupiva di non ricordarne né i nomi né le facce ma solo le azioni: il liceo era iniziato da pochissimo e Davide (di lui sì che Veronica, a decenni di distanza, improvvisamente ricordava sia il nome che il cognome) era stato presto scelto come vittima designata, come palla di carne da rilanciarsi e far sbattere con fracasso contro ogni spigolo del piccolo spazio antistante le file di banchi occupati. Quello spettacolo si ripeteva quasi ogni mattina, nei minuti che precedevano la campanella e l’ingresso dell’insegnante della prima ora in classe. Davide non si ribellava, non piangeva; rideva insieme ai suoi aguzzini come per non dare peso a ciò che stava vivendo; rideva per non dare soddisfazione. E gli altri rincaravano la dose. I lividi si accumulavano: quelli vecchi diventavano violacei, quelli nuovi avevano un orlo rossastro di capillari scoppiati attorno ai bozzi della fronte troppo alta. I professori non vedevano, non sapevano. O non volevano sapere.

 

Veronica, con gli occhi bassi, si vergognava. Del proprio silenzio. Del sollievo perché non era toccato a lei. Anche lei avrebbe potuto vedersela brutta. A 13 anni e mezzo ne dimostrava molti di meno. Sembrava proprio una bambina. Piatta come una tavola, con gli occhiali e un abbigliamento da reparto 0-12 dei grandi magazzini. Piccola e magra, figlia di emigrati dal Sud al Nord, la sua unica difesa era lo studio. I suoi compagni provenivano per la maggior parte da famiglie benestanti e sembravano non afflitti, come la sua famiglia, dall’incubo di una perenne precarietà economica. Veronica teneva scritta addosso la sua condizione. Ma era brava. Un professore, uno dei primissimi giorni di scuola, fissandola l’aveva subito messo in dubbio: “Sei uscita con ottimo. Vedremo se è un giudizio reale”. Il dubbio veniva dal fatto che il giudizio era stato emesso da una scuola media di quel Sud notoriamente colpevole di gonfiare i risultati dei propri alunni. Peccato che la scuola media di Veronica fosse stata davvero un’ottima scuola. Peccato che avesse avuto un’insegnante di lettere davvero eccezionale che l’aveva a lungo confortata con lettere affettuose nei primi tempi del suo trasferimento (si trascinava ancora dietro il rimorso di aver interrotto per pigrizia quella corrispondenza). Perciò Veronica si spaventò sì per le parole del professore ma non troppo. Si disse che avrebbe semplicemente continuato quello che sapeva fare: studiare. Educata, tranquilla e gentile di natura, con quella sua aria da brava bambina studiosa e intelligente suscitò presto nella maggior parte degli insegnanti sentimenti materni/paterni più o meno espliciti. I compagni la consideravano con paternalistica indulgenza e la ritenevano all’occorrenza utile per consulenze varie in tutto l’ambito umanistico che era quello in cui lei riusciva meglio. Al Nord come al Sud, Veronica non aveva amici. Era cresciuta iperprotetta e isolata. Tutto ciò che sapeva lo sapeva dai libri e questo creava un contrasto fra la sua totale inesperienza e una certa conoscenza teorica di tutto. I compagni talvolta ridevano dei suoi ingenui entusiasmi di cui poi arrossiva.

 

Un giorno un gruppo di ragazzi di un’altra classe, più grandi, aveva fatto irruzione nell’aula di Veronica durante l’intervallo. Aggressivi e chiassosi erano venuti a prendere in giro i “primini”. Veronica se ne stava per conto suo e si era vista strappare dalle mani il diario su cui ancora disegnava, come faceva a casa durante lunghe estati sui propri album. Se lo erano passati per un po’ sghignazzando mentre lei si era immobilizzata come un insetto, corrugando la fronte e sentendo montare dentro non solo la paura ma una insospettata combattività. Prima che le potesse uscire dai denti qualche parola rabbiosa, qualcuno dei compagni aveva detto: “Ma lasciatela stare”. Per Davide non lo avevano mai fatto. I ragazzi grandi l’avevano squadrata e avevano deciso che non ne valeva la pena. Veronica non li avrebbe più incrociati.

 

Ogni tanto Veronica cercava di farsi amico qualcuno ma si rendeva conto che non era possibile. Non c’era posto. Col tempo avrebbe rinunciato a ogni tentativo. Si accontentava degli sporadici inviti per fare i compiti insieme. In quelle occasioni le sembrava sempre di entrare in un mondo migliore, fatto di soddisfatto benessere borghese. Quando le mamme entravano sorridenti con la frutta zuccherata e i toast caldi e i padri tornavano contenti dal lavoro le sembrava sempre di stare in qualche sceneggiato televisivo. Sulle pareti delle stanze dei suoi compagni spiccavano cose per lei sorprendenti, come la prima paga per un lavoretto estivo incorniciata o i poster di cantanti di cui ignorava totalmente l’esistenza. I suoi compagni uscivano la sera, andavano nei locali e nelle discoteche, a volte bevevano e fumavano. Si mettevano insieme e si mollavano. Probabilmente alcuni sperimentavano il sesso. Una sua compagna si era addirittura fidanzata, per un po’, con il figlio del professore di filosofia. Tutte queste voci le arrivavano frammentarie, come da distanze incommensurabili e si infrangevano contro la barriera del suo chiuso universo ancora semi-infantile. La sua adolescenza passava solo anagraficamente.

 

Alle medie era successo, ad un certo punto, che la maggioranza delle femmine, capeggiate dall’altra più brava della classe, la isolasse. Dicevano che Veronica si dava delle arie, che faceva di tutto per farsi notare dai professori di cui, infatti, era la preferita. Le rare volte in cui le rivolgevano la parola, le parlavano con un tono falso e forzato. Non osavano fare molto di più perché lei era davvero la favorita degli insegnanti che facevano chiaramente sentire la loro benevola protezione. Alleggerendo e aggravando contemporaneamente la sua posizione. L’unica compagna che le dimostrava una certa simpatia preferiva manifestarla principalmente fuori da scuola per non guastarsi con le altre. Quando si seppe che si sarebbe trasferita al Nord le cose migliorarono un po’. Era quasi come se partisse per un altro pianeta. Punizione sufficiente.

 

Veronica si guardava poco apposta. Così aveva un’idea il più possibile vaga di sé stessa e poteva immaginare di essere chiunque. Uno dei momenti peggiori della settimana era il doversi spogliare insieme alle compagne, per cambiarsi prima di andare in palestra. Si svestiva e rivestiva con una velocità febbrile evitando di guardarsi attorno e di intercettare gli eventuali sguardi delle altre sulla sua biancheria intima, sulle sue gambe. L’ora di educazione fisica era atroce: si sentiva esposta senza rimedio dentro l’ampio e spietato spazio della palestra in cui tutto le faceva paura. Avendo vissuto principalmente entro spazi chiusi, Veronica non aveva dimestichezza con il movimento, lo sport, men che meno con il gioco di squadra. Il quadro svedese e la cavallina la riempivano di sgomento. Il pallone era una sfera potenzialmente micidiale. Gli insegnanti lo vedevano e qualche volta, invece di forzarla, le concedevano di stare nel suo punto preferito: aderente alla parete.

 

Arrivata alla soglia dei suoi 18 anni, Veronica si era sentita improvvisamente stanca, in preda ad un’occulta, banale infelicità. Una sensazione che a intervalli si sarebbe ripresentata nella sua giovinezza e poi nella vita. Quando il peso della solitudine si sarebbe fatto maggiormente sentire e l’avrebbe riempita di rimpianti e desideri insoddisfatti.

 

La sorte aveva voluto che Veronica finisse ad insegnare in una scuola media adiacente al liceo che aveva frequentato. Aveva scelto, alla fine, di non uscire, per sua stessa protezione e sicurezza, dall’unico luogo che sapeva di conoscere a fondo, fin dall’inizio. Ora che era un’insegnante, poteva giocare a fare l’adulta con i suoi alunni. Aveva ancora una conoscenza della vita puramente teorica ma la spacciava per reale, senza che loro potessero accorgersi della differenza. Perché in tutto il resto, nelle intenzioni e nella benevolenza nei confronti dei propri studenti, era perfettamente autentica e sincera. Loro non sapevano che cosa significassero per lei gli spontanei saluti mattutini che riceveva, improntati ad una sincera cordialità. Non sapevano quanto contassero le loro confidenze, le sciocchezze che le raccontavano e per le quali non doveva fingere interesse perché per lo più le interessavano davvero. Non sapevano quanto la gratificassero gli inviti alle loro partite, gli auguri di compleanno che compensavano il telefono muto. In quei momenti si sentiva come avrebbe voluto sentirsi in passato. Necessaria, apprezzata, riconosciuta. Non aveva bisogno di nient’altro quando stavano zitti mentre leggeva per loro o mentre spiegava qualcosa che finalmente aveva catturato la loro attenzione. Gli anni peggiori erano stati quelli in cui, da supplente, non era riuscita a costruire un rapporto vero con i propri ragazzi. Gli stessi che sapevano farla sentire necessaria potevano farla sentire completamente inutile. E anche in quel caso, non sapevano quanto male potessero causare. Valeva la pena, tuttavia, correre il rischio. Loro contavano più di tutto. Per loro cercava di essere migliore; con loro riusciva a lasciare fuori tutto il resto. Poteva essere sé stessa in loro compagnia. Poteva sorridere delle loro bambinate e, in una ambigua e soddisfacente posizione dentro e fuori il loro mondo, quel mondo di cui un tempo avrebbe voluto far parte, poteva bearsi di essere madre, amica, professoressa. Ancora dimostrava meno anni di quanti ne avesse. Era ancora magra e acerba. Quando andava al lavoro non erano i colleghi o i genitori a occupare i suoi pensieri. Erano i suoi ragazzi. “Prof., allora pensa a noi anche quando non è a scuola!”. Sì, perché siamo più simili di quanto possiate immaginare. Perché ho la vostra stessa età e sempre l’avrò. Perché sotto patine e strati sono come voi e lo sentite. Solo voi avete occhi per vedermi.

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4 commenti »

  1. La scuola, nella sua crudeltà da una parte e bellezza dall’altra, vista con gli occhi di una bambina che diventa grande senza perdere lo sguardo puro sulle cose. Commovente e vero, complimenti. Quante Veroniche abbiamo visto nelle nostre classi, e quante volte lo siamo state noi stesse. Hai un gran coraggio a raccontare lo sgomento di chi assiste ad un sopruso in silenzio… quante volte ci siamo trovati lì anche noi e abbiamo taciuto? Valentina, grazie per questo spaccato di vita, scritto con delicatezza ed eleganza.

  2. Un racconto tenerissimo. Hai costruito il personaggio di Veronica con grande realismo e poesia. una donna sempre rimasta bambina, incapace di crescere che cerca di aiutare altri a crescere insieme a lei. Complimenti

  3. Valentina, ero convinta di aver commentato il tuo racconto, ma non mi leggo qui sotto. In realtà, Veronica non avrà sempre la loro età perché lei crescerà e i suoi alunni invece resteranno sempre preadolescenti o adolescenti con gli stessi problemi, le stesse difficoltà, le stesse ricchezze. Veronica dovrà diventare una creatura metamorfica, capace di assorbire il disagio, di farsi madre ma anche controllore rigoroso di regole necessarie. Benvenuta nel club!

  4. Una storia che arriva al cuore e alla memoria. Raccontata con garbo ed efficacia e ricca di spunti di riflessione. Non so se augurarmi che Veronica cresca o rimanga sempre
    come i suoi allievi, ma tutto sommato è una domanda accademica 🙂 in ogni caso complimenti Valentina, per il tuo racconto e per la sua umana poesia.

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