Premio Racconti nella Rete 2010 “Oro nero” di Vanessa Leonardi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010Mocha, Yemen.
Quella mattina soffiava un vento surreale che riusciva quasi, a piccoli vortici, a colorare d’essenze rossastre e granulose l’aria afosamente torbida del deserto in agosto. I granelli di sabbia di cui pullulava tutto, anima compresa, volteggiavano superbi in e per ogni dove. E proprio quando si rimaneva fissi ad ammirarne la dolcezza fluttuante, ti si conficcavano negli occhi come spilli ardenti scagliati da non so quale tiratore demoniaco. Come era prevedibile, quella mattina Sahid non voleva alzarsi per andare a lavoro e affrontare quell’inferno, ma la madre cominciò a sgridarlo in un modo sorprendentemente violento , che di certo non ci si aspettava a guardarla nella sua gracilità. Vien da pensare che era la fame a gridare. Sahid dovette alzarsi e abbracciare la monotonia di un altro giorno duro, massacrante e dissacrante dell’umanità di un bambino di soli sette anni appena compiuti. Non c’era stata scuola per Sahid, non c’erano stati giochi per questo piccolo grande uomo che da due anni mandava avanti una famiglia. Una famiglia piuttosto numerosa se si pensa che era composta da 34 membri: oltre a lui, la madre, quella che la mattina urlava per la fame, la nonna, abile caffeomante, una sorellina più piccola che la mattina voleva andare a lavoro con Sahid perchè era convinta che il fratello andasse a giocare con “le palline”, un cane di nome Buna di cui nessuno ormai si ricordava l’età, undici pecore, tre galline, due conigli e tredici mucche. Una famiglia piuttosto numerosa, sì, quella di Sahid, ma lui era un piccolo grande uomo e, anche se la mattina faceva urlare la madre per la sua pigrizia, o per la fame, sapeva mantenerla nel migliore dei modi,da quel giorno in cui il padre era venuto a mancare “per colpa delle mosche”. Mohamed mancava a Sahid, perchè il padre, diceva, gli aveva insegnato molte cose e gli raccontava molte fiabe la sera, per farlo addormentare presto e farlo svegliare presto la mattina seguente, e forse anche per non sentire urlare la moglie come una forsennata. Nella mente di quel piccolo eroe niente che riconducesse alla banalità delle richieste e dei fabbisogni dei figli di noi occidentali del terzo millennio, ma solo comandi che scandivano i momenti di piantagione, raccolta e lavorazione di quel bene indescrivibile che ogni giorno Sahid vedeva, odorava e toccava: caffè. “Sbrigati – urlò la nonna – o perderai il posto di lavoro!”. “Sì, vado”, sbuffò Sahid dalla camera da letto, anche se un vero letto in quella casa nessuno ce l’aveva. “ E posa quel coso!”, urlò in faccia alla nonna prima di uscire, indicando coi suoi occhi neri neri un barattolo di caffè che stava scoperchiato sul tavolo. “Questi giovani d’oggi…Un giorno mi ringrazierai e dirai che te l’avevo detto! Corri, su!” La nonna, infatti, era una caffeomante e passava le giornate accovacciata su uno sgabello vicino al tavolo in cucina. Gli strumenti del suo lavoro erano una tazzina da caffè bianco sporco, del caffè macinato tanto finemente che pareva talco, come il caffè dei turchi, diceva lei, che ogni tanto prelevava di nascosto dal barattolo che ora stava sul tavolo, un cucchiaino, un pentolino mezzo arrugginito, un piattino panna e tanta, tanta fantasia. Ce ne voleva di fantasia, diceva, Sahid, per vedere sul fondo di una tazza da caffè una nave o uno stivale. Forse la ruggine che si mischiava al caffè aiutava la fantasia. “Te lo stai inventando”, disse alla nonna l’unica volta in cui questa era riuscita a convincerlo a “sprecare” il caffè per quello strano gioco, quando si sentì dire “L’uovo, c’è l’uovo…Sarai felice e ricco…Un giorno diventerai ricco nipote mio!”. Cosa poteva far pensare a quel piccoletto che un giorno sarebbe diventato ricchissimo, di una ricchezza rara e inistimabile…Pero’, crescendo, Sahid avrebbe quanto meno capito perchè la madre la mattina urlava: Aisha credeva alle previsioni dell’anziana madre perchè, anche se prima era scettica come il figlioletto, c’aveva azzeccato quando predisse la morte repentina e prematura del genero perchè nel fondo del caffè aveva intravisto la montagna, simbolo di difficoltà. Ma Aisha la mattina urlava per tanti motivi: urlava per la fame, urlava per svegliare Sahid affinchè corresse a lavoro per diventare ricco come diceva la madre, urlava per il dolore di aver perso Mohamed proprio quando aveva iniziato ad amarlo, per Sahid che andava a lavorare laddove le mosche avevano preso Mohamed e contro la madre che sprecava caffè, che sprecava quel che Sahid riusciva a portare a casa di nascosto da lavoro solo perchè lei voleva leggere i fondi delle tazze. E Sahid rischiava la vita per ambo le cose: furto e lavoro nella piantagione con le mosche. Il caffè, per questa normale e anomala famiglia yemenita era fons vitae et mortis, era motivo di gioie e dolori, perdita e guadagno. E lo scopo delle loro vite era capire a cosa servisse vivere per sopravvivere alla mercè di marionette animate dal caffè. Solo da lui.
Alla piantagione.
“Qahwa…kophi…gra-pi…gafè…ahllaullaahieiè…! Buna..kedai..kopi…cafè…ahllaullaahieiè!”. Questi i canti dai ritmi ossessionanti urlati a squarciagola dagli schiavi nella piantagione di caffè. Le prime volte che li aveva sentiti, Sahid era rimasto quasi come sotto choc perchè gli operai li cantavano a squarciagola, accompagnandoli anche con ancheggiamenti corporei, quasi come se non fossero stanchi, quasi come se l’afa di quarantadue gradi fosse solo un’illusione, come se il sudore che scendeva sulle fronti rugose fosse brina fresca, come se quei sacchi d’immane peso contenessero piume aulenti di caffè. E Sahid non capiva. Ma adesso Sahid aveva quindici anni, e anche per lui alla piantagione, i canti d’accompagnamento che cantavano il caffè in tutte le lingue del mondo, si spiegavano all’unisono coi battiti del suo cuore. Qahwa. Tutum. Kophi. Tutum. Per tutto il giorno. Per tutta la vita.
Da quando anche la nonna era venuta a mancare, Sahid non doveva nemmeno preoccuparsi di rubare un po’ di caffè ogni giorno dal guardiano che era solito appisolarsi pesantemente. Ma l’aveva derubato per sette anni per far sì che la nonna continuasse a prevedere fortune e disgrazie, ed ora si sentiva in debito con lui, voleva fare qualcosa per farsi perdonare, anche se quello non avrebbe mai sospettato nulla. Così un giorno, dopo una struggente giornata di raccolta sotto il sole malandrino, il ragazzo andò dal guardiano. “Salàm, Jusseph.” “As-salàm, Sahid. Come mai non corri a casa? Hai da fare il turno straordinario?”, “No, sono stanco e voglio riposarmi, ho da fare un miglio a piedi..sa…”. Il vecchio guardiano d’origine egiziana vide il ragazzo in difficoltà che gesticolava con ansia e gli chiese se voleva bere del caffè con lui e chiacchierare un po’. “No, grazie…Non ho mai bevuto caffè”. “Ah ah ah ah!!!” rise rozzamente Jusseph portandosi le mani sulle guance barbute con fare stupito e sconquassandosi dalle risate. “Cosa? Tu lavori qui da otto anni, appartieni ad una famiglia di lavoratori di caffè, tua nonna col caffè faceva la strega, puzzi di caffè e..e..ah ah..non l’hai mai bevuto??!!! Ah ah!”. “Beh, sì, in realtà lei si è risposto da solo: io odio il caffè, odio il modo irruento con cui m’impuzza le mani e questi quattro stracci che indosso, odio il modo in cui ha portato via mio padre e odio chi come lei pensa che mia nonna era una strega!”. Così detto, il ragazzo scappò via e lascio’ a Jusseph solo il tempo di accennare un “Che caratterino!”. Il giorno seguente, dopo un’altra giornata di lavoro, Sahid passò nuovamente dal guardiano che, a giudicare dall’espressione, attendeva la sua visita. Appena entrato il giovane si affrettò a chiedergli scusa per la scontrosità dimostrata il giorno prima, come gli aveva insegnato Mohamed, come facevano i veri uomini. Ma senza nemmeno averlo fatto finire di parlare, Jusseph gli si avvicinò chiedendogli se ci fosse qualcosa che lo turbasse al di là delle motivazioni che aveva dato il giorno prima. “Sì, la fame”, fu la risposta secca e precisa che diede il ragazzo. “Mi turba la povertà, mi turbano le ossa di mia madre e di mia sorella che vedo sporgere sempre più dalle loro spalle esili, mi turba Buna che non saltella piu’ quando torno a casa e mi turba l’assenza di nonna che mi rassicurava dicendomi che un giorno sarei stato felice perchè le sue tazze dicevano..”. E qui fece una breve pausa. “Ma dove puo’ essere per me la felicità? Ho passato ventisei anni della mia vita senza mai fare altro se non piantare, potare, raccogliere e immagazzinare quella cosa che mi ha preso l’anima. Voglio vivere felicemente, come uno di quei ricchi imprenditori ben vestiti che a volte viene qui a controllare le piante e poi riparte per l’Europa”. “Ma no, ragazzo…Quella non è vera felicità, quella è solo ricchezza, è esibizione dei soldi che si fanno a spese nostre e grazie all’oro nero…Noi siamo i veri ricchi, che viviamo in natura e seguiamo i ritmi del mondo di Dio. E poi sai, Sahid, quanta gente il caffè ha fatto felice?”. A quel punto il ragazzo rimase immobile con tutto il corpo tranne che con le falangi della mano destra che muovevano atarassiche un legnetto contro la sua stessa scarpa. Era rimasto fermo all’oro nero. Il vecchio continuò: “ Si dice che nella nostra terra, in un tempo remoto, a scoprire il caffè fu un pastore di nome Kaldhi che, naturalmente, portava abitualmente al pascolo le sue capre. Un giorno Kaldhi si assopì all’ombra di un ulivo e l’ultima cosa che vide prima di chiudere gli occhi furono le sue capre brancolare nella verdura mangiando lentamente. Preso dalla noia, si addormento’, sapendo che il suo cane avrebbe fatto la guardia. Al suo risveglio si accorse che le capre vagabondavano energicamente per i campi con una vivacità inusuale. Il pastore allora cerò di capire qual era il motivo, fino a che non vide una capretta che mangiava delle strane bacche rosse e poi masticava le foglie della pianta. A quel punto Kaldhi raccolse tante bacche, ne abbrustolì i semi, li macinò e, dopo averne fatta un’infusione, ottenne il caffè che, bevuto, gli arrecò l’effetto che aveva fatto alle caprette. Kaldhi iniziò a venderlo e divenne ricchissimo e felice. Ma c’è anche chi pensa che il caffè era noto anche al popolo di Omero o a Gesù… E’ una bevanda sacra figlio mio, non berla, ma non odiarla”. Attento al racconto, Sahid iniziò a fare delle domande al vecchio che si rivelo’ essere anche saggio. “ E io potrei essere felice come Kaldhi grazie al caffè?”.“Certo ragazzo”. “E se Kaldhi fu felice perchè lo scoprì, una volta che la scoperta è già stata fatta, io di cosa posso essere felice?”. “La felicità non si insegna, caro mio. La felicità è una chiave di lettura della vita e chiave e vita sono personalissime. Sta a te trovare il modo di essere felice grazie al caffè. Ma sei intelligente, lo troverai. Adesso vai che devo andare a dormire!”. Così congedatosi, il vecchio si tirò sul corpo una fresca coperta di lino e si mise a dormire, seduto stante. Sahid andò via e si incamminò verso casa. Percorse quella solita strada dallo sterro ormai solcato dai passi di lui prima bambino, poi ragazzo ed ora uomo che si accingeva a trovare un senso alla sua vita. Sahid era fortunato, secondo me, perchè tutti gli uomini vivono cercando il senso della loro vita: alcuni non sanno nemmeno se cercarlo, altri non sanno da dove iniziare. Lui almeno sapeva già che era nel caffè. Proseguì il cammino dando dei piccoli calci ai ciottolini che lo precedevano in quella corsa verso una breve notte e sussurrando al sole che tramontava: “Mia nonna aveva ragione”. Quella notte, Sahid non riuscì a dormire. Rimase sveglio a guardare il barattolo di caffè che stava ancora laddove l’aveva lasciato anni addietro la nonna. Quel barattolo ora era un’urna entro la quale viveva, coperto dal talco turco, uno sciame di perchè. La madre, che vide la luce della lampada a olio ciondolare fra le pareti della cucina, si alzò e raggiunse Sahid. “Che ti succede, figliolo? Vuoi una tisana rilassante se non riesci a prendere sonno? Ti sei stancato troppo oggi a lavoro, vero? La vuoi una tisana?”. “No, madre. Voglio un caffè”. “Oh, Allah ti perdoni! Cos’hai detto di volere? Caffè? Ma..ma..Tu, noi odiamo il caffè!” “Ben detto madre. Il caffè è tutta la nostra vita e se ci ostiniamo ad odiarlo, odieremo la nostra vita, odieremo noi stessi. Capite? Papà è morto perchè delle stupide mosche lo hanno punto, non perchè lavorava il caffè. Nonna coi soldi che i creduloni le davano per leggere i fondi del caffè contribuiva a guadagnare più soldi. Io col caffè ho mantenuto una famiglia e nel caffè ho trovato la mia felicità, mamma. Il segreto sta nell’amare le cose che si hanno, senza guardare a quel che hanno gli altri. O se si vuole sbirciare nelle fortune altrui, mai farlo senza ignorare le cose brutte che possono arrecare”. “Figlio delirate?” “No, madre, rido. E devo ringraziare Jusseph, il guardiano dei campi perchè mi ha fatto capire che anche quell’uomo ricchissimo, quell’europeo che ogni tanto viene in piantagione, è ricco, sì, ma è sempre in viaggio e lontano dalla sua famiglia. Cosa se ne fa dei soldi dell’oro nero?” . “Oro nero? Sahid, io vado a letto; spero che domani tu rinsavisca. Buonanotte.” . Ma, come previsto, la mattina seguente Aisha non trovò il figlio in camera, mentre i suoi vestiti da lavoro giacevano sul letto. Sahid, al sorgere del sole, era andato da Jusseph, l’aveva convinto a prendere un giorno di pausa da lavoro (uno solo, dopo anni di fatica) per andare in città a bere il caffè. Jusseph accettò. I due, come due bambini che adamiticamente si apprestano a correre verso il nuovo, giunsero a Mocha, patria del caffè. Il tintinnio dei cucchiaini che giravano lo zucchero in tazzine colorate si propagava fuori dai numerosi bar; l’aroma sensuale che si espandeva per le vie era qualcosa di divino per le narici di Sahid. Ora il caffè non puzzava. Ora profumava di vita. Ora Sahid aveva trovato il fine della sua vita simbioticamente al senso del caffè che si rivelava nel sublimare i palati dei bevitori di tutto il mondo, anche di quel povero imprenditore europeo. Sahid, senz’altro con poca modestia, disse di sentirsi come un dio che col suo prodotto rallegrava gli animi degli uomini. “E le capre di Kaldhi!”, aggiunse Jusseph, facendo una lunga risata. Il giovane ordinò il caffè e dopo averlo portato alle labbra e sorseggiato come farebbe un pagano con l’ambrosia divina, urlò: “Ho trovato l’oro nero!”.
La semplicità, l’essenzialità dell’espressione, pur punteggiata da immagini più elaborate, fa risaltare una vita ridotta ai minimi termini, fatta di stenti che trovano la loro raggion d’essere negli affetti passati e presenti.
GRAZIE! felice del tuo commento.
Leggendo il tuo racconto mi ha colpito molto la tua profonda, quasi vorace direi, voglia di narrare, oltre ad un’abile capacità affabulatoria. Bravissima.