Premio Racconti nella Rete 2017 “Una breve lettera” di Crescenzo Zito
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017Napoli, venticinque giugno
Questa breve lettera di lungo addio sta accompagnando la nascita di un nuovo giorno e, al sorgere del sole, in me nulla più sarà come prima.
Qualche giorno fa, parlando del poi ripensavo al già fatto; pensavo a te che ribolli nei miei pensieri come lava incandescente dai fumi densi e soffocanti.
Che cosa scrivo dopo così poco tempo? Come posso credere di restare lucido o, per me impossibile, distaccato, se sono passate solo poche ore?
Non lo sono mai stato, ho vissuto d’impeto, di passione; non so se ciò possa essere un errore, di sicuro è disagio in questo mondo di ipocrite relazioni.
Tu, invece, sei sempre vissuta nel delirio, in una ricerca continua dall’unica meta; sempre estasiata nel leggere e raccontare di Lui.
Sei partita convinta che il grande amore ti avrebbe strappato al dolore, lo dicevi spesso:
“Prima o poi tocca a tutti, anch’io avrò il mio amore e per sempre”.
Vorrei essere come te: sicura; avere le tue certezze, i tuoi punti forti e credere come te in quel futuro.
Nonostante il blaterare sui tuoi impegni a venire, mi hai salutato in un modo che mai dimenticherò; tu, purtroppo non potrai mai più ascoltarmi o leggere queste righe lucide e per questo dolorose.
Oramai non posso più rintracciarti, non saprò mai come siano andate le cose, se esiste una verità dietro la tua realtà.
Sarà andata proprio così? Sei felice ora?
Sei davvero in quel luogo tanto agognato o, fuggendo da me, ti sei dissolta nel nulla?
In realtà non so quanto hai capito del mio amore; né, io, ho mai saputo leggere i tuoi sguardi luccicanti, d’altronde ti ho sempre manifestato sdegno.
Rabbia per quel che credevo un tuo oltraggioso silenzio.
Mi accorgo che tra i rami del mio rancore era celato una gemma d’amore che, come un fiore venefico, è sbocciata nel mio cuore solo ora che sei fuggita via.
Oggi non ho più dubbi, sento profondamente la tua mancanza, io che sono ritornato qui solo per te.
Non siamo riusciti a chiarirci, né abbiamo mai parlato chiaramente del nostro dolore, ma ha senso interrogarsi ora che non puoi più rispondermi?
Perché continuo a scriverti se non leggerai mai queste righe?
Dovevo fuggire prima di nutrirmi del tuo latte avvelenato; avrei dovuto rifiutare il tuo seno, non quello delle altre donne.
Scusami ma non lo scrivo per ferirti, nessuno ora può più farlo.
C’è asprezza nelle mie parole?
Non credo, è il dolore del bambino che si perpetua nell’adulto.
Ricordo perfettamente il giorno di due anni fa, quando mi hai annunciato che te ne saresti andata via.
“Non resterò ancora per molto”.
Ora quel “per molto” è passato e tu con esso.
Perché allora ti scrivo con questa grafia illeggibile?
Per stemperare il dolore?
Per trovare un equilibrio su queste pagine che, nonostante le righe perfettamente parallele, non contengono la mia follia grafica.
Anch’io, forse, avrei bisogno di righe parallele dove adagiarmi, come su nuvole soffici.
Sei serena tu?
Possibile che non ti senta sola?
Che tutto il disagio sia in me?
Ascoltare il mio dolore non ti farà felice perché tu, ora ho la certezza, hai sempre voluto il mio bene.
Stanotte ho rovistato in un tuo cassetto e ho trovato le foto che feci sette anni fa, ricordi? Siamo in un vaporetto, in viaggio per Ischia. In partenza per le terme a curare quella che una dottoressa da quattro soldi, sbagliando, aveva diagnosticato come artrosi; in realtà erano i germogli del male.
Era il primo viaggio che facevamo io e te; un’occasione ghiotta per la mia mania di fotografare. Senza troppo pensarci ho iniziato a scattarti foto, poi ho deciso di farle insieme a te e ho installato la fotocamera sul cavalletto.
All’inizio eri intimidita, ti sembrava così strano, poi hai seguito il mio consiglio di non pensare al posto e alla gente, ma di soffermarti sui tuoi sentimenti.
Ora, in silenzio e con il desiderio di riascoltare il rumore del mare, mi rigiro tra le dita instabili due foto uguali se non per i pochi minuti trascorsi tra uno scatto e l’altro. Siamo seduti ad un tavolo del bar, l’abitacolo sottocoperta è deserto; solo noi due in balia di queste onde che fanno sobbalzare, con i tavolini, i nostri cuori.
Mamma, l’autoscatto ha immortalato la tua gioia di vivere e la felicità di essere in viaggio con me. Siano a fianco l’un l’altra, vicini ma distanti in questo gioco di luce ed ombre sbiadite dal tempo; ambedue con le braccia incrociate e il tuo gomito quasi sfiora il mio ma non lo tocca. Il sorriso del tuo volto è reale ma non intacca il mio silenzio. Guardiamo avanti, attenti al futuro, quasi incuranti del rovinoso passato poggiato suoi nostri corpi: due anime travolte dallo stesso uomo.
Quando le hai viste hai affermato che avevo talento perché “le tue fotografie svelano l’animo nascosto della gente”; quello che non sapevi e che quest’attitudine mi viene da te perché tu col solo sguardo, da sempre, capivi l’essenza delle persone.
Stanotte ho rifatto il viale che da bambino facevo assieme a te, mi sono fermato e seduto nel medesimo posto in penombra, ma la tua ombra non c’era, era notte fonda.
…Chissà se sei cambiata, come me, in questo; se ancora ami la luce e il sole…
Ho risalito le scale e mi sono bloccato sulla soglia, non ho avuto il coraggio di oltrepassarla; mi sono allontanato e sono stato inghiottito dal cono oscuro della tua assenza.
Devi sapere che stento a rendermi conto di possedere un’ombra, di essere ancora vivo in un corpo malandato e, ora, anche trascurato.
Il tuo come sarà domani?
E domani l’altro?
E l’altro ancora?
Oso solo scriverlo ma non voglio immaginarlo.
Ti ricordi quando, diversi anni fa, ti ho accompagnato al cimitero?
Nessun altro ha avuto il fegato di accompagnarti, l’ho fatto io, per starti vicino, per non lasciarti sola.
Ho visto tirare su la bara da becchini inesperti, aprirla e, una dopo l’altra, depositare le ossa su un pezzo di stoffa steso dentro una carriola.
Tu, con me a fianco, con sguardo da mastino, accertavi che tutto procedesse bene; controllavi che nessuno osso sparisse perché – mi hai detto- “rubano le ossa per farne polvere con cui fare cattive fatture ai vivi.”
La cultura sacro/contadina era in te.
Abbiamo guardato gli operai lavare le ossa, pulirle, asciugarle e metterle al sole e solo allora ho notato nell’osso della caviglia il perno d’acciaio conficcato.
“Guarda, c’è ancora il perno nel piede…”
Tu hai guardato e mi hai detto, con voce fievole:
“E’ colpa mia…”
Mi hai ripetuto per l’ennesima volta l’episodio che, adesso, non voglio raccontare.
Hai preso dalla borsa il borotalco e un panno di lino in cui avvolgere le ossa mentre io le fissavo pensando a tutte le violenze subite dal defunto.
Con i pugni tremanti, ricercavo, tra le ossa del bacino, il pene che per tanti anni aveva oltraggiato il mio corpo di bimbo impaurito. Niente, sparito nel nulla l’organo che ha appesantito così tanto il mio quotidiano e che circola, come un topo schifoso, nei miei circuiti celebrali.
Hanno deposto lo scheletro dove si doveva, hai ringraziato e pagato gli operai.
Mentre uscivamo mi hai detto:
“Costà, hai visto? Era già tutto pulito, stava proprio bene papà…”
Papà? Scusami, mamma, ho sbagliato a non rivelarti le violenze subite, ma ho sempre creduto che tu ne fossi a conoscenza, che il tuo fosse un orrendo assenso.
Che cosa significano queste poche righe?
Hai accarezzato il tuo volto con la mia mano mentre stavi per lasciarmi e mi hai sorriso prima che quelle orrende contrazioni ti deturpassero il bel volto smagrito. Il tuo gesto ha reso tangibile l’amore nei miei riguardi, tu non hai mai smesso di amarmi e questa nuova consapevolezza mi procura una mialgia insanabile.
Tenevo la tua mano nella mia con cautela avevo paura di farti del male e ti ho parlato, ho cercato di rassicurarti, non so come io ci sia riuscito perché ero, e resto, in empatia con te.
Spero che la mia presenza, seppure con voce commossa, ti abbiano rasserenata ed accompagnata nel tuo mondo.
Non ti ho lasciato sola, non avrei potuto farlo, purtroppo l’ho fatto in passato, ma ho rimediato restandoti vicino per un anno intero; un anno di condivisione con la tua sofferenza.
Tra i tanti hai scelto me, mi hai ricercato e hai affidato quello che rimaneva del tuo corpo al tuo figliol prodigo.
Hai sempre capito tutto di me, avevi intimamente compreso la mia precoce fuga.
Il tuo sorriso mi ha fatto capire che eri contenta anche se so che non si può essere felice nel partire da soli.
Ti ho amata troppo per desiderare la morte che ti avrebbe annientati i dolori; egoisticamente non ho mai veramente desiderato il tuo decesso.
Eri di nuovo con me ma da meno di un anno e non volevo perderti, mi rimanevi solo tu e ho potuto soltanto rincuorarti mentre sopportavi dolori inenarrabili.
Non volevi i sedativi e per sentire la tua preghiera ho dovuto accostare il mio orecchio alla tua bocca perché le tue parole non avevano più voce e mai, in quella casa, l’avevano avuta:
“Ti prego, non farmi fare la morfina…voglio essere lucida fino alla fine… se perdo il pensiero tanto vale morire subito…voglio regalare a Gesù la mia sofferenza, per te… e per i tuoi fratelli…”
Non so se ciò si possa chiamare un dono, comunque mi sono opposto agli altri per farti vivere fino in fondo i tuoi ansimi; spero che in quelle ore tu abbia messo a posto i tasselli della tua vita.
Non potrò mai dimenticare l’amore totale che ci ha resi unici e complici nel dolore. La tua presenza regnerà nel mio inconscio e l’anima mia sarà piena di te, ma so anche la profondità del vuoto che lasci in me.
Minuto dopo minuto il mio cervello replica la tua assenza, come l’orologio costretto a scandire le stesse ore in eterno.
Da oggi vivrai nel mio pensiero e mi illuderò di averti accanto per sempre.
Che cosa ne sarà di me, da questo nuovo abbandono?
Delle mie lacerazioni o di quant’altro ancora?
Mamma, ti auguro che nella tua vita futura, tu sia distante per sempre dall’uomo che ci ha così profondamente segnato, da cristallizzare te e me in un adolescenza infinita.
Un abbraccio.
P. S.
Mamma, il dolore che con coraggio e stoicismo hai sopportato, non ha intaccato la tua spiritualità e ha trasformato le rughe del tuo volto in solchi dolcissimi, linee artistiche, grafite preziosa.
Addio
Tuo Costanzo
“Nudo sono innanzi a Te
un filo di paglia
mi può trafiggere ”
-Bartolo Cattafi-
Caro Crescenzo Zito (qual è il nome?), leggerti è stato come ritrovare me stessa: rancore, sofferenza, distacco, mancanza, malattia… se leggerai uno dei miei racconti, capirai.
Devo dire che mi sono ritrovata anche nella ‘tua’ Praga, città che ogni volta mi stupisce per la sua bellezza. L’ultima volta, ho visto una mostra fotografica di Viktor Kolá?, “un bianco e nero bellissimo”, ma non spensierato. Impegnativa, ma intensa la lettura.
Grazie per le tue righe e leggero ivtuoi racconti domani.
Crescenzo è il nome.
Si chiama Viktor Kolar il fotografo, non capisco il punto di domanda da dove arriva.
Caro Crescenzo Zito (anch’io mi domando quale sia il nome…). Ti rispondo qui. Innanzitutto ho apprezzato qnache questo racconto e mi piace molto l’idea di una raccolta di racconti indipendenti ma legati attorno al tema della ferita. Molto bella la scelta di inserire dei versi alla fine che esemplificano e sublimano il testo. (A proposito, mi ricordano il racconto di Paola della Valle e i suoi versi finali, che infatti non a caso si ritrova in questo testo). Che io abbia definito il racconto ambientato a Praga “non facile”, credo sia intuibile. Sono testi molto intensi ma che lasciano un senso di amarezza nel lettore. Questo naturalmente è un complimento.
Crescenzo è il nome mentre
Zito ti ringrazia x le tue parole.
Brividi.
…immenso!
Chi ha provato dolore, ‘quel ‘ dolore, non importa se per un padre o una madre, vorrebbe scrivere un racconto come il tuo.Non farmi piangere, ti prego.
Grazie.
Crescenzo,
mi permetto di commentarti con una domanda: esistono parole abbastanza adeguate a descrivere il dolore di un figlio “stuprato” dalla vita?
Dopo averti letto, credo di sì e ti ringrazio per avermene dato prova.
La tua prosa è barocca e sinuosa, classica senza mai scadere nel mero esercizio accademico, dolce nel parlare della madre ed al contempo disillusa nel fronteggiare gli spigoli di un destino amaro.
Mi hai fatto provare sentimenti contrastanti leggendoti: rabbia, rancore, livore, ma anche tanto, tantissimo amore alla cui luce, nonostante le occasioni perdute per imbastire un vero rapporto con il figlio, la madre risplenderà in eterno.
Non credo che un genitore possa pretendere nulla di più.
Davvero complimenti.
Mi scuso per coloro che non ho ancora ringraziato, ma sono stato davvero felice nel leggere i vostri commenti.
Felice perché io scrivo per regalare emozioni.
Un grazie a voi tutti
Grazie a voi tutti per le belle parole e sono felici di essere riuscito ad entrare nel vostro animo e a suscitarvi emozioni.
In fondo scrivo soprattutto per questo.
Mi scuso ma non sono abile on line, riesco meglio a scrivere in solitudine,che a ringraziare pubblicamente.
Crescenzo, speravo di trovare questo racconto, o l’altro che hai scritto, fra i vincitori, perché il tuo modo di scrivere è forse il più toccante e profondo che ci sia qui dentro. Inutile dire che mi rammarico molto che non sia così. Sappi però che hai guadagnato una lettrice – che dico? un folto numero di lettori che sicuramente terranno d’occhio il tuo nome.