Premio Racconti nella Rete 2017 “Scarpe nuove per camminare” di Daniela Pietragalla
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017Emorragia intra parenchimale.
Emma sbircia queste tre parole dal foglio di ricovero che suo fratello tiene in mano.
è così insolito per la sua flemma quel tremito incontrollato delle dita.
Lui che con l’autorevolezza del suo camice bianco sa parlare alle pazienti con voce ferma e bassa accompagnata sempre da un sorriso.
Oggi le sue labbra sono serrate e livide.
In un attimo lo rivede bambino sulla spiaggia di Pescoluse, tremante per la puntura di una medusa, tra le braccia di mamma e papà.
Ricaccia quell’immagine, poi vorrebbe raggomitolarcisi dentro, anche se non ha senso.
Non ora, non lì, sotto quelle luci artificiali che fanno sempre notte, con l’odore acre della vestaglia di mamma che ha raccolto da una sedia e che non può fare a meno di continuare a stringere.
Ha appena ripreso fiato dopo una corsa folle.
Il chilometro e mezzo in salita che separa casa sua dall’ospedale l’ha percorso come un treno impazzito inghiottendo volti, alberi, macchine strombazzanti.
Sono passati appena venti minuti da quando se ne stava in poltrona a bere un caffè quando il telefono ha ribaltato per sempre l’orizzonte quotidiano.
Ora sua madre è al di là di una porta chiusa.
Lei che appena due ore prima stava decidendo che cosa preparare per il pranzo.
Bisogna aspettare, le dicono.
Va alla ricerca di qualche segnale.
C’è stato qualcosa di strano? Un sentore di burrasca?
Due giorni prima si erano stese sul letto dopo aver pranzato e sua madre d’un tratto le aveva accarezzato i capelli a lungo, cosa che non faceva mai.
E la sera prima…
Avevano scherzato, per telefono, su una foto di famiglia.
Avevano parlato a lungo.
Strano anche questo, perché la sera sua madre era telegrafica.
Stava sempre seguendo un film.
Le bastava sapere che erano tutti vivi e che avevano mangiato.
Ora tutto qui.
Bisogna aspettare.
Marco è uscito in cortile a fumare.
Ha guardato la TAC appena arrivata dal reparto di radiologia, pallidissimo si è chiuso in una stanza con due colleghi e l’ha lasciata in piedi accanto a quel padre che le sembra di vedere per la prima volta.
Lo vorrebbe abbracciare ma sono anni che non lo fa più e le pare che non sia più tempo di gesti delicati e lenti ma di passi nervosi lungo un corridoio semideserto, nell’attesa che i medici parlino, spieghino, diano la loro sentenza.
Non sa quanto tempo è passato quando vengono fatti accomodare in una stanzetta angusta.
Una dottoressa con i capelli corti e scuri inizia a sciorinare statistiche e probabilità che la sua mente si rifiuta di seguire presa come da un solo pensiero.
Si riscuote quando si accorge che qualcuno la guarda aspettando un suo cenno.
– Mimi – Marco la chiama come tanto tempo prima.
L’intervento è rischioso, potrebbe peggiorare il danno.
Si guardano negli occhi. Un no come un’eco sembra snocciolarsi da una bocca all’altra.
Non sono mai stati d’accordo su niente.
Sulla pasta papà poco sugo e molto parmigiano, Emma niente parmigiano, Marco molto sugo e pecorino non parmigiano. Meglio la montagna, no il mare, sì però la montagna d’estate, d’inverno è troppo freddo.
Miracolosamente ora sono d’accordo.
Niente intervento.
Vediamo come va.
Finalmente può vederla.
Soprascarpe, camice, cuffia e mascherina.
Oltre la porta chiusa, sua madre è là senza vestiti, lei che si chiude sempre in camera per cambiarsi, in un groviglio di tubi che le tengono inarcata la testa in modo innaturale.
D’un tratto Emma pensa alle gocce per gli occhi. Deve mettere il collirio ogni giorno.
E se lo dimenticano? Ha bisogno del collirio, altrimenti si risolve un problema e ne nasce un altro.
Lo sussurra a Marco. Lui la guarda sconcertato.
Non sarà questo il problema d’ora in poi.
Bisogna aspettare.
Marco si fa inghiottire dal suo reparto. Un cesareo gemellare.
Emma ridiscende verso casa con suo padre, di colpo silenzioso e vecchio.
Sente che hanno fatto lo stesso pensiero.
Finisce qui, oggi, ora.
Comunque vada.
A casa è come cancellare maldestramente un personaggio da un quadro.
Gli oggetti rimarcano l’assenza.
I biscotti appena sfornati sul tavolo, l’oblò della lavatrice aperto, i panni da stendere.
La vestaglia non vuole lavarla, la nasconde in un angolo.
Puzzerà, pazienza.
è lei, il suo ultimo momento prima del buio.
Dopo un’ora Emma è di nuovo in ospedale.
Non può entrare, lo sa, ma sa anche che non c’è un posto ora dove potrebbe stare. Fuori, l’angoscia preme intollerabilmente.
Ci sono io, ti faccio compagnia io, mamma.
Passa la prima notte.
Ventilatore meccanico, pompe infusionali, saturazione periferica dell’ossigeno sono il nuovo lessico.
Mamma è braccia livide, occhi chiusi, neanche un pezzetto di viso libero dove appoggiare un bacio con la punta delle dita.
La mano, la sua mano così affusolata e bella (una volta le hanno addirittura chiesto il permesso di fotografarle) ora è gonfia.
Cinque minuti, poi fuori.
Non c’è posto dove sedersi.
Si butta per terra con i jeans che ha indosso dal giorno prima.
Il giorno dopo, quel lungo sonno continua.
Attorno alle ciglia si forma una cispa color paglia.
Ci sono le telefonate, le preghiere, i silenzi.
Sembra già che la vita sia sempre stata questo.
Sedersi scomodamente dietro una porta e aspettare una manciata di minuti in cui ancora sussurrare mamma.
Nessuno sa dire se è una questione di ore, di giorni, di settimane.
Stress respiratorio acuto.
Ora la parola che le risuona nella testa è tracheotomia.
Ancora un giorno, al massimo due.
Arriva la domenica.
Suo padre si lava, si sbarba, si veste con cura, va a comprare le paste come ogni settimana.
Emma intravede uno sforzo sovrumano in ogni suo minimo gesto.
Mettere un passo avanti all’altro, chiudere la porta di casa, affrontare i rumori del mondo.
La città si è di nuovo riempita.
Domani apriranno le scuole.
Il dolore di suo padre è lì, concentrato nella linea piangente, appena accennata, delle sopracciglia.
Salgono in silenzio in ospedale.
Lui è voluto rimanere da solo in queste notti.
Hai riposato, papà? Sì. Hai mangiato?Sì. Hai bisogno di qualcosa?No.
Arrivano in reparto e Marco è già lì.
Le cose non vanno bene.
La perfusione cerebrale diminuisce.
Stavolta entrano tutti e due.
Soprascarpe, camice, cuffia e mascherina.
Sua madre è in un sonno che potrebbe anche sembrare sereno se il naso e la bocca non fossero stravolti dalla pressione dei tubi.
Suo padre si avvicina lentamente al lettino, le sfiora le mani, le bacia piano la fronte.
Sulla porta si gira in silenzio a guardarla.
Non tornerà più a vederla.
Seguirà con trepidazione ogni respiro ma fuori da quella porta, lontano dal linoleum e dall’odore di disinfettante.
Lunedì.
Un altro passo verso il buio.
Assenza di riflesso corneale.
La cartella clinica si infittisce di nuove grafie.
Assenza di reazione a stimoli dolorifici portati nel territorio di innervazione del trigemino.
Ora sanno di avere un’altra decisione da prendere.
Non bisogna essere egoisti.
Quasi sempre i discorsi di sua madre si concludevano così.
Ma sua madre non c’è già più.
Non c’è in quelle palpebre ostinatamente serrate né in quell’ammasso informe e gonfio che è ora il suo viso.
Ancora ventiquattro ore, dicono.
Silenzio elettrico cerebrale.
Questo è il confine tra esserci e non esserci più. Un impulso elettrico.
La somma dell’attività elettrica di ogni singolo neurone.
Miliardi di luci che si spengono inesorabilmente ad una ad una.
Forse è possibile sottrarne un guizzo.
Arriva un momento in cui Emma non può vederla più.
L’ennesima elettroencefalografia continua a monitorare dando sempre lo stesso responso.
Morte encefalica.
Ci sono le telefonate, le lacrime. Ci sono i silenzi di chi non lo dice ma rimane perplesso.
Anche gli occhi?
La dottoressa con i capelli corti e scuri raggiunge Emma al distributore automatico.
Grazie.
Accenna a un sorriso.
Fegato. Reni. Cornee.
Stanno per partire cinque telefonate.
Negli anni a venire non ci sarà giorno che Emma non penserà a quelle persone sconosciute chiedendosi se mai le capiterà di incrociarle da qualche parte.
All’alba il blocco operatorio si illumina.
Passi frettolosi e ruote di carrelli risuonano lungo i corridoi deserti.
Ghiacciaie per il trasporto, soluzioni di conservazione, ghiaccio sterile, sacchetti e contenitori.
Questo immaginano tutti e tre, ognuno nel silenzio della propria casa, mentre fuori la notte è nuvolosa e umida.
Alle sette Emma è già a casa di suo padre.
C’è da pensare al vestito e sono le donne le necrofore della famiglia.
Dall’armadio della mamma si sprigiona un lieve sentore di cuoio, nota del suo profumo di sempre.
I tailleur, le camicette di seta.
Una parete di scarpe, dai toni caldi e discreti, riposte con cura e per gradazione di colore.
Emma si butta sulla vecchia poltrona vicina al letto.
è già stanca.
Delle notti insonni, della penombra, del tempo incerto che verrà, di un dolore che è lì per esplodere da qualche parte.
Poi, d’un tratto, si scosta.
Si è seduta su un piccolo pacco.
Un sacchetto in cotone per scarpe con un post-it giallo attaccato sopra.
Dentro un paio di sneakers beige.
Ragazza fortunata!
Scarpe nuove nuove, misura sbagliata per me,
un bacio, mamma.
Emma scoppia in qualcosa che è risata e pianto.
Stringe forte il sacchetto, mentre fuori una pioggerellina sottile preannuncia un giorno grigio.
Quanta misura nelle tue scarpe nuove per camminare. Una vita intera in piccoli dettagli. Davvero brava, davvero bello il tuo racconto.
Con quanta tenerezza e partecipazione sono raccontati gli ultimi giorni di una persona cara, sono attimi e dettagli rimasti impressi nel cuore di scrive e ora anche in quello di chi legge, nel miracolo della scrittura di renderci partecipi di quello che tocca, che segna, che addolora, che commuove. In questo racconto traspare la grande sensibilità e l’accurata scelta di parole ed emozioni, e anche la bellissima eredità di speranza, di malinconia e di coraggio racchiusa nel paio di scarpe nuove, un simbolo dell’avanzare nonostante tutto, forti dell’amore ricevuto e donato anche a degli sconosciuti. Brava Daniela Pietragalla.
Molto bello questo racconto. Ricorda il bellissimo romanzo di Maylis de Kerangal “Riparare i viventi”. Mi è piaciuta la forma scelta, frasi spezzate in un andamento poetico e un lessico preciso e disarmante.
Toccante racconto, di evidente impronta autobiografica, sugli ultimi giorni di vita di una persona cara, carissima: la propria madre. Efficace l’alternarsi tra i pensieri dell’io narrante e i freddi termini medici – “Stress respiratorio acuto”, “Silenzio elettrico cerebrale”, “Morte encefalica” – che ci informano sull’inesorabile avvicinarsi della morte. Il finale, che spiega il titolo, è leggibile come “l’eredità” che la madre lascia alla figlia. Un paio di scarpe nuove, per camminare malgrado tutto, per continuare a camminare, per trovare la forza di camminare ancora, nel mondo. Bello, misurato, toccante.
Grazie davvero per i vostri commenti.
Racconto molto bello. I fotogrammi di vita arrivano. Trasmetti benissimo l’ansia, i ricordi e i pensieri che si vivono in certi momenti. Mi piace molto l’immagine del fratello che pur essendo medico trema leggendo il foglio di ricovero della madre.
Posso immaginare, Daniela, che sia stato quasi “difficilmente facile “districarti tra quelli che probabilmente sono i tuoi ricordi: un racconto scritto con tanto cuore, come piace a me. Brava !
Rendi il lettore coinvolto e triste, ma gli regali un paio di scarpe nuove per continuare a camminare nella vita. Brava, incisivo anche lo stile.
Brava Daniela, il dolore ha bisogno di poche parole, quelle giuste e solo quelle, è sempre diverse perché non ne esiste uno uguale ad un altro.
Tagliente è composto questo dolore,ti entra nella mente per poi scivolare nell’anima, ti lascia un groppo in gola e una speranza tra le mani.
Sei molto Brava, amo la tua prosa asettica e insieme lirica. Davvero mi hai colpito
Di fronte a questo racconto che descrive in maniera così profondamente reale quei momenti drammatici ho paura di non essere in grado di dire cose che non appaiano retoriche e banali. Sono commosso, fino alle lacrime
Una realtà che può essere di tutti ma allo stesso tempo molto soggettiva e poi quell’ultimo saluto, quello sì, solo personale, intimo… mi sono commossa, un post-it che sarebbe bello trovassero tutti, un messaggio dalla vita in un momento di morte. Brava davvero
Grazie, sono molto felice delle vostre riflessioni e mi rende particolarmente contenta il pensiero di essere riuscita a trasmettere una emozione. Proprio bello questo luogo di incontro che non conoscevo e al quale ho deciso di aderire all’ultimo momento
Bravissima Daniela, un racconto intenso e con un grande ritmo. Emozionante, doloroso e commovente che ti lascia con un sorriso, proprio come succede ad Emma. Mi piace molto lo stile nervoso e scattante, cinematografico. Brava!
Bravissima Daniela, un racconto intenso e con un grande ritmo. Emozionante, doloroso e commovente che ti lascia con un sorriso, proprio come succede ad Emma. Mi piace molto lo stile nervoso e scattante, cinematografico. Complimenti!
Bellissimo racconto e bellissimo stile. Complimenti, in bocca al lupo.
Daniela, mi hai fatto rivivere momenti che ho purtroppo vissuto qualche anno fa. Anche allora per me c’era stata un storia di scarpe, ma io avevo dato a lei le mie che avevo comperato troppo piccole e lei le metteva, ma le ha portate per troppo poco tempo per poterle consumare. Tu usale quelle scarpe, e facci tanta strada!
Grazie, Maria, sai bene che la stima è reciproca.
Grazie, Aurra. Quanti incontri piacevoli che si fanno lungo le maglie di questa bellissima rete di racconti.
Grazie, Paola. Le tue parole mi hanno commossa. Chi ci ha amato e non è più con noi ci lascia sempre un paio di scarpe, magari non proprio le sneakers di Emma, ma qualcosa per andare avanti sì.
E’ terribile questo racconto. E’ terribile perché è bello da leggere e tremendo da vivere (o rivivere). Il titolo inganna, il finale consola, in mezzo una prosa che dice tutto con intensità ed economia, quel less is more che è così difficile praticare ma che quando ci si riesce dà risultati notevoli. Non deve essere stato facile scrivere Scarpe nuove per camminare, non è facile nemmeno leggerlo, è qui il suo valore.
Grazie, Ugo, sei stato molto gentile e attento nella lettura.