Premio Racconti per Corti 2010 “Il medico e sua moglie” di Marco Subbrizio
Categoria: Premio Racconti per Corti 2010Quando finì l’ultima visita era tardi. Scrisse con calma la ricetta, spiegò al paziente quello che avrebbe dovuto prendere e quando, poi ritirò le sue cose nella borsa e uscì. Sul piazzale dove aveva lasciato la macchina c’era un’aria triste, aveva piovuto e ora cominciava a imbrunire. In macchina si ricordò di chiamare sua moglie. Con una mano fece il numero sul cellulare.
– Ho finito adesso. Sto arrivando.
– È molto tardi.
– Hai ragione. Scusa.
– Fai in fretta. È tutto in caldo.
– Sono già per strada.
Tra le due cittadine, quella dove abitava e quella dove esercitava la sua professione, c’erano una ventina di chilometri e una strada liscia e lucida, diritta, per un lungo tratto incassata fra due terrapieni. Lui filava via veloce pensando a quando avrebbe mangiato e a dopo, quando avrebbe allungato le gambe sul divano di fianco a sua moglie. Ormai era quasi buio. L’asfalto era lucido per la pioggia e le montagne sul fondo erano nitide contro il cielo ora azzurro cupo e pulito.
Era stanco e guidava veloce ma senza fretta, meccanicamente. E come sempre nel tragitto pensava a sua moglie. Sua moglie non poteva avere figli, e questo pensiero da qualche tempo gli occupava la mente nei momenti liberi. Lo sapeva già prima di sposarla e finora non aveva dato molto peso a questo fatto. Ma con il passare degli anni il desiderio di avere un figlio era diventato più forte ed ora, a quasi quarant’anni, gli sarebbe piaciuto averne uno e ne sentiva molto la mancanza. Ne aveva parlato con lei. Avevano pensato di adottare un bambino ma erano indecisi se dovesse essere italiano o straniero. Forse non ne erano molto convinti e per il momento la cosa era finita lì. Era poi un argomento, quello dei figli, che lui non affrontava volentieri con sua moglie, perché immaginava che le desse fastidio, che potesse provare un senso di colpa, di inadeguatezza, di incompletezza. In ogni caso lei non lasciava trasparire nulla e lui non riusciva a capire se ne soffriva, a parlarne, o se le era indifferente.
Il medico guidava pensando a tutte queste cose mentre tornava a casa finché, prima del lungo rettilineo che porta allo svincolo per l’aeroporto, un tipo con una macchina bianca lo superò in una curva con la doppia striscia continua tra le corsie, sfiorandolo e chiudendolo a destra per evitare un camion che gli veniva incontro. Lui gli lampeggiò contro con gli abbaglianti e l’altro levò il dito medio e glielo mostrò nella luce dei fari e glielo tenne davanti agitando la mano. Il medico continuò a lampeggiare con gli abbaglianti mentre l’altro si ostinava a mostrargli il dito dritto nella luce. Poi cominciò a rallentare, a rallentare, dando dei colpi sul freno per provocarlo, finché il medico fu costretto a superare. Mentre superava, l’altro riprese ad accelerare. Marciarono affiancati per un po’ e alla fine con una brusca accelerata il medico riuscì a superarlo e a rientrare. Era livido e il cuore gli batteva forte per la rabbia e per la tensione. Ma quello cercava altre grane, non lo mollava. Adesso lui avrebbe voluto lasciar perdere, avrebbe voluto non averlo superato, non aver lampeggiato, nulla, che vada a perdersi nella sua imbecillità, che si schianti fragorosamente alla prima curva. Ma adesso non era più possibile. L’altro era vicinissimo, teneva gli abbaglianti accesi e lo tallonava col muso. Dev’essere un pazzo o un delinquente, pensò il medico, uno che cerca rogna in questo modo dev’essere un delinquente, uno che non ha niente da perdere, uno che scende con un coltello in mano. Tastò di fianco a sé il bloccasterzo chiuso da un pesante lucchetto; pensò confusamente: se sarò costretto a fermarmi scenderò con questo, cercherò di fargli paura, di difendermi. Il pazzo continuava a stargli con il muso contro, con tutte le luci accese. Lui diede un colpo di freno per scrollarselo, ma l’altro era troppo vicino e lo tamponò. Le due macchine sbandarono leggermente. Il medico diede un’accelerata, poi vide una piazzola sulla destra e sterzò bruscamente, fermandosi nel piccolo spazio a lato della strada sotto un viadotto. Scese di scatto con le ginocchia che tremavano e il cuore a mille. L’altro si era fermato dietro di lui e aveva aperto lo sportello. Il medico gli andò incontro e gli disse con la voce che gli si strozzava in gola: – Figlio di puttana bastardo…
L’altro era sceso e aveva chiuso la portiera ed era rimasto in piedi di fianco alla macchina. Era sulla trentina, largo e basso, con i capelli lisci lunghi sulla nuca e radi davanti, vestito da muratore o da imbianchino. Anche l’auto era un’auto da lavoro, una famigliare con il sedile posteriore ribaltato, con una scala da decoratore che dal baule sporgeva in avanti appoggiandosi al sedile anteriore destro e con un sacco di altra roba dietro. Il medico fece in tempo a vedere tutto questo e quando fu vicino alla macchina l’altro cercò di colpirlo in faccia con un pugno. Lui riuscì a girarsi istintivamente e ricevette il colpo sull’orecchio, sentendo come una puntura dolorosa e profonda. Buttò le mani avanti per colpirlo e per proteggersi da altri colpi, e si trovò a stringergli il collo, mentre l’altro gli aveva afferrato le braccia e cercava di scrollarselo di dosso spingendolo indietro. Non aveva detto una parola. Così abbarbicati come due radici, come un unico animale informe, si trascinarono barcollanti fra i due veicoli fermi. Il medico continuava a stargli aggrappato al collo cercando di tenere le braccia distese in modo che l’altro non potesse colpirlo sul volto. Quell’altro continuava a spingerlo indietro e a strattonarlo via da sé. Forse l’altro gli fece uno sgambetto o forse lui stesso perse l’equilibrio. Fatto sta che il medico si trovò sdraiato per terra con quello sopra, sempre avvinghiati uno all’altro; lottando, più che colpendosi, finirono nel buio dietro le macchine. Il medico sentiva l’odore pungente di quell’uomo, della sua maglia sudata, delle sue braccia, del suo collo, dei suoi capelli. Pensava irragionevolmente al vestito che aveva addosso, alla lacerazione che aveva sentito sulla schiena appena erano caduti in terra, alla giacca e alle scarpe che stavano strofinandosi contro l’asfalto umido e sporco della piazzola e sicuramente sarebbero state da buttare via.
Mentre lottavano nel buio, soffiando e ansando, uno sotto e l’altro sopra e nessuno che riuscisse a colpire l’altro, gli automezzi scorrevano veloci sulla strada senza fermarsi, senza neanche rallentare, brevi lame di luce che scomparivano tra le sagome delle due automobili ferme sulla piazzola, tra le ruote ora vicine alle loro teste. Neanche li vedevano, riuscì a pensare il medico. E chi si fermerebbe, comunque, a dividere due persone che si picchiano nella notte, sul bordo della strada? Devo levarmelo di dosso, devo stenderlo, pensò, non c’è altro modo, non c’è altra via d’uscita, dopo faremo i conti di quel che è successo. Non era particolarmente religioso, ma tutto in un secondo pensò anche: Dio fa che finisca, fa che riesca a liberarmi da tutto questo, dammi la forza di farcela, dammi la forza… dammi forza…
Allentò leggermente la presa e l’altro fece in tempo a far uscire un pugno che stavolta lo colpì in piena faccia. Il medico mollò la presa del tutto per proteggersi il viso con le braccia. Mentre l’altro si agitava menando alla cieca colpi che non facevano un gran male, lo sentiva ripetere: – Bastardo…, bastardo…, bastardo… – ma quasi sottovoce, come se parlasse tra sé, come se non ce l’avesse proprio con lui. Le automobili passavano continuando a mandare lampi di luce. Il medico si prese un altro pugno in faccia e sentì in bocca il sapore del sangue che gli colava dal labbro o dal naso. Facendo leva sulle gambe riuscì a spingerlo via da sopra, a farlo cadere di lato. Prima che l’altro potesse coprirsi gli strinse di nuovo il collo con un braccio e gli afferrò i capelli con l’altra mano. Adesso si sentiva di nuovo protetto dai colpi in faccia. Sentiva che l’altro lo colpiva al fianco con il gomito, ma lui cercava di stargli addosso con tutto il corpo e l’altro aveva le braccia quasi contro terra e non poteva allargarle per prendere forza e i suoi colpi non facevano male.
Forse gridò, forse pensò di gridare, forse il sangue che gli colava in bocca gli scatenò l’istinto di sopravvivenza, forse odiava quell’uomo, in quel momento, forse pensò solo che finalmente di scatto avrebbe potuto alzarsi e se fosse riuscito a divincolarsi e a rimettersi in piedi avrebbe potuto girare intorno alla macchina e sporgersi sulla strada e finalmente qualcuno, forse, si sarebbe fermato, o forse solo cercò di evitare l’ultimo pugno, più forte, che l’altro gli avrebbe dato, perché sentiva che quello aveva più forza di lui e stava per liberarsi di nuovo dalla sua stretta per colpirlo ancora. Il medico era inginocchiato sull’asfalto bagnato e stringeva il collo di quell’uomo. Con tutta l’energia che aveva scattò in avanti con le ginocchia, e tenendogli la testa in posizione, con tutto il peso del corpo la mandò a picchiare violentemente con un breve arco di cerchio tra gli sportelli dell’auto, in basso, proprio contro le lamine della scocca. Dopo il colpo sentì subito che l’altro gli si afflosciava tra le braccia e provò gioia perché sapeva che era finita, e provò paura, perché pensò di avergli sfondato il cranio.
Appena lo sentì molle sotto di sé si rialzò e si allontanò di qualche passo. Le auto certo continuavano a correre sulla strada ma adesso lui non se ne accorgeva e nemmeno gli importava più. Guardava quel grosso corpo flaccido e quei capelli lunghi e sporchi immobili nel buio dietro la sua macchina. Ansimava, e chissà dopo quanto tempo si sedette di nuovo in terra (continuava inspiegabilmente a pensare al vestito: tanto ormai è andato, pensò). Perdeva sangue dal naso o dal labbro tagliato, non capiva. Tutta la parte sinistra della faccia gli bruciava, per il colpo dietro l’orecchio e sul labbro. Si tastò la bocca e la sentì gonfia. Il labbro gli sembrava enorme, pulsante. Guardò ancora quel sacco vuoto, aspettando di riprendere fiato. L’altro non si era più mosso.
Quando il medico si riscosse si avvicinò al corpo bocconi dell’uomo e gli tastò la nuca. Sentì la mano bagnata. Scavalcò il corpo e mise la mano nel fascio di luce del fanale ancora acceso della sua auto. Era sangue. Girò l’uomo sulla schiena e lo esaminò. Ora agiva da medico, come se fosse intervenuto nell’incidente occorso a qualcun altro. Gli tastò il collo, il cuore, il polso. Era morto. Si sentiva freddo, lucido, stanchissimo. Intanto quel combattimento insensato era finito. Era morto, e l’aveva ammazzato lui. Chiuse gli occhi, in ginocchio di fianco al cadavere, e pensò che non era vero, che non stava veramente accadendo una cosa del genere, che un momento fa lui era sulla strada di casa dopo una giornata di lavoro e di lì a poco avrebbe rivisto sua moglie e cenato con lei e steso le gambe sul divano e…
Ma il cadavere era lì nel bagnato e lui era inginocchiato là vicino. Di fianco c’erano due automobili ferme con i fari accesi e sulla strada continuavano a correre a cento all’ora le macchine e nessuno si era accorto di loro e di quello che era successo e in ogni caso nessuno si era fermato. Da un momento all’altro però, qualcuno poteva fermarsi, poteva passare una macchina della polizia. Cosa doveva fare? Senza un motivo preciso tastò le tasche del morto. Aveva dei jeans da lavoro macchiati di calce. Da una delle tasche laterali tirò fuori un fazzoletto sporco e un mazzo di chiavi con un piccolo corno d’oro attaccato a un anello del portachiavi. Nella tasca posteriore c’era un portafogli vecchio e impolverato, consumato ai margini e nelle pieghe. Lo aprì e cercò un documento. Si sporse di nuovo nel fascio di luce. L’uomo si chiamava Vincenzo, aveva trentaquattro anni. Coniugato. Non c’era scritto se aveva figli. Pensò a sua moglie. Pensò a sua moglie. Ora sentiva crescere il panico. Che doveva fare? Che aveva fatto? Davvero lì davanti c’era un morto ammazzato e l’aveva ucciso lui? Non era da un’altra parte, un momento fa? Cercò il cellulare. Nella tasca interna della giacca, dove lo teneva di solito, non c’era. Tastò la giacca lungo la cucitura sulla schiena e sentì con le dita un lungo strappo verticale. Pensò che il telefono doveva essergli caduto nella lotta e lo cercò a tastoni nel buio dietro le auto e nel fascio di luce dei fanali. Poi si ricordò che forse l’aveva posato sul sedile dopo aver chiamato a casa. Girò intorno alla macchina (ora qualcuno mi vede, pensò, così, lurido e con la giacca strappata, e con le mani sporche di sangue, e si ferma, e io dovrò spiegare qualcosa), spalancò la portiera che era rimasta semiaperta e si protese dentro. Trovò il telefono sul sedile, lo prese e tornò dietro le macchine. Si accovacciò in terra di fianco all’uomo che aveva appena ucciso e fece il numero di casa sua. Rispose sua moglie.
Bello. Molto filmico.
Bello, mi è piaciuto. In accordo con il commento precedente, lo vedrei bene anche nella sezione Racconti per Corti.