Premio Racconti nella Rete 2017 “Emma” di Paolo Sterlicchi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017Fragrante e rapida come schizzi di cielo, la pioggia, quel pomeriggio, danzava sul selciato: meduse rovesciate, ombrelli d’acqua, fiocchi, chicchi di aria e di terra ticchettavano insieme, tamburellavano su porte e finestre, graffiavano vetri, scrivevano muri. Virgole e alfabeti indecifrabili gorgheggiavano sui parabrezza delle auto e volti appena abbozzati si stampavano sui finestrini.
Teresa accarezzava la finestra. Lentamente ne sfiorava il vetro; con le dita tracciava linee, schemi che sembravano predefiniti e consapevoli. Destra, sinistra e poi giù: pareva affondare in uno di quei granelli d’acqua che riempivano quella domenica pomeriggio in via D’Azeglio. E poi di nuovo con movimenti circolari ricamava il vetro fino a sfiorare quel biglietto, lì ai bordi dell’infisso, quel post-it giallo che appiccicava i suoi occhi alla finestra e che le solleticava le mani e l’anima. Con il grembiule a fiori rigato di sugo, le dita spesse e frustate dal tempo, l’aria trasognata e insieme ferma, Teresa accarezzava il suo passato. Ad un tocco ancora del foglietto, sorrise e sussurrò: Emma.
Una galleria ordinata e misteriosa di quelle tessere come di mosaico le ritornava alla mente.
Era un lontano pomeriggio di agosto. Emma era arrivata a casa sua. Uno scricciolo, occhi infossati, zigomi pronunciati; un volto scritto da piercing e quel chiodo nero che la nascondeva al mondo. Teresa ormai sessantenne aveva detto di sì: a casa sua c’era posto. I figli adolescenti, un appartamento non grande ma accogliente. Il telefono aveva squillato giorni prima: era il tribunale. «… è un caso complesso, non sappiamo a chi affidarlo. Lei forse…». Voce gentile ma incerta.
Teresa non aveva avuto dubbi: Emma arrivò. Di pomeriggio. Le sue parole erano scarne come il volto. Monosillabi. Unghia nere, scarpe nere, lingua sforacchiata, ciglia solcate da piccole sporgenze … di ferro.
“Non mangio”. Primo post-it attaccato in bella vista sul frigo. “Esco”. Secondo post-it.
La casa era diventata una trama misteriosa di frasi spezzate. Una caccia al tesoro in cui la perla era per ora un fiore chiuso e dalla scorza spessa. Tra silenzi e combinazioni di lettere trascorsero i primi giorni.
Teresa stava vivendo mille vite in una, mille volti in una sola espressione. Emma spargeva per la casa disordine, inquietudine, caos. Scarpe da ginnastica sul letto, trucchi in cucina, compiti e libri nel bagno. Emma la provocava. Ma la sera, quando tutti erano a letto, Teresa sentiva l’odore di Emma che riempiva lo spazio. Quei capelli ritti come aculei come per proteggersi da tutto, quegli occhi intensi e soffici pronti sempre a piangere, ma incapaci di farlo, quel volto di donna precoce rinchiusa nei tratti di una bambina, le vibravano dentro.
“Cena con la classe”. Un altro segnale di vita stampato sulla porta. Che risate quella sera.
I compagni di classe, Emma frequentava la terza media, avevano organizzato per quel sabato una festa. Emma era emozionatissima. Nero, smalto, ombretto, bagno, spruzzi, schizzi: caos. L’intera famiglia era un’abluzione di emozioni. Vite a bagnomaria, sarebbe stato il titolo adatto a quella serata, in cui ogni personaggio comunicava con il mondo circostante, con uno solo dei cinque sensi.
Clacson, grida isteriche. Sara, la figlia più grande, era attesa dal fidanzato. Ragli del motore. Una punto tutta da collaudare, fuori la aspettava. Gassss. Nuvolette di fumo dal finestrino. Sigaretta light. Ultima occhiata al capello. Denti puliti. Il check-up del perfetto boy friend si consumava fuori dal portone di casa. Sara intanto gridava: «borsetta! Chi l’ha presa. Strega!», rivolta a Lucia, la piccola di casa, che gelosa marcia, nascondeva ogni cosa pur di ritardare l’uscita della sorella.
Sciabordate di profumo dall’altra stanza: Emma sembrava un giardino.
Marco poi. Il maschio di mezzo, tredici anni, sguardo enigmatico coperto da occhiali da sole anche di sera, tecnologia bene in vista, capelli scolpiti alla “bronzi di Riace”. Tutti gli occhi delle compagne di classe erano per lui. Mancava il quarto senso: Tommaso, il padre, marito, martire. Avvinghiato alla poltrona, turandosi naso e orecchie, serrava la lingua fino a volerla ingoiare. Pugni chiusi, telecomando stretto che, come un ossesso, tastava per spingere l’audio ad estremi inauditi. A Teresa non restava che triturarsi le unghie, deglutendo con calma la serata.
Bum. La porta si chiuse in un boato: Sara.
Wow: la seconda mandata. Marco si fece risucchiare dall’uscita per risparmiarsi il solito «Torna presto» sussurrato dall’intera famiglia con un grido all’unisono.
Splash. Anche Emma svanì. Ci mise un po’ di più ad uscire quel suo dolciastro seguito, di essenze.
Tornò la quiete.
Emma aveva iniziato a sciogliersi. Era un lungo enigma, un periodo complesso pieno di subordinate che aveva iniziato a mettere un po’ di punteggiatura tra le parole. Scivolavano dalla sua borsetta alcune foto, lettere, sbuffi di passato. Aveva attraversato il dolore, accarezzato la solitudine. Aveva fatto da madre alla madre e da moglie al padre. Anni di vuoto che riaffioravano a tratti, a singhiozzi. Emma ascoltava e Tommaso la accarezzava.
“Sei. Ho preso Sei in Italiano. Fichissimo”, sul solito riquadro di carta che campeggiava al centro del tavolo. Quel pomeriggio fu di nuovo una festa. Per una come lei la scuola era stata un lusso impossibile da concedersi: occuparsi della famiglia, digerire lo schifo. No, non c’era spazio per cose da bambini. Predicati verbali e crisi internazionali, compiti da fare e temi da pensare: no, dispiace dirlo, non aveva tempo. Quel giorno, dopo tanto faticare era arrivato il primo sei. Un compito dignitoso, aveva dichiarato il professore. Emma si sentiva sempre più a casa: era una donna che stava imparando a essere bambina.
Intanto, però cresceva e i piercing cadevano, lasciando spazio alle sopracciglia. I capelli avevano reclinato la loro angolazione verticale per dare luce ad un folto caschetto all’egiziana. Smalti curati, piccole civetterie da signorina maggiorenne incuriosita dalle novità della vita facevano timidamente capolino.
E poi arrivò quel laconico “Vi devo parlare”, appiccicato alla lavastoviglie. Teresa era preoccupata per quel tono tornato secco; Tommaso, come sempre un po’ scanzonato, aveva osservato che mancavano post-it solo sulla sua fronte e tutti gli spazi sarebbero stati usati. Quella sera pioveva. Bagnata come un pulcino Emma si affacciò sull’uscio di casa. Lentamente entrò a passi dosati, con frenetica calma. Diluendo ogni singola parola con abbondanza di silenzi, la serata proseguì fino a quel: «Io e Alberto abbiamo deciso. Vado a stare da lui». Virgola, due punti, punto a capo.
A capo senza coda, senza senso. A capo senza testa. Quella decisione sembrava assurda.
Alberto era entrato in punta di piedi nella vita di Emma. Con la maestria di un musicista sul pentagramma, aveva scritto note, pause, ma per ora poche battute, troppo poche, pensavano Teresa e Tommaso, per una vera sinfonia, per una storia d’amore seria.
Emma lasciò Via d’Azeglio tra le luci di un tramonto di luglio, sotto gli sguardi distratti delle rondini, gli occhi umidi di Sara e Marco e quelli della piccola Lucia.
Tommaso la aspettava nella sua Panda farcita come un sandwich: materassi che spuntavano dal finestrino, vestiti che dondolavano ammassati nel sedile posteriore e scatole di scarpe che, grattacieli improvvisati, traballavano ad ogni accenno di gas. Teresa fingeva di spolverare casa: stava solo cercando di impolverarsi l’anima, di indolenzirla, di riempirla di qualcosa pur di non far urlare il vuoto.
Così partì.
L’estate ritornò ancora e ancora, la neve salutò via D’Azeglio ed Emma era diventata una donna.
Il portone di Via Ponte, dove Alberto aveva un piccolo appartamento, si era fregiato di un fiocco blu e di un fiocco rosa. Lo scricciolo impaurito era madre.
La casa di Teresa e Tommaso risuonava ogni tanto di quelle voci; quelle frasi un tempo spezzate si erano composte in mille suoni, quei frammenti gialli, quei biglietti appiccicati erano diventati una frase di senso compiuto.
Quel pomeriggio erano appena andati via tutti. Emma e Alberto, che erano venuti a trovarli l’avevano lasciata con un bacio, Tommaso con Lucia li aveva poi accompagnati. Sara e Marco erano sparsi per la città a farsi notare, a incorniciare sguardi, ingoiare sorrisi e ad afferrare il mondo che passava loro accanto.
Teresa, alla finestra, guardava la pioggia, si sentiva più che altro piover dentro. Quel post-it che stava accarezzando, la apriva e la chiudeva. Era un altro biglietto, un altro ancora. Forse quello che li riassumeva tutti. Recitava laconicamente come un tempo, ma profondamente come mai: “Grazie”.
Caro Paolo, sono un’insegnante della primaria e sono a contatto con questi casi ogni giorno: la maggior parte di essi finisce male ed è bello vedere che almeno in un racconto terminino in un lieto fine (spero tanto che questa storia sia vera!)…Mi piace molto la tua scrittura raffinata ma senza barocchismi. Bravo!
Caro Michele la storia prende spunto da una situazione reale a cui ho avuto modo di assistere. Grazie per il tuo commento pieno di incoraggiamento sullo stile
Paolo, che bella storia e che bel racconto, scritto molto bene anche! Nel leggerlo, ho dimenticato la tua appartenenza al sesso maschile: sei entrato perfettamente nella testa e nell’anima di Teresa. E questo è un valore aggiunto, secondo me.
Grazie Paola, è proprio un bel complimento venuto da una donna. Ti ringrazio di cuore.
Paolo,
in poche, pochissime battute hai condensato le emozioni di una vita.
Hai suscitato in me forti sensazioni, soprattutto grazie al ruolo primario che hai riconosciuto alla famiglia nella formazione dell’adolescente: un microcosmo contentuto, ristretto, caratterizzato da un potere immenso, capace di alleggerire e far superare anche i drammi più duri.
E’ meraviglioso che Emma sia un esempio reale di tutto questo.
La scelta di “raccontare tramite post-it”, poi, è fantastica.
Bravissimo.
Caro Paolo, complimenti e grazie per il tuo racconto. Una situazione difficile, quella di Emma, che, in un’età già di per sé cruciale e turbolenta, deve imparare ad accettare il mondo intorno a sé e farsi da esso accettare. Un bel parallelo (o contrasto?) con Sara e Marco, i giovani “che hanno avuto tutto dalla vita” e che forse, com’è naturale che sia, non capiscono quanto possa essere difficile farsi strada nella vita. Chi sarà maggiormente d’esempio per la piccola Lucia?
Aggiungo che hai un bello stile: il racconto fila alla grande.
Ancora complimenti insomma, e in bocca al lupo!
Trovo meraviglioso questo scrivere così attento alle parole per creare immagini e suoni, così ben curato nella struttura, eppure lieve e scorrevole.
Mi piace pensare a un racconto palindromo, come è il titolo, perché, se volessi leggerlo dalla fine, nulla cambierebbe all’incanto della narrazione.
Ho adorato l’uso dei messaggi appiccicati al frigorifero, offrono l’idea dell’intimità offerta ad Emma che lei, a suo modo, ricambia, e sono il mezzo per descrivere il suo rasserenarsi.
Questa famiglia pronta all’accoglienza gratuita, disinteressata e terribilmente impegnativa dell’affido, mi è entrata sotto pelle, Emma invece ormai mi circola in vena.
Grazie Paolo, sei stato generosissimo a raccontarci questa bella storia e ti faccio tanti complimenti. Fanne anche a tutta la famiglia e a Emma, se ti capita…
Intanto… Emma non è nome palindromo e ho anche scritto “cambierebbe” al posto di “toglierebbe”.
Ma il resto vale tutto.
Grazie Marcella per il tuo commento davvero commuovente. Grazie di cuore. Siccome penso che la cosa più difficile sia far uscire un pensiero e un personaggio dalla propria testa, l’idea che sia arrivato a parlare anche ad altri mi fa felice.
Paolo, che gran bel racconto! Emozioni quotidiane dalle quali emergono sentimenti profondi, uno stile narrativo sfavillante.
…e poi la struttura della storia è bellissima un circolo che si apre e si conclude e in mezzo lei Emma che genera tutto senza dire , ma scrivendo poche frasi
costruisce il fluire degli eventi.
Paolo, tantissimi complimenti !!
Che corsa questo racconto! Con un incipit indiavolato come il perno attorno a cui gira. Bello, bellissimo. Letto tutto d’un fiato.
Grazie Gianluca, per il tuo squisito commento. Hai sottolineato una cosa che speravo si capisse ma temevo fosse troppo ingarbugliata: mi riferisco alla struttura circolare e silenziosa del personaggio di Emma.
Un bel racconto! Denso di emozioni, di vita vera, dell’affastellarsi quotidiano di pensieri, speranze, dolori e rinascite. Il cerchio della vita condensato magistralmente in poche righe. Complimenti, Paolo