Premio Racconti nella Rete 2010 “Priorità” di Marco Subbrizio
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010La sala d’aspetto era bianca, asettica, come ci si aspetta che sia la sala d’attesa di un ospedale. Piastrelle fino a un metro e mezzo di altezza e poi una mano d’intonaco; su un lato, alcune finestre con il telaio di metallo occupavano tutta una parete, e lungo il perimetro della stanza erano disposte anonime sedie con piano e schienale di formica verde chiaro. Erano circa le nove e mezza del mattino, e non c’era molta gente. Una donna era seduta nell’angolo, accanto a una delle finestre semiaperte. Leggeva un libro. Aveva quarant’anni e poco prima aveva eseguito una mammografia bilaterale.
A partire da quell’età, il servizio sanitario regionale offre a tutte le donne un test annuale di controllo al seno per la prevenzione dei tumori femminili. Il programma prevede l’esecuzione della sola mammografia, ma lei era riuscita a prenotare per lo stesso giorno anche un’ecografia mammaria. C’era ancora una donna davanti a lei, e ora l’attesa per questo secondo esame si stava prolungando. Cercava di proseguire nella lettura di qualche pagina del libro, ma non riusciva a concentrarsi. Non aveva dormito bene ed era un po’ irritabile, niente di speciale. Poco prima aveva anche fatto una sgradevole telefonata di lavoro, per sollecitare un pagamento.
Finalmente, dopo una ventina di minuti, nel corridoio l’infermiera scandì il suo nome, e la fece entrare in uno studio. Il medico era una donna, più o meno della sua età, di aspetto curato e impersonale, che si distingueva in particolare per una gran massa di capelli fulvi. Scambiarono qualche parola e la dottoressa trascrisse su una scheda i dati anagrafici della paziente. La donna si svestì e si sdraiò sul lettino. La dottoressa si sedette accanto a lei, spalmò il gel sulla sonda e iniziò l’ecotomografia al seno. La donna, sdraiata, poteva sbirciare lo schermo del computer. Un dedalo caotico di linee, sembrava impossibile che qualcuno potesse raccapezzarcisi per cavarne qualcosa. Spostò lo sguardo nella stanza, abbandonandosi al massaggio leggero della sonda sul seno destro. Lo studio medico era piccolo e piuttosto buio, perché l’unica finestra aveva le persiane chiuse. La luce era assicurata da un paio di lampade, una accanto al macchinario che serviva per effettuare l’esame, l’altra sulla scrivania. Pensò che quel sistema, finestre oscurate in pieno giorno, servisse a distinguere meglio quella confusione di ombre mobili sul monitor. Sulla parete di fondo c’era un lavandino e forse un armadietto. Girò la testa. Accanto alla porta che dava sul corridoio vide l’attaccapanni sul quale aveva appeso la maglietta e il reggiseno, un tavolino pieno di fogli disposti con ordine, un grande cesto per la spazzatura. Il soffitto era a pannelli metallici traforati, con un tubo al neon – spento – che correva più o meno lungo il perimetro. Le pareti erano nude, forse grigio pallido, anziché bianche. Mentre guardava tutto questo l’infermiera era rientrata e aveva posato un foglio sulla scrivania, e senza dire nulla era uscita di nuovo.
Sulla scrivania c’era anche una borsetta, anzi una borsa piuttosto grande, e a quel punto, dall’interno della borsa, risuonò lo squillo di un telefono cellulare. La dottoressa sospese la visita, si alzò e andò a pescare il cellulare per rispondere. “Pronto. Ciao Rosanna!” disse con convinzione. La donna sul lettino non poteva fare a meno di ascoltare la conversazione, che peraltro non sembrava riguardare argomenti troppo intimi. La dottoressa stava confermando qualcosa, forse una semplice cena tra amici, che sarebbe andata bene per quella sera. “Per quattro”, disse, “quattro o cinque. Alla fine non so se …”. La donna sul lettino aveva leggermente freddo e si coprì il seno con le braccia. Sentì l’umido appiccicoso del gel sull’avambraccio. “Non ne ho idea”, diceva ora la dottoressa. La conversazione proseguì ancora per qualche minuto. La donna sempre distesa ricominciò a guardarsi intorno nella stanza, con una leggera irritazione crescente. “Diciamo otto, otto e mezza”, concluse la dottoressa. “Va bene? A presto. Ciao, ciao”. Chiuse lo sportellino del cellulare e lo gettò alla rinfusa nella borsa. Girandosi disse “Scusi”.
Forse sarebbe stato meglio non dire niente, perché la sua paziente non si trattenne e disse: “Lo trovo scorretto, comunque”.
“Prego?”
“Mi sembra scorretto da parte sua interrompere una visita per questo motivo”.
“Le ho fatto perdere appena cinque minuti”, disse piccata la dottoressa, “non mi sembra il caso di irritarsi”.
“Non è questione di tempo, è che trovo scorretto far attendere un paziente seminudo per occuparsi di questioni personali”.
“Le ho già chiesto scusa”.
La cosa finì lì, ma la dottoressa era visibilmente irritata. La donna era più dispiaciuta che pentita o alterata. Pensò che comunque aveva avuto ragione, un medico non dovrebbe interrompere una visita per una conversazione personale; pensa che avrebbe dovuto dire “ti richiamo più tardi”, e telefonare se mai tra un paziente e l’altro, o per lo meno prima di iniziare una visita.
La visita riprese con un po’ di tensione, ma l’imbarazzo era destinato ad aumentare per un altro motivo. L’esame alla mammella destra era completato, e proseguiva ora con la mammella sinistra. Alla donna sul lettino la pressione della sonda pareva appena più brutale, ma probabilmente era solo una sensazione indotta dal clima che si era creato. La dottoressa sembrava invece aver dimenticato la spiacevole conversazione, ed essere più che altro concentrata su quello che stava osservando.
La paziente ebbe una conferma di questo cambio di atteggiamento quando l’infermiera entrò dicendo qualcosa, e la dottoressa rispose senza distogliere gli occhi dal monitor. “Dopo. Adesso ho un problema”, disse. La frase poteva anche riferirsi allo sgradevole scambio di battute di poco prima, ma in realtà pareva proprio che stesse accadendo qualcos’altro.
L’infermiera uscì. “Qualcosa non va?”, domanda la donna dal lettino.
“Lei ha un tumore”, sibilò bruscamente il medico. Poi più gentilmente: “C’è un nodulo sospetto; fortemente sospetto, direi”. Aggiunse: “Mi dispiace”.
La donna sul lettino sentì crescere il batticuore. Sembrava incerta se sollevarsi, come per dire qualcosa che però non veniva fuori, o rimanere sdraiata in attesa, chissà, di una smentita che poteva ancora arrivare. Le balenò persino che potesse trattarsi di uno stupido scherzetto, una piccola vendetta per il rimprovero di poco prima. Del resto, come si può esser certi di qualcosa in quel groviglio di linee? Dev’essere facile sbagliarsi.
“Aspetti ancora un attimo”, diceva intanto la dottoressa. “Mi faccia vedere bene”. La sonda piezoelettrica ondeggiava sul seno sinistro nello spazio di qualche millimetro. Il silenzio non finiva mai. Cliccando un paio di volte un tasto la dottoressa isolò qualcosa tra le linee del monitor. “Vede qui? Riesce a vedere?”. Orientò il monitor verso il lettino. “È questa macchia più scura abbastanza grande. Dovrebbe essere una microcalcificazione. Con ogni probabilità lo è. Potrebbe essere una neoplasia maligna”.
La donna sul lettino sembra sbiancare, forse ha un calo di pressione, suda ed è sul punto di svenire. La dottoressa le tasta il polso. “Non si agiti”, dice. “Se vuole le do un calmante”. Senza aspettare una risposta si alza e da una vetrinetta nascosta nel buio prende una scatola di compresse. La apre e ne sguscia una dal blister. Poi sciacqua un bicchiere e lo riempie d’acqua. Porge il tutto alla donna che si è messa a sedere sul lettino. “Grazie” sussurra lei. Mentre butta giù la pastiglia con una mano e beve con l’altra, solleva le braccia e la dottoressa le osserva il seno. È grande e florido. Leggermente appesantito e cadente, come il suo, ma gli uomini lo trovano ancora pieno e bello.
Quando la donna ha finito con quell’operazione, la dottoressa le prende il bicchiere dalle mani e lo posa dietro di sé sulla scrivania, poi si siede sullo sgabello accanto alla macchina. La donna seduta è sbigottita e remissiva, muta. Forse dovrei prenderle una mano, pensa la dottoressa; rimane un attimo incerta. Ogni tanto capitano queste cose, pensa. “Le prescriveranno qualche esame”, dice senza fretta. “Prima di tutto farà una biopsia. Non è del tutto certo che sia una massa tumorale maligna, ma devo avvertirla che le probabilità ci sono”.
Non c’è altro da dire. Si alza, e strappa un lungo lembo di carta da un grosso rotolo di carta asciugamani. Lo mette in mano alla donna. “Si asciughi, e si rivesta pure”, dice. Va a sedersi alla scrivania e scrive il referto medico, dando le spalle alla donna. Lei si asciuga, meccanicamente, si alza e va a rimettersi il reggiseno e la maglietta, osserva la stanza nella penombra e le spalle della dottoressa, il bianco del camice, ma senza vedere niente, risentita, come tradita da qualcosa. Recupera la borsetta che aveva posato in terra accanto all’attaccapanni. Dopo alcuni minuti la dottoressa si alza. Ha messo il referto in una grande busta gialla, insieme all’ecografia. Consegna tutto alla donna. Sulla porta, ancora socchiusa, con la mano sulla maniglia, dice: “Le faccio i miei auguri” e le porge la mano. L’altra donna gliela stringe. Dice solo: “Grazie”.
La dovizia di particolari rende bene il cambio di clima, nella stanza come nella vita della paziente, e forse anche della dottoressa.
Il racconto è scritto bene, ma non riesco a scorgervi il senso..
Bella l’idea del contrasto tra la banalità di un diverbio e il dramma della malattia, di far spaziare lo sguardo della paziente nella stanza e alcune riflessioni e sensazioni della donna, durante la visita, a seguito del contrasto. Mi sarei aspettata un finale leggermente più vigoroso, sempre nel rispetto dell’impersonalità dell’ambiente e di sentimenti che restano quasi del tutto intimi.
Ti faccio i miei complimenti perché a mio avviso non era per niente facile descrivere l’atmosfera e la tensione che possono crearsi in un interno così asettico.
alessio degli incerti
Hai colto l’attimo del “qui ed ora” animandolo di uno stile unico ed inconfondibile che lega tutti i tuoi racconti. deborah la porta