Premio Racconti nella Rete 2017 “Around Alone” di Iaia De Marco
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017
In quell’attimo sembrò che anche il frinire dei grilli e il rumore della risacca fossero rimasti sospesi come il respiro degli uomini e delle donne accalcati tutt’intorno allo stretto corridoio di terra che i loro stessi corpi delimitavano.
La lama divideva in due l’aria in cui volava, precisa come un finale ben scritto. Marc era lì, proprio sulla sua punta, il cuore e le orecchie dolorosamente tesi al momento in cui lo schiocco netto di ciascuno dei cinque coltelli che si conficca nel pannello di legno avrebbe liberato tutti dalla paura amica che li teneva raccolti lì quella sera. Ma nessuno sentì quello che aveva sperato. Prima ancora che il primo urlo si levasse, Marc correva sulla stessa traiettoria dell’arma, velocissimo per riportare indietro il tempo prima che si accorgesse di essere già passato. La carne bianca di Jannine aveva nascosto la lama e disperso il suo suono.
Les Stes Maries de la Mer è una spiaggia della Camargue dove incrociano gli zingari di tutta Europa, portano lì i loro cammini da terre lontane, dai climi più diversi, dai più simili sentimenti di diffidenza, intolleranza, odio. Ma quando arrivano qui, in questa palude, nomade anch’essa tra terra e mare al ritmo delle maree, ritrovano riti comuni e identità così forti che per esistere non hanno bisogno di un nome né di confini sulla carta geografica.
Marc non è uno di loro, ma li conosce da quando era un ragazzino. Le sue parole erano rimaste quasi tutte nelle antiche aule del liceo, dentro quaderni graffiati da una calligrafia mancina e insofferente. Sulla spiaggia non glie ne servivano molte e, poi, in quale lingua? La sera, intorno ai fuochi del campo, sulle note tumultuose di violini balcanici, faceva nodi per raccontare la sua storia di figlio di marinaio; la sveltezza delle sue dita incantava quelle donne e quegli uomini abituati a far conto e a fidarsi solo dei piedi e delle mani. Lui imparò da loro l’amore per i coltelli fino a diventare, in poche stagioni, tra i migliori lanciatori.
Il fiocco sventò con un rumore secco, uno schiocco, il boma sussultò minacciando di passare sulle altre mure col suo fendente da karateca. Marc, che aveva dato il cambio al suo pilota automatico, orzò la barra del timone per accostare la prua al vento e ridare respiro e stabilità alle vele. Erano giorni che navigava al lasco, e cos’altro avrebbe potuto fare con un vento di 40 nodi, ma era un’andatura impegnativa, che non ammetteva distrazioni. In questo la competizione con il pilota automatico era persa in partenza. Marc, invece, anche nel tormento dei 40 ruggenti, sfilava via un pensiero, un ricordo che riusciva a fargli più male dell’ansia d’acqua e di vento che ora lo stava pervadendo. Il mare che gli aveva assorbito gli occhi e il tempo di tre traversate oceaniche non erano bastati a dimenticare il pallore definitivo del viso di Jannine e a spegnere l’eco di quel rumore sbagliato. L’aveva amata come uno zingaro, con lame e passione. Avevano celebrato il loro amore davanti ai testimoni di cento tribù in ogni festa a Les Stes Maries de la Mer, offrendosi l’un l’altra la propria paura, qualcosa di più assoluto dell’amore, davanti a tutti, senza pudore. Loro due e i coltelli con cui lui le inchioda intorno al corpo i propri sentimenti, su quel pannello di legno dove tutti possono vederli e crederli veri. Jannine non morì per quel lancio sbavato, ma non era il tipo di donna che potesse sopportare trascuratezze dal suo uomo; né Marc avrebbe potuto reggere il biasimo per la sua provata inadeguatezza. Si era spinto troppo oltre in un mondo che non era il suo.
La radio gli rovesciò addosso il may day di Isabelle, squadernando il suo album di ricordi. Marc riconobbe l’urlo del vento e l’oceano che ingrossava sotto di lui le sue forme spaventose. La pioggia gli annegava gli occhi. Inserì il pilota automatico, scese sottocoperta e si attaccò alla radio. La trasmissione era disturbata, la burrasca era entrata anche nell’apparecchio. Intermittente, come una vera disperazione, continuava ad arrivargli il may day da Isabelle. Finalmente lei lo sentì, gli rispose. Marc le chiese la sua posizione. Era davanti a lui, a settanta miglia, ma a sud. La barca capovolta e disalberata, lei chiusa nella cabina a tenuta stagna che parlava alla radio, azionando i comandi capovolti e, probabilmente, pregando il dio dei marinai e dei velisti incoscienti e solitari. Per tentare il salvataggio di Isabelle rischiava di dover navigare di bolina. La bolina è un’andatura aspirata, nella quale il vento viene stretto in un angolo acuto fino a 35° tra la sua direzione e la prua della barca. Al vento teso, come alla gran parte di noi, non piace essere costretto in un angolo così limitato e allora si vendica, soffiando turbolenze e sbandando la barca fino a spingere in acqua i candelieri. Il vento al 40° di latitudine Sud, poi, è particolarmente permaloso.
Per i vecchi naviganti la bolina era una iattura: due volte il percorso, tre volte il tempo, quattro la rogna.
Raggiungere Isabelle equivaleva a lasciarsi risucchiare dal vento, forse per sempre. Comunque, per un periodo troppo lungo. Nemmeno gli aerei di soccorso potevano alzarsi in volo con quelle condizioni meteorologiche. Matta e senza dignità. Già l’anno prima la sua barca aveva scuffiato e lei si era salvata solo per l’intervento degli elicotteri d’appoggio alla regata. Tutto il mondo aveva potuto misurare la sua inadeguatezza eppure, lei, sorridente sotto i riccioli biondi e arruffati, nella sua migliore espressione da naufraga scampata, lo aveva salutato tutto, il mondo, con una gioia senza ombre – neanche il rimpianto per l’imbarcazione perduta – e quella incongrua intonazione di trionfo sempre avvertibile nella voce dei superstiti.
Per un numero infinitamente più basso di occhi giudicanti, Marc aveva abbandonato la donna e la terra che amava, e cercato l’espiazione nel suo mare solitario.
Ricordò una frase di Costeau, Il mare non è mai stato amico dell’uomo, tutt’al più complice delle sue inquietudini.
Non avrebbe invertito la rotta per salvare Isabelle.
Lei aveva spinto la sua così a sud rispetto a quella più sicura per calcolo esatto, sarebbe stata di certo più veloce, già in confidenza con la vittoria.
Fottiti, Isabelle. Buon vento!
Stappò una bottiglia di Bordeaux e bevve alla salute del suo pilota automatico. Finché non fu vuota. Quindi tornò alla spiaggia di Les Stes Maries e s’addormentò sul seno di Jannine, una mano fra le sue cosce calde.
Quando si risvegliò fu sorpreso dal silenzio che galleggiava nella cabina; la burrasca doveva essere passata, lasciando qualche modesto residuo nella sua testa. Accese la radio senza trovarvi la disperazione della sera precedente. Riemerse in coperta e controllò se vi fossero danni. Il vento era meno teso, aumentò la superficie del fiocco fino al genoa, regolò la randa. Si distese sul ponte per verificare che la curvatura della vela gonfia fosse quella corretta. Per un istante i suoi occhi incrociarono un’incongruenza, poco più che un graffio sull’albero, prossimo alla testa, e così incerto da poter essere un riverbero di luce. Dalla cabina di nuovo la voce di Isabelle e dopo il suo “cambio” quella di Giovanni che stava per aggiungere alla sua fama il salvataggio di lei. Per lui significava una deviazione di 135 miglia a sud. Per Marc un vantaggio decisivo.
Per le dodici ore successive si concentrò sulla navigazione, drenando dal suo cervello ricordi e rimpianti. Verificò con il GPS il progredire della sua posizione con frequenza maniacale, sfinì scotte e drizze per correggere continuamente la regolazione delle vele in un delirio di perfezionismo. A sera, spartì col pilota automatico la soddisfazione per il buon lavoro fatto e l’ultima occhiata a un cielo tutt’altro che amichevole. Faceva molto freddo. Riparò in cabina per qualche ora di sonno prima della probabile tempesta. Si svegliò all’alba per il beccheggio insopportabile. La radio ratificò l’avvenuto salvataggio. Isabelle era a bordo della barca di Giovanni e Marc, da solo, più vicino al traguardo della terza tappa.
Si grattò via dalle orecchie il fastidio per l’entusiasmo scatenato dall’impresa di Giovanni che sentiva, dalla radio e al telefono, e per quello che immaginava nel resto del mondo, improvvisamente lontanissimo dalle ancora distanti coste meridionali dell’Argentina. Dentro sentì, invece, una rabbia vicina, quasi un rancore, che scaricò protestando con gli organizzatori: Giovanni va squalificato, questa è una traversata oceanica in solitario e, loro, a bordo sono in due.
Ma non poté farla troppo lunga. Ricacciò in gola la collera perché il vento stava rinforzando e il mare si faceva sempre più duro.
Ridusse le vele e prese il timone per sostituire alla matematica tecnologica del pilota automatico la sua sensibilità di uomo e marinaio.
Come sempre si confortò dicendosi che si trattava solo di resistere per qualche ora.
Improvvisamente il riverbero dimenticato sull’albero si trasformò in una lesione con un suono troppo modesto perché Marc potesse udirlo sopra l’urlo del vento. Nel momento in cui notò che la randa si ripiegava appena su se stessa come colpita da un dolore profondo, alzò gli occhi in tempo per vedere la cima staccarsi di netto e, subito dopo, abbattersi l’intero albero fracassando una parte di coperta da cui cominciò a imbarcare acqua. Marc attivò il sistema automatico di soccorso. Rifiutò l’offerta d’aiuto di Giovanni. Riparò alla meglio la falla e armò un piccolo albero di emergenza e così fece rotta verso le isole Falkland e, per il tempo che occorse a ripristinare le normali condizioni della sua barca, si abbandonò ai ricordi, sempre uguali su una spiaggia tanto diversa da quella di Les Santes Maries de la Mer.
Attirato dal titolo ( mi piace ogni tanto fare qualche bordo a vela) mi sono imbattuto in questo racconto letto tutto d’un fiato.
Bello, bello, bello.
Una storia di mare realmente accaduta durante una famosa regata oceanica in solitario (protagonisti i grandi della vela, da Giovanni Soldini a Isabelle Autessier a Marc Thiercelin), è solo un pretesto perché emergano ricordi, sentimenti, emozioni, gelosie, vigliaccherie.
In una parola, umanità!
Il confronto duro con onde e vento è metafora della vita, che ti sconquassa l’anima e ti presenta il conto sotto forma di un coltello lanciato male o di un albero che cede.
Bello anche sotto il profilo lessicale laddove il linguaggio tecnico, pur presente, non deborda. La lettura risulta facile anche da chi tecnico non è.
Complimenti. Faccio il tifo senza mezzi termini
Grazie, Ottavio. Davvero un commento acuto nell’analisi e lusinghiero (per me) nel giudizio. Buon vento!
Non sono un marinaio, tutt’altro, però ho apprezzato molto lo spirito di avventura e sfida, i caratteri forti dei personaggi, l’intrecciarsi di vite e ricordi non banali e non sedentari. Un racconto ricco, perché quasi ogni paragrafo potrebbe essere il plot di una storia a parte che aspetta solo di essere sviluppata. Molto bello, complimenti!
Bello, Iaia! Ho avuto un po’ di difficoltà a destreggiarmi nel linguaggio tecnico, ma è un limite solo mio. Per il resto, la storia scorre a meraviglia ed è molto coinvolgente. Mi allineo pienamente agli esaurienti commenti che sono già stati scritti. Ottimo!!
Grazie a Ugo e a Giada per l’incoraggiamento. In effetti penso di avere osato un po’ scegliendo di partecipare con un racconto così “tecnico” in superficie. Ma i vostri commenti mi confermano che non è stato un errore rischiare. Grazie ancora.
Iaia,
Io non sono un marinaio ed il mare mi fa pure un po’ paura, ma, non ci crederai, sono veramente figlio di un marinaio.
Leggendoti, pur non conoscendo il linguaggio tecnico della vela – che, per dirla con Ottavio, non deborda assolutamente nel contesto del racconto – mi è sembrato di tornare alle serate in cui domandavo a mio padre di parlare delle rotte, delle usanze, delle passioni, dei mostri e dei tormenti che il mare nasconde sotto la sua tavola blu.
Ti assicuro che hai raccontato il tutto con la stessa enfasi e passione di mio papà, migliorate da una fenomenale capacità narrativa: ti assicuro che è un gran complimento! 🙂
Davvero bravo.
Gran bel racconto Iaia, la storia alla quale ti sei ispirata la ricordo molto bene, tu sei riuscita a vederla e descriverla da una prospettiva nuova e originale.
il tuo stile è una bolina stretta che non lascia respiro e impone un ritmo serrato che ti fa stare con fiato sospeso.
Molto brava anche a incastrare le vicende di Marc nel filo degli eventi.
risultato finale fantastico!! bravissima
Grazie, Lorenzo, credo che l’avermi ammessa nella sfera delle tue emozioni ersonali e vissuto familiare sia la cosa migliore che potesse nello scrivere un racconto così “specifico”!
Grazie a Gianluca per la lettura attenta. Le tue notazioni stilistiche mi fanno particolarmente piacere, perché la densità e l’intensità sono le caratteristiche che mi sforzo di imprimere alla mia scrittura. Sarà anche per questo motivo che la mia è una misura breve. Grazie davvero.
Un racconto ben scritto e appassionante. Mi è piaciuta molto la parte ambientata a Les Santes Maries de la Mer che con la sua atmosfera sospesa fa da contrappunto alla vicenda in mare aperto. Anch’io ho avuto qualche difficoltà nel capire le parti più tecniche ma, devo dire, condivido la tua scelta linguistica perché il lettore, pur non comprendendo tutto riesce a immaginare cosa stia accadendo. In qualche modo lo sforzo di comprensione del lettore è omologo allo sforzo che compie il personaggio per sopravvivere in mare e inoltre “impreziosisce” la trama e la rende più autentica.
Il mare come specchio di quello che siamo e giudice delle nostre debolezze è sempre un tema affascinante. Complimenti!
Grazie molte, Ivana, per la tua lettura, per il giudizio e, sopratutto, per l’acuta ipotesi sulla simmetria degli sforzi testuali ed extra: davvero avvincente!