Premio Racconti nella Rete 2017 “Sofia’s story” di Fabrizio Sani
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017Vivevano insieme nella periferia di Sofia e ascoltavano il vento scontrarsi con le mura davanti a ingombranti tazze di caffè riscaldati. Lui diceva sempre parole adulte e le sue labbra si muovevano piano per non riaprire la crepa. Lei gli sorrideva anche quando era arrabbiata e le sue mani si contorcevano su un foglio di carta. La sera non era densa e sapeva far venire a galla anche le voci più sottili.
“La notte in cui lasciai la Bulgaria vidi una donna fare l’amore con due uomini nella stiva, uno di loro era il capitano. Attraverso il vetro riuscivo a vedere le smorfie che faceva: adesso non sarei in grado di descriverle, ma le ricordo bene.”
La donna rimase in silenzio. Si stava chiedendo perché le dicesse questa cosa adesso, ma non trovò il coraggio di chiederlo.
“Il Mar Nero mi è sempre sembrato un vecchio gigante, e in quel momento, in quelle smorfie, mi sembrava un bambino addormentato. ”
Lei si alzò e si diresse verso la cucina, dove aveva lasciato sul fuoco una zuppa di patate. Lui aspettava di sentire il suono del mestolo di legno che batte sulla pentola di metallo. Sapeva che dopo averla mescolata lo avrebbe leccato e riposto sopra la pentola come un tetto.
Nel frattempo si scoprì a pensare alla prima notte passata insieme: i suoi occhi la fissavano sbilanciati, come a cercarle nel volto un punto d’appoggio. La bocca aveva smesso di respirare, e il silenzio imbrattato dalla troppa pulizia lo tentava a fantasticare, a trovare definizioni da condividere con lei per farsi amare; quando ormai le parole erano solo una padella su cui cuoceva le sue emozioni. Quante cose stupide dissi quella notte.
Non capiva a cosa lei pensasse nel ripetere che la massoneria speculativa di Londra l’ha vista mangiare neve nel suo giardino, e quando la notte si sfrega le mani, e soffia tanto forte da appannare gli occhiali, sogna di gettarsi in mare da una scogliera norvegese.
(Klang)
Mentre leccava il mestolo nella testa le ronzavano ancora quelle note della canzone dei Beatles che la infestavano da un giorno intero e le ricordavano la prima volta che lui se ne andò: “Non so se c’è più cenere nei tuoi occhi grigi o sulle mie labbra. Solo molto lontani, in continenti diversi, le nostre eco riusciranno a sfiorarsi appena: il minimo per non sentirsi troppo soli, il massimo per non incenerirsi a vicenda.” scrisse in un foglio lasciato accanto ai piatti sporchi, da giorni,settimane o mesi, non ricordava. Tutto era passato così velocemente e intensamente, o forse il tempo trascorso insieme è stato più lungo ma intervallato da pausa che non ha percepito, da sensazione che ha vissuto talmente a fondo da non riuscire a capire se fosse coinvolta o meno, se tutta quella passione fosse mossa da un sentimento o dall’ambizione di provarlo. Uno sguardo indolente ai piatti nel lavandino, poi il mestolo sopra la pentola e il posacenere condotto in soggiorno.
“La prima volta che arrivai in questa città percorsi la strada che dalla cattedrale Nevskij porta al teatro nazionale e vidi tante facce stanche, come segnate dalla noia, la stessa che percepivo in ogni mattone di questa città. Scrissi: ‘Sofia è una vecchia barca ormeggiata. Non si mostra. Vedi le rughe ma non racconta il suo passato.’ Il flusso di persone e voci che mi scorrevano affianco sulla Rakovski come tanti imperfetti aeroplani di carta, servivano solo a constatare ogni mio rimorso o defezione – la mia mancata esplosione. Strascicavano affaticate ogni dubbio da chiarire. Mi fermavo, ansimante a pensare ad un’ adolescenza impiegata ad indebitarmi con Dio.
Stanotte non voglio sentire rumori, non voglio sentire suonare nessuno. Forse riuscirò a rintracciare gli spasmi di soffocamento dell’ultimo amico abbandonato – quello che non ho apprezzato mai, pensavo. Inutili sorrisi non mi fanno compagnia, lo spreco di energie per alimentare una bugia a cui nessuno crede.
Solo adesso comprendo cos’è che tutti nascondono, insicuri sotto il chiacchiericcio; dopo tanto affanno a ricercare in ogni deserto un po’ d’ombra di libertà, ora vorrei sapere com’è vivere in una prigione gradita.
Chi con forza reclama libertà, poi non saprebbe cosa farsene.”
Ancora senza dire una parola lei gli tolse il piatto è tornò in cucina per riporlo nel lavandino e pensare senza essere spiata a quegli alberi davanti alla sua prima casa, che si agitavano come se fossero loro a direzionare il vento, mentre il freddo teneva le mani sulle sue guance e sembrava poter penetrare la stoffa fine dei jeans. L’autobus pareva non passare mai e una strana barba germogliata su un volto anonimo chiedeva informazioni.
Doveva incontrarsi con lui e barattare il suo ego con una carezza confusa, ma si innamorò.
Lui sbucò in cucina a metà dei ricordi e le prese una mano; lei notò una ruga che non conosceva e la percorse per uscire di case, e dalla sua vita.
“Meglio un silenzio perso come un bambino in un ospedale, che questo tuo “ti amo” bisbigliato con voce sommessa e gli stessi occhi con cui per tre volte te ne sei andato. Adesso le tue rughe sono diventate le stesse di Sofia: nella valigia ho messo solo il vestito con cui ti ho dimenticato e la mia schiena rigida, come dicevi, ora è solo un parafulmine per piogge deboli.”
Non scrisse la data alla fine della lettera, come faceva lui.