Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2017 “Per amore” di Greta Rabitti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017

“Rallenta l’andatura, ragazzo, queste povere bestie ne hanno di contrade da percorrere” lo esortò Sir Umberto, portandosi al suo fianco.

Anselmo annuì, tirando un poco le briglie del cavallo.

La sua scarsa esperienza lo tradiva ancora.

Esattamente come al campo d’addestramento, quando il sole del pomeriggio fiaccava le membra e lui non aveva la forza necessaria a sopportare il peso dell’armatura.

“Avere timore della prima battaglia è cosa assai comune” gli disse l’anziano cavaliere, con voce bonaria “Ma nel momento in cui impugni la spada, niente e nessuno deve occupare i tuoi pensieri. Soltanto il nemico che hai di fronte”.

“Questo lo so. Me lo avete già ripetuto più volte”.

“La ripetizione stimola la memoria”.

Anselmo sorrise.

Sir Umberto gli aveva già ripetuto anche quello.

Sir Umberto che lo proteggeva come un padre.

Un uomo dal cuore nobile e dalla straordinaria saggezza, i cui preziosi consigli erano rinomati in tutto il regno.

Almeno quanto i titoli che aveva conseguito in battaglia.

Pensò alla buona Clotilde, costretta a vederlo ancora partire.

Pensò a lei e pensò a quei due bambini, che attendevano il suo ritorno.

Si chiese se Sir Umberto, così solido e ligio al dovere, sentisse mai nostalgia di loro.

Però non ebbe il coraggio di domandarglielo.

Un cielo plumbeo si stagliava all’orizzonte, preannunciando il baldanzoso avvicinarsi di una tempesta.

E una fitta cortina di nebbia circondava il sentiero, al punto che non era possibile intravederne la fine.

Le desolate terre del nord si facevano sempre più vicine.

Un crudele senso di vuoto dilagò nel petto del giovane cavaliere.

Ma poi si ricordò di essere un guerriero.

E un guerriero non poteva permettersi di piangere.

Allora chiuse gli occhi.

Fu soltanto un attimo.

Però, dentro di se, la vide.

Rivide una casa, lassù, sulla collina.

Gli ampi prati della sua fanciullezza.

Le sguardo gentile di una donna alla finestra.

Lo sguardo di sua madre.

E, per un momento, desiderò tornare da lei.

Rivide un grande scudo appeso alla parete.

Quello che, un giorno lontano, era appartenuto al suo povero padre.

Rivide i sogni di gloria di un bambino.

Il pane che troppo presto veniva a mancare e la minestra calda in inverno, quando il freddo gelava le ossa.

Rivide il timido raggio di luce che filtrava dalla vetrata della cattedrale, assumendo mille sfumature diverse.

E il modo in cui lui soleva incantarsi a guardarlo, sperando in qualcosa di grande.

Rivide le mura austere del castello e lo stendardo che svettava sulla torre, assicurandogli che nulla aveva da temere.

E poi gli zoccoli veloci del suo puledro galopparono fra i ricordi.

Rivide il manto lucente e la scura criniera.

Rivide le corse nella prateria e il sorriso sghembo di un amico.

Le sere stipati, uno a fianco dell’altro, sulle panche della taverna.

L’odore del vino e delle risate.

Rivide un cielo cosparso di stelle, che gli teneva compagnia, quando l’addestramento lo portava lontano.

La mano severa del suo comandante.

Il sudore e le ferite.

Quel bardo corpulento che cantava nella piazza, accarezzando le corde di un vecchio liuto.

Quanto ci si sentisse piccoli, attraversandola nella sua immensità.

Le campane che suonavano i rintocchi del mezzogiorno.

I banchi del mercato, straboccanti di novità.

La pioggia sferzante sul ponte levatoio.

Navi straniere che giungevano in porto, portando chissà quali tesori lontani.

Sir Umberto con la figlia sulle spalle.

Quella ragazzina dalle guance paffute che gli regalava collane di fiori.

Ricordò i bei giorni di festa, quando si faceva la giostra, nelle tenute del palazzo.

Ricordò il cuore in trepidazione, ogni volta che si trovava dinnanzi ad un nuovo avversario.

Le canzoni antiche e i trofei.

Una dolce figura, tanto a lungo cercata, in mezzo alla folla.

Anselmo rivide la fulgida chioma bionda.

Il portamento altero.

Occhi bellissimi e sfuggenti.

E poi un’ombra.

L’ombra crudele ed implacabile della guerra, che inarrestabile scendeva, fino a farle scomparire.

Fino a divorarle e a strapparle per sempre dalle sue mani, quelle immagini che non sarebbero tornate.

Fino a che non sarebbero rimasti che terra sterile e sangue.

E tutte le persone che lui, umile cavaliere, nel suo giovane cuore, aveva amato, tutto quello che aveva conosciuto …

La guerra avrebbe distrutto ogni cosa.

Ma forse Anselmo neanche avrebbe avuto il tempo di rendersene conto.

Il nemico avanzava inesorabile.

E forse lo avrebbe ucciso prima di domani.

Però si ricordò di essere un guerriero.

E un guerriero non poteva permettersi di piangere.

“Ti senti bene, ragazzo?” la voce di Sir Umberto lo fece tornare alla realtà.

“Sì” mentì “Sto davvero bene”.

La notte era fredda, all’accampamento.

Una notte senza stelle.

Anselmo sedeva alla luce fioca della sua tenda e pensava.

Pensava a se stesso e a quella paura disarmante che gli divorava il cuore, come un orrendo mostro.

Chissà se poteva ancora considerarsi un guerriero.

Sir Umberto gli aveva detto che era una reazione comune.

Ma Sir Umberto non esitava mai, di fronte a niente e a nessuno.

Forse Sir Umberto non sentiva la mancanza della buona Clotilde.

E neanche dei suoi bambini.

Anselmo, invece, voleva tornare a casa.

Voleva tornare da sua madre e assicurarle che tutto andava bene: non l’avrebbe più abbandonata.

Voleva cavalcare ancora, al fianco del suo amico, e rintanarsi a cantare nella taverna.

Voleva perdersi nella meraviglia, osservando il raggio di luce della cattedrale.

E voleva rivedere lei, guardarla negli occhi, un’ultima volta.

Dirle che l’amava, a dispetto delle tradizioni e di ogni rango sociale.

E che non aveva mai dimenticato quelle promesse appena sussurrate, una mattina come tante, dietro i banchi del mercato.

Il modo in cui si erano presi per mano, entrando di nascosto nella cattedrale.

Perché il raggio stava lì come sempre.

Però guardarlo in due era completamente diverso.

Ma, forse, era ormai tardi.

Tardi per ricordare quei tempi spensierati, quando la vita gli appariva ancora felice.

E forse era tardi anche per considerarsi un guerriero.

Un guerriero non ha esitazioni, né debolezze.

Però quella notte era diverso.

Quella notte un giovane cavaliere decideva di essere soltanto se stesso.

E di piangere in silenzio, nella luce fioca della sua tenda.

Il mattino seguente era sereno e sgombro di nuvole.

Ma nel cuore di Anselmo infuriava la tempesta.

Sir Umberto lo aveva svegliato presto, dicendogli che ormai il tempo dei pensieri era terminato.

Adesso bisognava imbracciare le armi e salire a cavallo.

Avevano camminato.

Così tanto che, a stento, i cavalli andavano ancora avanti.

E poi, ad un tratto, Anselmo li vide.

Fieri e terribili, in sella ai loro destrieri.

Erano comparsi all’orizzonte, i barbari del nord.

Avanzavano inesorabili, freddi come il ghiaccio che li aveva dati alla luce, lasciando dietro di loro nient’altro che distruzione.

“Ci siamo” gli sussurrò Sir Umberto, guardandolo di sottecchi.

Anselmo strinse le briglie vicino al petto.

Poteva sentire uno ad uno i battiti del proprio cuore.

Non era pronto.

Non lo sarebbe mai stato, adesso ne era sicuro.

Sentì la paura entrargli nelle vene, fino a gelargli il sangue.

Era solo questione di un attimo.

Di un soffio di vento, un battito di ciglia.

E dopo di lui non sarebbe rimasto più nulla.

Maledì il giorno in cui aveva deciso di diventare cavaliere …

In cui aveva pensato che quella vita fosse fatta per lui.

Maledì la guerra.

E il suo infausto destino.

Maledì se stesso per non essersene andato, quando ancora gli era possibile farlo.

Poi ripensò agli occhi di Madonna Violante.

Ai suoi occhi indomiti, sotto il raggio di luce della cattedrale.

E alle sue parole d’addio.

Alla confessione che gli aveva fatto con la voce che tremava appena, sfiorandosi il ventre.

E allora Anselmo capì.

Capì che era normale avere paura, poiché la guerra era quanto di più sbagliato potesse esistere.

Ma capì anche che Sir Umberto non aveva lasciato la sua casa per amore della armi, ma per amore di Clotilde e dei bambini.

Perché aveva qualcuno da proteggere.

E anche Anselmo ce l’aveva.

Avrebbe combattuto i barbari per amore.

Per amore di un passato che non doveva essere distrutto e di un futuro ancora tutto da scrivere.

Per amore di quella creatura che Madonna Violante portava in grembo e che non avrebbe dovuto conoscere nessuna forma d’odio o di violenza.

Avrebbe combattuto per garantire a suo figlio un futuro felice, un futuro in cui i barbari non sarebbero stati che un lontano ricordo.

Guardò il sole che splendeva alto, nel cielo.

Lo stesso sole che, un giorno, avrebbe vegliato su suo figlio, come ora vegliava su di lui.

Poi impugnò la spada, con tutto il coraggio che aveva in corpo.

E spronò avanti il cavallo, sentendo crescere dentro di se un ardore mai sperimentato prima.

Sentì che questa volta non avrebbe esitato, di fronte a niente e a nessuno.

Come faceva Sir Umberto.

Come faceva un guerriero.

E allora andò.

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