Premio Racconti nella Rete 2017 “La voce dei ricordi” di Cecilia Gambaro
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017Il ticchettio sommesso delle scarpe della donna rompeva il silenzio di una tranquilla giornata di maggio. Aveva il viso arrossato a causa della camminata veloce che aveva fatto verso la scuola elementare del paese in cui viveva.
Il nuovo insegnante della figlia l’aveva convocata in ufficio per chiederle il motivo per il quale si era dimenticata di andare a prendere la piccola. Le pareva di aver già sentito quella voce, ma poco importava.
Camminava in fretta, stringendo a sé il golfino nero che le era costato un occhio della testa, e si rimproverava per la pessima figura fatta.
Davanti al cancello chiuso si passò una mano tra i capelli neri per sistemarli prima di suonare il campanello. L’aprirono subito e la donna entrò, veloce, diretta verso la porta con la sicurezza che la caratterizzava. Prima che toccasse la maniglia, un paio di occhi castani che conosceva benissimo la stavano fissando con severità, senza dar segno di averla riconosciuta. “Le pare una cosa possibile un’ora e mezza di ritardo?” La donna deglutì sentendo quel tono accusatorio che mai, prima di quel momento aveva sentito. Non riusciva a parlare, si era bloccata. “Mi ha sentito? E’ qui con noi?” “Ssì, dov’è Annalisa?” “Ma dico, mi ha ascoltato?” “Certo e non vedo cosa dovrei risponderle. È stata una dimenticanza e non credo di dovermi giustificare con lei.” Rispose acida. Odiava essere messa sotto accusa, soprattutto da lui e le dava ancora più fastidio il fatto che non la riconoscesse.
“Non vuole venire a casa.” La donna strabuzzò gli occhi verdi e lo fissò. “Mi sta prendendo in giro? Mi consegni subito mia figlia altrimenti chiamo le autorità.” “Se la bimba manifesta questo disagio nel tornare a casa, sono obbligato a fare rapporto ai servizi sociali.” La donna era sempre più sconvolta e la rabbia le ribolliva nelle vene. “Ti è andato di volta il cervello, Lorenzo? Non ti azzardare a farlo!” L’uomo la fissò. Il modo in cui la donna aveva pronunciato il suo nome era inconfondibile. Non riusciva a crederci. Aveva i capelli più corti e ondulati, vestiti firmati e aveva una figlia. Quante cose erano cambiate in 20 anni. “Arabella?” Lei alzò gli occhi al cielo come faceva un tempo. “Chi vuoi che sia? Dammi la bambina, non ho tempo da perdere.” Lorenzo notò che i modi erano rimasti gli stessi. “Ti ripeto che non vuole venire a casa con te. Secondo il regolamento si deve indagare sulle cause.” “Non mi interessa un bel niente del regolamento, la bambina è mia e torna a casa con me. Faccio tardi al lavoro perciò, Lorenzo, chiamala.” “Non sono il ragazzo di venti anni fa, Arabella! Ora le cose sono diverse.” La vide ondeggiare sui tacchi e le sfiorò un braccio per sorreggerla, ma lei si scostò. Si fissarono negli occhi e Lorenzo vide lo smarrimento della donna che aveva aperto leggermente le labbra. “Sono passati venti anni? Mi sembra ieri…” “Già…” Arabella si passò una mano tra i capelli con fare nervoso e si allontanò da lui. “Possiamo risolvere questa spiacevole questione fuori di qua? Non…mi sento molto bene. Possiamo andare nel bar qui di fronte?” Lorenzo la fissò, era pallida, più del solito e, nonostante gli anni, dimostrava ancora un senso di protezione nei suoi confronti. Annuì e sparì a prendere sua figlia. Arabella si arrabbiò con se stessa per essersi fatta riconoscere. Doveva ammettere che era migliorato, da ragazzino un po’ in carne era diventato un uomo alto, con un fisico palestrato e i capelli più lunghi di quello che ricordava. Quando tornò,tenendo la bimba per mano, Annalisa la guardò torva e non la salutò. “Ehi, tesoro, come stai? Come mai non vuoi tornare a casa?” le chiese la madre inginocchiandosi davanti a lei. Avevano gli stessi occhi e il colore dei capelli era il medesimo. “Non voglio stare con la baby-sitter. Voglio te.” “Vieni qua”, e la strinse forte tra le braccia. La bimba le si avvicinò come trascinata da una calamita; era raro che la mamma la abbracciasse in pubblico. Arabella la sollevò, le scostò una ciocca di capelli e le diede un bacio sulla fronte. “Allora, che ne dici se la mamma chiede un pomeriggio libero?” Annalisa sorrise mostrando la boccuccia sdentata e iniziò a darle tanti bacini sulle guance. Lorenzo osservava la scena senza intervenire, un po’ scostato. Guardava Arabella sorridere felice, con quella sua fossetta sulla guancia destra. Tutti quelli a cui donava il suo affetto si sentivano soddisfatti, euforici e lui lo sapeva, lo aveva provato.
“Mangiamo un gelato, mammina?” Arabella guardò Lorenzo. “A te va bene?” “Certo.” “Viene anche il maestro, mamma?” chiese la bambina con gli occhi verdi spalancati. “Sì, ci conosciamo dalla scuola…”
Uscirono dall’edificio. Arabella appoggiò la bimba per terra e la prese per mano. Quando i tre arrivarono alla gelateria ed ebbero ordinato, Annalisa corse a giocare verso l’altalena, lasciando soli gli adulti. “Dove lavori?” “In uno studio legale, sono una dei soci.” “Hai realizzato il tuo sogno!” “No, non ancora.” Lorenzo sapeva perfettamente che avrebbe voluto lavorare a New York, ma doveva accontentarsi di Venezia dato che aveva una bimba piccola. “Come mai hai deciso di insegnare? Hai sempre odiato la scuola” gli fece notare Arabella, mentre mangiava il suo gelato. “Grazie a te. Eri così intelligente e riuscivi a spiegare tutto quello che non capivo con una tale facilità…avevo la speranza che se ci fossimo incontrati ti avrei conquistata per sempre.” La donna spalancò gli occhi, non si aspettava una risposta del genere. Odiava i sentimentalismi, li aveva sempre detestati. “Io…Mi spiace se ti ho fatto soffrire.” “Non devi. Anche i momenti in cui mi odiavi sono stati belli.” “Lorenzo…non ti odiavo, ma quando mi si affeziona qualcuno…non riesco…” Gli porse il gelato, le si era chiuso lo stomaco ripensando al passato. “Arabella, quel giorno in cui sono entrato in classe, temuto da tutti, gli unici occhi che mi hanno guardato come se non fossi diverso, erano i tuoi. Non mi temevi, nonostante quello che si raccontava in giro, non avevi paura di me. Ed è da quel preciso istante che mi sei piaciuta.” La donna sorrise, con gli occhi persi nel passato. “Me lo ricordo, sembravi arrabbiato con il mondo, e tutti ti guardavano come se fossi un orso.” Lorenzo rise piano e si sedette più vicino a lei. La donna se ne accorse e si scostò un po’, non le era mai piaciuto troppo il contatto. “Ti ricordi quando hai chiesto alla prof di matematica se poteva metterti vicino a me? Mi sono sentito un dio. Ero riuscito a conquistarti mi dicevo, forse potevo addirittura sperare di mettermi con te, ero al settimo cielo. Quando poi sono venuto a casa tua per la prima volta e tu mi hai sorriso, con quella tua fossetta, avrei fatto qualsiasi cosa per te, persino uccidere qualcuno. Mi parlavi, mi ascoltavi, mi guardavi strano quando dicevo cose che sapevi benissimo che non pensavo. E tutto questo solo per fare colpo su di te. Penso sia stato il periodo più bello della mia vita.” Arabella non fiatava, guardava il cielo, persa in riflessioni su quel passato così lontano, persa nel racconto di Lorenzo che, nonostante tutto, non la odiava.
“A cosa pensi, Arabella?” Lei ci mise un po’ a rispondere. “A quella volta in cui mi hai detto che dovevi giocare a pallavolo e che se vincevi era merito mio. Che avresti pensato a me e di sicuro avresti vinto.” “Oh sì, era vero… peccato però che abbiamo perso… Ma pensavo davvero a te, mi davi la carica; mi ripetevo che non dovevo deluderti, che dovevo impegnarmi così da piacerti.” Lorenzo finì il gelato di Arabella e la vide agitarsi sulla panchina, chiaramente a disagio. “Peccato che poi le cose siano cambiate” mormorò piano e Lorenzo non riuscì a spostare lo sguardo dal suo profilo. “Sai, anche quando mi reputavo il tuo ragazzo, ti sentivo sempre sfuggente, ma non mi ha mai dato fastidio. Anzi, ero felice che passassi un po’ di tempo con me, che lo usassi per parlare con me e rimanere in braccio a me, anche se, in fondo, penso di aver sempre saputo che mi saresti sfuggita e infatti…” “Lorenzo, mi spiace se ti ho ferito. Quando qualcuno entra troppo nei miei spazi, automaticamente lo allontano, a costo di sembrare una strega. Per quanto ci provi, non ci riesco, sono un’anima solitaria.” Arabella non lo guardava, non voleva incrociare i suoi occhi castani. Non voleva ammettere che non sarebbe mai riuscita a legarsi a nessuno, non voleva che lui vedesse che cosa lei provasse, dato che era sempre stata un libro aperto. “Arabella, non ti sto giudicando. Volevo solo che sapessi che non ti odio e non potrò mai farlo. Anche quando mi hai allontanato, non volevi più stare vicino a me e mi sopportavi. So che nonostante ti prendessero in giro, mi hai sempre difeso. Ed è per questo che ti ho sempre am…adorato. E un pezzetto del mio cuore apparterrà sempre a te.” Arabella tremava. Aveva gli occhi lucidi e non riusciva a guardarlo. Si domandava come, dopo averlo trattato così male, continuasse a parlarle. Quando si decise a girarsi, vide che sorrideva malinconico. “Sei sempre stato troppo buono con me, Lolo. Dovresti odiarmi, ma non lo fai. Penso di non meritare quel posto nel tuo cuore, ma sono felice di averlo. Ti voglio bene.” E con questo si alzò, gli diede un bacio sulla guancia e una folata di vento le mosse i capelli. Lorenzo respirò il suo profumo, nello stesso tempo familiare e forestiero.
Annalisa arrivò trotterellando e prese la mano della madre. “Anch’io Arabella, molto. Non ti rivedrò più vero?” le chiese mentre si allontanava. E lei, contrariamente alle sue aspettative, si girò, gli sorrise, gli fece l’occhiolino e continuò a camminare.
E Lorenzo capì che quello era un addio e, questa volta, per sempre.