Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2017 “Una vigilia di Natale ” di Valentina Demuro

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017

Il cielo già nero delle sette di sera si adorna di calde luci che decorano festosamente le strade. Fili delicati e sospesi creano motivi morbidi che ridisegnano la città quasi deserta, immersa in una statica bellezza. È vivificata, solo a tratti, dal passaggio di qualche automobile ritardataria, dal vociare lontano delle case o dal sommesso incocciare di piatti, un vago tintinnare di brindisi. Con proverbiale effetto incantevole, d’improvviso, comincia a fioccare un timido nevischio, come zucchero lieve.

Vuota, silenziosa e sontuosa, Bologna assume un aspetto da fiaba.

Da un vicolo stretto e acciottolato riecheggia il graduale avvicendarsi di passi concitati. Temendo il ghiacciarsi delle strade e l’ipotesi di una conseguente rovinosa caduta, Carla affretta i passi del ritorno per raggiungere i marciapiedi porticati e assicurarsi, almeno, un percorso asciutto.
Puntuale, come lo scorso anno (e quello prima ancora), il telefono inizia a vibrare nel fondo della tasca del suo cappotto, intonando una suoneria.

– Pronto?

– Pronto? Carla? Ciao tesoro!

– Ciao mamma, tutto bene? Siete già a casa della zia?

– Sì, sì, siamo appena arrivati. Come al solito tuo padre ha fatto storie per far presto, ha messo fretta a tutti ed è finita che siamo entrati in macchina correndo e fuggendo. A metà strada ci siamo accorti di aver dimenticato il vino e la Stella di Natale. Così siamo dovuti tornare indietro. Sempre così con quell’uomo! Per fortuna, alla fine, non abbiamo tardato troppo. Sai che vuol dire? Vuol dire che non eravamo in ritardo nemmeno all’inizio! E che tuo padre dice solo chiacchiere. Bah. Sempre con il nervoso addosso.

– Dai mamma, lo sai che è fatto così, lascialo dire e stai tranquilla. Poi tra poco è Natale, fai un fioretto e porta pazienza.

– Aaah… e che pazienza. Va bene, dai. Hai ragione. Tu invece dove sei? Sei tornata a casa?

– No mamma, ho lasciato da poco l’ufficio e sto tornando ora. Abbiamo avuto un bel daffare con i documenti. Il prossimo anno si preannuncia impegnativo. Mi sa che lavorerò anche a Capodanno.

– Mi pare veramente esagerato! Ma che persone sono?

– Che vuoi farci, mamma. Alla fine è un bel lavoro, dai. Non mi pesa stare in ufficio. Sicuramente faremo festa in sala riunioni tutti insieme, vedrai. Uscirà una bottiglia di spumante all’improvviso.

– Va be’, ma non mangerai niente?

– Ma ti pare, mamma? Per come è fatta Agnese, troveremo di sicuro una teglia di qualcosa nel frigo bar.

– Bah, sarà. Per me non è normale. E stasera invece? Che mangi? Chi ha preparato? Aspetta, non mi ricordo dove devi andare…

– Rimaniamo a casa, mamma. Io e Erica abbiamo preparato qualcosa ieri sera. Avrà sicuramente iniziato a scaldare tutto. Poi considera che anche gli invitati porteranno qualcosa.

– Ah ok. Mangia eh, che tu ti dimentichi e non mangi mai niente. Lavori soltanto! Poi mi mandi le foto?

– Mamma, ti prego. Ho trentadue anni, lavoro e vivo da sola, secondo te posso dimenticarmi di mangiare? So badare a me stessa.

– Lo so, lo so. Sei in gamba. Però mi preoccupo lo stesso. Mi dai un bacino?

Bacio. Bacio ricambiato. Sorrisi silenziosi da entrambe le parti.

– Sei contenta ora?

– Sì.

– Dai, dimmi chi c’è stasera a casa della zia.

– Mah, noi soliti. Zia Chiara e Paolo, Pina, zia Mara. Credo venga anche Licia con la sua amica.

– Non è un’amica mamma. Stanno insieme da mesi. È la sua fidanzata.

– Eh sì, lo so. Ma si può dire fidanzata anche se sono  due ragazze?

– Ahahahahah! Certo che si può dire!

– Va be’ ma io che ne so! Comunque, devono aprire un negozio insieme, lo sai? Di vestiti, mi sa. Licia deve disegnare i modelli. Speriamo bene. E se si sposano devi venire al matrimonio però. Non puoi saltarlo come hai fatto con Andrea e Maria. Lei è al sesto mese ora e tu non li ha visti per niente. Non mi importa niente del lavoro e del tuo capo. Se vuoi ci parlo io.

– E che cosa dovresti dirgli?

– Che deve starsi a casa con la famiglia pure lui, qualche volta. Eh! Che è importante e che ti vogliamo bene. E vogliamo che tu stia con noi. Non ci vediamo da due anni…

Il dialogo si ferma, per un attimo, in un momento di commozione.

– Mamma, lo so. Però ne vale la pena. Pensa a quanti ragazzi non possono lavorare o non riescono a mantenersi. I primi anni sono i più duri in un’azienda, te l’ho detto. Non posso prendermi ferie, devo dare il massimo. Così, più in là, potrò prendermi più libertà e venire giù qualche volta. Abbiamo già fatto questo discorso.

– Ah… che pazienza. Per me non è giusto.

– Forse non lo è. Ma per ora è così che deve andare.

– E va bene… Almeno ti sei realizzata, dopo tutti quegli anni di studio. Cerca di non stare sola però.

– Non sono mai sola, lo sai. E stasera faccio una festa insieme ad Antonio e ai miei amici nella mia bella casettina. Mica me la passo male.

– Sarà… nessuno torna a casa, eh? Ma tu vedi un po’. Il lavoro non era così prima. Senti, Antonio come sta? Salutamelo e digli che prima o poi ci dobbiamo conoscere.

– Sta bene mamma. Te lo saluto stasera ma te lo presenterò quando sarà il momento. Non vogliamo correre.

Madò come siete complicati.

– Be’ mamma, io ti lascio adesso. Ci sentiamo  con calma per gli auguri. Mi raccomando, di’ a papà di non bere tanto.

– Glielo dico sempre ma non mi ascolta mai!

– Tu provaci lo stesso. Un bacione, mamma. Divertitevi.

– Un bacione anche a te, da parte di tutti.

– Ricambia. Ciao Mamma.

– Hei, Carla?

– Dimmi, mamma.

– Ti voglio bene.

– Anche io ti voglio tanto bene.

Sorrisi da entrambe le parti. Una stretta al cuore, in eco, da un cuore all’altro.

– Ciao, amore.

– Ciao.

Carla rinfila il telefono in tasca stringendolo forte senza lasciarlo. La stretta è un artiglio, forte quanto quello che comprime il petto, indurito e gonfio di aria per evitare di far uscire, insieme al fiato, un fiotto di lacrime calde, rimaste a stento scintillanti negli occhi.

Affretta il passo. Ripercorre con la mente quelle che saranno le fasi della festa della sua famiglia, le stesse di sempre, da lei vissute nell’infanzia, nell’adolescenza nella primissima età adulta. Fino a quando ha smesso di scendere dai suoi per le feste.

Affretta il passo. Immagina la mamma e la timidezza graziosa del suo sorridere un po’ impacciato davanti agli altri, nonostante siano gli stessi amici e parenti di una vita. Immagina gli occhi del padre che la guarda e si innamora sempre della sua tenerezza innocente, della bambina dolce che è sempre stata, nonostante la forza, nonostante i dolori.

Sa che su suo padre sorriderà e si sentirà grato e che sul volto ci saranno nuove rughe e una barba più bianca.

Sa che il fratello e la sua compagna porteranno i dolci e che la sorella ne ruberà qualcuno prima del tempo, dividendolo con la cugina, ridendo di nascosto.

Affretta il passo. Loro, gli zii, i cugini, tutti si siederanno al tavolo ed inizieranno a giocare a carte. Come seguendo un rito sacro, racconteranno gli stessi fatti, faranno gli stessi gesti, diranno le stesse battute. Rideranno lo stesso, felici di essere nuovamente insieme e riconoscendosi tra loro.

Ricorderanno i nonni che non ci sono più ma che hanno lasciato loro la tradizione, la cura e l’amore.

E pensa a se stessa che, invece, ha infranto questo rituale.

Ma ormai è a casa e si prepara ad esserne accolta.

Nell’atrio del palazzo riecheggiano voci di festa. Infila la chiave nella toppa, spinge la porta.

Non saprebbe dire precisamente quando il meccanismo si sia innescato. Il desiderio di eccellere, però, è stato covato per anni divenendo, alla soglia del trentatreesimo anno di vita, ormai indomabile.

Pensa a come sia sempre così difficile prendere la strada del ritorno nonostante lo si agogni continuamente, sfiorando, in alcuni momenti, la disperazione.

Si è soli nel mondo e soli si combatte” aveva detto qualcuno, forse un amico.  Ritornare alle cure della famiglia, all’abbraccio della terra calda e del mare pacificatore dei pensieri più torvi, sarebbe stata la scelta giusta. Ma  inconciliabile con quel male interiore che identifica i lottatori solitari.

Sarebbe riduttivo ricondurre tutto al concetto all’orgoglio. No. Questo male, questo angoscioso sentimento, va scandagliato nel profondo. Ha una natura complessa.

Si tratta di equilibrio.

Sapere di essere riusciti a bilanciare il proprio sforzo e il risultato di esso. Se non avendo una risposta uguale e contraria in positivo, almeno, il germoglio della risposta. Una piccola sottile radice che genera la speranza di un futuro albero. La consapevolezza di aver veicolato le proprie energie verso la giusta meta.

Ma si tratta anche di appartenenza.

Sapere di lottare per qualcosa a cui si appartiene. Scovare la propria natura in quel nugolo assurdo di intrecci emozionali, pensieri e inclinazioni di cui è composto l’essere umano e ritrovarla all’esterno, avvicinandosi, in concreto, alla forma che la materia richiede. Avere la sensazione di esercitare il giusto ruolo nella vita. Ma, prima di ogni altra cosa, sapere di appartenersi.

Per questo motivo, si tratta anche di identità.

Aver modo di essere chi si è, sapersi completi per darsi un nome e in esso riconoscersi.

“Sono Carla”, pensa mentre spinge la porta verso l’interno dell’appartamento. Entra.

“Sono Carla” dice ad alta voce, facendosi coraggio, una volta ancora.

Polly, la gattina della coinquilina, le si avvicina festosa e si struscia contro le gambe, in saluto.

Lievi fusa riempiono il corridoio. Carla poggia la borsa sul pavimento, appende il cappotto all’attaccapanni e va in bagno. Polly la segue felice.

Accende la luce e girandosi verso il lavandino incontra la propria immagine allo specchio. Un’altra Carla con i capelli spettinati dal vento, il viso stanco e con indosso il grembiule sporco del “Vegan Cafè” la guarda dritta negli occhi. Apre la bocca e sentenzia: “Tu non sei nessuno”.

Per Carla ogni vigilia di Natale, da tre anni a questa parte, comincia allo stesso modo: con un lungo pianto aggrappata al lavandino.

I lottatori solitari si fanno coraggio da soli, cercano di splendere e nascondere le proprie ombre senza raccontarle a nessuno. Ma più intenso è il fuoco, più l’ombra alle spalle è nitida, dinamica e vorace. Come potrebbe mai tornare a casa con un tale insuccesso gravante sulle spalle? Cosa dovrebbe raccontare ai propri genitori? La scelta di preservarli dal dispiacere inventando una bolla di confortevole falsità era stata una strada obbligata.

Il lavoro nobilita l’uomo”, “sei brava perché ti impegni lo stesso”. Ed è così, per carità. Le sarebbe impossibile andare avanti pensando il contrario. Ma è anche vero che non può fare a meno di piangere la propria misera realtà intellettuale e di affondare ogni sera nelle coperte del letto, tra cocci di sogni, ceneri di speranze, ricordi di fatiche e umiliazioni.

Non riuscire ad essere ciò che dentro si è, è la più tragica condanna per l’anima.

Sei un’idiota – inizia il dialogo con lo specchio – un’inutile idiota! Hai perso solo tempo! Ma dovevo tentare, come avrei potuto vivere senza fare un tentativo? Sì mai hai fallito, troppe volte. Non c’è un posto per te. Non c’è un posto per me, è vero. Che cosa devo fare? Non puoi fare nulla, ti devi arrendere e accettare il fallimento. Non mi hanno mai scelta, non ho passato il concorso. Che fallimento. Persino quella stupida che conoscevi ha trovato un lavoro migliore del tuo, quella che non sapeva la differenza tra 1 e un ½  . A quella è bastato sbattere le ciglia finte e darla per una raccomandazione. È vero. È vero. Forse avresti dovuto comprare delle ciglia finte e prometterla anche tu. Non ce la farei mai. Avresti potuto tentare. Non ce la farei mai!!! Avresti dovuto tentare! Quel professore ci aveva provato, avresti dovuto tentare. Non ce la farei mai… Non ce la farai mai a spuntarla in questo mondo. Non è giusto, lo so che sono brava. Lo so. Ma saresti dovuta nascere con un altro carattere, con altri parenti, con altre stelle. Smettila di lottare e accetta la tua miserabile condizione di mediocrità. Dovrei, è vero, ma sarebbe una delusione per tutti. Accettalo, sei solo orgogliosa. Come faccio a rinunciare per sempre a quella che sono? Ciò che sei, non serve a nessuno. Accettalo. Dio, aiutami! Accettalo e vivi serena. Non potrò mai tornare a casa. Non potrai mai.

 

Nella piccola casa non si sente un fiato. Carla inizia il suo personale rituale: fa un lunga doccia calda, cercando di rilassarsi e di calmare il pianto una volta per tutte, lavando via dal viso anche il sale delle lacrime; cena con un panino, dà da mangiare a Polly, lava le posate; si infila nel letto con la gatta e inizia a leggere un libro aspettando la mezzanotte.

Non vuole che qualcosa, in qualche modo, le ricordi, anche per un solo istante, che giorno sia. Ha bisogno di anestetizzare la realtà, di non lasciarsi andare alla mortificazione e di cullarsi in una realtà mistificata, almeno fino all’ultima prova, quella della mezzanotte.

In prossimità delle 24.00, afferra il telefono e scrive un messaggio di auguri per qualche amico e rimane in attesa. Il display si illumina e appare la scritta “Mamma”. Cerca di trattenersi, ma nemmeno quest’anno riesce a bloccare il pianto che scoppia subito in singhiozzi. Inevitabilmente, rifiuta questa seconda chiamata di sua madre e le scrive «non chiamare, c’è troppa confusione».

Pochi secondi dopo arriva la risposta «Va bene, ci sentiamo domani allora. Auguri da parte di tutti! Ti vogliamo bene».

«Anche io, mamma. Auguri anche a te e agli altri» – ci pensa un po’ – «Magari l’anno prossimo riesco a venire».

Scrive, anche quest’anno, con una speranza dura a morirle in cuore, nonostante tutto.

 

Valentina Demuro

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4 commenti »

  1. Bello, commovente, ma questa è la realtà di oggi.

  2. Ciao Giorgio, è vero, questo che ho raccontato è un meccanismo mentale che scatta in molti, seppur con conseguenze differenti tra loro.
    Grazie per le tue parole.

  3. Emozionante questo gioco di parole non dette, di segreti taciuti per amore, di nostalgia malcelata.

  4. Ciao Daniela, grazie per queste parole delicate.

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