Premio Racconti nella Rete 2017 “Il viaggio” di Maria Gabriella Mariani
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017“Ogni opera è un viaggio, un viaggio da condividere con chiunque prenda posto con te su un treno immaginario. Molti di loro scenderanno prima di te, altri insieme a te; la più gran parte continuerà il suo viaggio senza di te…” Questo l’incipit del professor Todeo, prima di illustrare la sua opera ad un pubblico insolitamente numeroso. Ma le tappe di quel particolare viaggio che si accingeva ad illustrare le conosceva solo lui: il suo linguaggio era rivolto a pochi iniziati, fini conoscitori di una lingua la cui grammatica è l’armonia, e la sintassi è l’estetica. Il professor Todeo era un compositore, con una gran voglia di comunicare, ma con la consapevolezza che al massimo poteva rappresentare ciò che scriveva e che pensava in quella sua testa grigia, il viso illuminato da occhi sognanti, il sorriso sempre discreto. Finita la sua lectio se ne tornava a casa in treno, quello sì reale, lungo e noioso. Fuori dal finestrino una visuale monotona, quasi surreale, stringata, sotto un grigiore uniforme dilatato dalla velocità. Alla stazione di Bologna salì un tale, con l’auricolare alle orecchie, sguardo perso nel vuoto. Manco si accorse della presenza di Todeo e ovviamente non salutò. Il professore, dal canto suo, lo squadrava invece con interesse, tanto che ad un certo punto il giovane ne intercettò lo sguardo e lo apostrofò inarcando le sopracciglia scure.
“Oh, mi scusi!” Todeo si affrettò a rispondere ad una domanda che di fatto non gli era stata rivolta. “E’ che ero solo qui dentro e ora mi sono perso, così, su qualcosa di umano.”
Il giovane sorrise divertito: “Cos’è, un poeta?”
“Quasi. Scrivo musica.”
“Musica!” Accompagnò l’esclamazione con un’inflessione del collo verso l’alto a cui corrispose un moto contrario delle palpebre.
“E lei?”
“Io faccio l’infermiere.”
“Oh, ma che meraviglia!”
“Davvero?” Si voltò verso il suo interlocutore, fintamente compiaciuto.
“Ma certo. Ho sempre sognato di fare qualcosa di utile nella vita, sa?”
“E perché non l’ha fatto?”
“Eh!… Perché alla fine ho pensato che l’unica cosa che potessi fare fosse quello che so fare. Ma me ne dispiace.”
“Strano modo di ragionare il suo, comunque. E poi per quel che mi riguarda io ho scelto di fare questo mestiere perché c’erano possibilità di lavoro. E così ho fatto la triennale e ora mi ritrovo sbattuto in questa landa, lontano da casa.”
“E non ha possibilità di tornare?”
“Mah… Per ora sto qua e mi devo considerare perfino fortunato.”
La conversazione sembrava finita lì. Il professore riprese il suo muto colloquio col finestrino.
“Che genere di musica?” A sorpresa, dopo un tempo che sembrava infinito.
Todeo staccò immediatamente i suoi occhi estatici dal vetro: “Musica classica. Ho scritto da poco una composizione per archi e l’ho presentata ieri sera. Sembra qualcosa di astratto, ma in effetti non lo è…”
“Io non conosco il genere. E sono anche stonato.” Tagliò corto il giovane.
“Ma non ci siamo nemmeno presentati. Io mi chiamo Ernesto Todeo.”
“Io sono Aldo.”
“Dunque lei sta tornando a casa dal lavoro?”
“Sì. Sono un pendolare. Quaranta minuti, tra andata e ritorno. Con l’abbonamento spendo 20 euro al mese. Poi c’è la mensa, o i buoni da spendere per la spesa, ma non ho famiglia e quindi preferisco la mensa.”
“Vive con qualcuno?”
“Ho avuto una, ma è finita: mancanza di prospettive, secondo lei.”
“No, intendevo in casa.”
Aldo lo guardò con aria di sufficienza. “Veramente il fitto me lo posso permettere.”
“Prospettive?”
“Cioè?”
“Ha qualche progetto per il futuro?”
“Senta alla mia età è già tanto che ho un presente. Quelli della sua generazione ce l’hanno levato; figuriamoci poi il futuro!” Nemmeno gli rivolgeva più lo sguardo.
“Beh, forse sta esagerando, o comunque generalizzando.”
“Davvero? Noi non abbiamo una vita, anche quando lavoriamo ci serve solo per sopravvivere; non abbiamo pensione, non abbiamo carriera. Io volevo stare a casa mia, al mio paese e me ne sono dovuto andare. Ora guadagno, faccio i miei turni, sto in mezzo a gente che sta male, che muore, che si lamenta. E’ un inferno. Quando ero a casa mia vedevo la natura e mi sembrava che quel posto fosse il mio futuro. Lei è fortunato a vivere nel suo mondo: nessuno glielo inquina.”
Il professor Todeo distolse il suo sguardo dal suo interlocutore, ma nemmeno lo rivolse verso il finestrino. Gli occhi si perdevano in quello spazio angusto davanti a sé, sospesi nel vuoto, o in una dimensione tutta sua. Passò un tempo infinito. Aldo aveva rinfilato gli auricolari, Todeo sempre con il solito sorriso discreto e lo sguardo fermo davanti a sé.
“Tra un po’ devo scendere.”
“Bene. Buon ritorno a casa, allora!”
“Wow!”
A Modena salirono in molti. Un gruppetto si diresse nella carrozza del professor Todeo: due ragazze si disposero verso il sedile attiguo al suo; smanettavano freneticamente sui loro telefonini. Dopo più di mezz’ora Todeo si rese conto che si conoscevano, forse erano anche amiche.
“Mi dà una mano col bagaglio?”
“Oh, ma certo!” Todeo si alzò immediatamente e sistemò il bagaglio della signora. Lei gli si sedette di fronte, sorriso schietto, la faccia aperta, un raggio di sole in quell’inverno freddo.
“Lo sa che una volta, tanti anni fa, mi rubarono la valigia di notte?” Esordì.
“Davvero? In treno?”
“Sì. E la mattina mentre… insomma, quando andai in bagno vidi i miei maglioni nel cestello sotto il lavandino.” Rise divertita. “All’inizio pensai che ero ancora in dormiveglia. Poi capii che quella lì era roba mia. Insomma: mi avevano preso tutto e avevano lasciato quello che non serviva nel bagno. All’epoca usavano le bombolette. Oggi ci sono altri problemi. Le stazioni sono pericolose, gente a terra, una puzza, un vero letamaio! E poi, da quel che si sente…”
“Viaggia spesso, signora?”
“Oh, ma non ci siamo presentati: io mi chiamo Elvira.”
“Molto piacere, io sono Ernesto.”
“E… insomma: ho una figlia a Modena. Sposata, con bambini.”
“E’ una bella esperienza!”
“Caro signore, si sposano, se ne vanno, ma sempre hanno bisogno di noi. E noi in più ci dobbiamo spostare, dobbiamo lasciare tutto e correre. Ora da questo, ora da quello! Ma come si fa, diversamente?”
“Intendevo quella di essere nonna.”
“Ah! Due diavoletti. Il secondo proprio non ci voleva.”
“Capisco.”
Elvira rimase interdetta, con la sua espressione solare che non le tramontava mai dal viso. “E lei?”
“Io non sono sposato.” Anche Todeo, fedele al suo sorriso discreto. “E dunque non sono nonno.”
“E sì. Viaggia spesso?”
“Sì, per lavoro.”
“Beato lei! Che lavoro fa?”
“Sono musicista.”
“E sì che vive nella musica. Sa, quando ero ragazza avevo una bella voce, timbro metallico mi dissero, e cantai al precetto pasquale la serenata di…”
“Schubert?”
“Sì! Sapesse com’ero emozionata. Ma la maestra mi guardò negli occhi e mi sembrò che mi dirigesse. Fu proprio bello. Tanto tempo fa!”
“E poi?”
Lo sguardo sognante di Elvira ebbe una brusca inversione di marcia. “Poi cosa?”
“Sì, intendo, cosa fece?”
“Ah. Beh, poi mi sono sposata.”
“Non canta più?”
“Eccome! Quando tento di addormentare quei marmocchi. Ma quelli me la fanno, sa? Si sono imparati tutte le parole delle mie canzoni e così loro avanti ed io indietro.” Si ricompose nella sua espressione enfatica.
Rimasero in silenzio per un po’, le due ragazze di fianco si erano addormentate da un pezzo, mentre i loro cellulari continuavano ad emettere suoni indistinti, di tanto in tanto.
“Sempre con quegli arnesi infernali in mano.” Esordì Elvira, seguendo con lo sguardo quello di Todeo. “Ma è vero che fanno male?”
“Così dicono, signora. Ma la nostra generazione è al sicuro. E poi noi ne facciamo un uso, come dire, moderato.”
“No, lo chiedevo perché il più grande me ne ha chiesto uno per Natale e non so se è il caso…”
“Sua figlia cosa ne pensa?”
“I genitori di oggi, mio caro, sono diversi da quelli di una volta. Non vogliono problemi. Ballano al ritmo dei figli e loro a quello dei genitori. E tutti quanti si salvano come possono. Dicono che così bisogna fare, che c’è il rischio del bullismo, dei suicidi, ora c’è quest’altra moda dei russi…”
“Quale moda?”
“Non ne sa niente?” Si raddrizzò impettita sul suo sedile accomodandosi la maglia: “Pare che attraverso i cellulari ci sono persone che condizionano i ragazzi. Pensi che alcuni sono arrivati a tagliuzzarsi le braccia, e forse alcuni si sono anche suicidati. Come una specie di comando a distanza!!!”
“Incredibile!”
“Eppure è così. Lei è fortunato a non avere di questi problemi. E chi può dare un consiglio in questi casi? Oggi è difficile fare i genitori, mi creda.”
“Oh, ne convengo.”
“Ai nostri tempi i nostri genitori credevano in certi valori: nel merito, nel sacrificio, nella coscienza. Di tutto questo non posso nemmeno parlarne con i miei figli, che mi dicono taci, vecchia ruga…”
“Magari non della coscienza, ma almeno della consapevolezza…”
“Cosa, scusi?”
“No: parlavo tra me.”
Elvira dopo poco prese dalla borsa un cartoccio. Prima di addentare il suo panino furtivamente se lo scostò leggermente dalla bocca. Ernesto le sorrise ed alzò lievemente la mano in segno di diniego. Dopo aver finito si sistemò alla meglio e si addormentò con quel suo sguardo radioso anche sotto le palpebre. Quasi tutti in quello scompartimento si erano taciuti. Il tipo accanto ad una delle ragazze, tutto preso dal suo tablet, continuava ad intrattenere una conversazione intermittente, ininterrotta. Ovviamente Todeo non mostrava di voltarsi dalla sua parte per non essere indiscreto, ma riusciva a vederne l’immagine riflessa attraverso il finestrino. Sarà un uomo d’affari, pensò tra sé, senza riuscire a capire un’acca di quel fiume di parole, come un canto sommesso, senza accompagnamento.
Ad un tratto il treno ebbe un sobbalzo. Ernesto si accorse che il suo uomo d’affari non c’era più; forse aveva cambiato scompartimento. Elvira continuava a dormire, stanca, beata, e le ragazze si raggomitolarono imbronciate. Gli sembrò di conoscerli tutti, di essere parte delle loro vite e quasi custode del loro sonno. Aveva freddo, ma non si mosse per prendere il cappotto, per paura di svegliare Elvira. Quella quiete notturna lo ristorava; di fuori un’oscurità accattivante. Gli sembrava che quella carrozza si dirigesse lungo una dimensione a lui solo nota. Quel poco che sapeva, o che percepiva delle loro vite, gli bastava, magari per trarne qualche spunto in una delle sue astratte composizioni.
La mattina seguente, il treno arrivò a Lecce. Ognuno di quei passeggeri aveva un suo da fare. Ad Ernesto sembrò di non riconoscerli più. Si accomiatò con Elvira, uno sguardo alle ragazze che voleva sembrare un saluto, ma che loro non colsero e quasi se ne sentirono importunate.
Mentre si dirigeva verso gli autobus vide il letamaio come lo definiva Elvira, con la sua gente a terra, in piedi, a crocchi; lingue straniere, per lui astratte, eppure tra loro così ben comprensibili.
“Dammi qualcosa.”
Ernesto non aveva spiccioli; si frugò nelle tasche; niente. La ragazza indicò con lo sguardo la ventiquattrore che aveva in mano.
“Non c’è niente, mia cara.” Sembrava non credergli. “C’è solo la mia musica. Mi dispiace!”
Maria Gabriella, storie di spicciola umanità, persone che si intrecciano e creano delle complicità fintanto che ci devi stare a contatto. Efficace narrazione.