Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti per Corti 2017 “Ferdinando” di Michele Pipia

Categoria: Premio Racconti per Corti 2017

Ferdinando salì le scale della locanda e chiese che gli venisse assegnata la camera più economica che c’era, si scusò con l’inserviente, ma non aveva messo in conto la fermata imprevista dovuta al maltempo e non aveva con sé molto denaro, era quindi necessario per lui risparmiare il più possibile per essere sicuro di poter pagare il conto.

Gli venne assegnata la prima camera all’inizio del corridoio, era piccola ed aveva un letto ad una piazza con una finestra che si affacciava sulla stalla da cui talvolta provenivano odori poco gradevoli. Ferdinando ringraziò dicendo che il viaggio gli aveva procurato nausea e quindi non sarebbe sceso a cenare, si augurò di svegliarsi meglio ed in tal caso avrebbe fatto colazione. L’inserviente augurò la buona notte chiudendo dietro di sé la porta della camera.

Appena rimasto solo l’uomo si tolse la giacca, poi le scarpe e per finire i pantaloni. Sciolse i nodi dello spago che teneva chiusa la valigia a causa dell’inaffidabilità dei fermagli e prese una spazzola con la quale cercò di togliere dagli abiti la polvere del viaggio. Prese con una mano la giacca e con l’altra cominciò a spazzolare l’esterno, quando toccò spazzolare l’interno notò l’etichetta interna che riportava il nome del miglior sarto di Caltanissetta che diversi anni prima gli aveva confezionato anche tanti altri vestiti.

Ferdinando era figlio di Don Francesco La Lumia, uno dei più ricchi proprietari terrieri della città che possedeva anche la solfatara di S. Caterina e uno splendido palazzo nobiliare portati in eredità dalla moglie Antonietta, figlia unica del compianto Barone di Mussomeli.

Quando Ferdinando era giovane la sua vita era facile e spensierata, le sue amicizie erano tutte altolocate e conduceva la sua esistenza tra feste e passeggiate a cavallo, per non contare le bisbocce nei migliori ristoranti della città insieme ai suoi compagni di bagordi.

Un giorno imprecisato si svegliò di soprassalto verso le nove del mattino nonostante egli avesse fatto molto tardi la sera prima; quando cominciò a realizzare cosa stesse accadendo sentì sua madre che urlava in una stanza non lontana, si alzò e andò ad origliare. La madre era stata educata in maniera molto rigida e, a sua memoria, non era mai andata in escandescenza:

«Francesco come hai potuto fare, come? L’anno scorso hai perso tanti soldi al gioco da dover vendere i feudi di Donna Giacoma e di Cangialoso; pazienza, erano feudi piccoli e poco redditizi ma ora mi vieni a dire che ti sei giocato anche i feudi di Poira e di Balatazza che sono grandi e coltivati a vigna, tanto redditizi che gli introiti basterebbero a sfamare centinaia di famiglie di povera gente. Come faremo ora, come?.»

«Antonietta hai ragione, sono un depravato, mi ha preso il demone del gioco e più perdevo più alzavo la posta per cercare di rifarmi. Perdonami, sono un imbecille.»

«E la miniera di zolfo? Ti sei giocato anche quella? Dimmi la verità tanto faccio presto a conoscerla.»

«No, quella no, però dovrò ipotecarla per far fronte ad altri debiti; ho fatto i conti, con la rendita della solfatara sono in grado di restituire le rate dell’ipoteca e di farci condurre una vita dignitosa anche se dovremo fare dei risparmi sul tenore di vita.»

A queste parole Antonietta fu presa da un moto d’ira talmente grande da prendere un prezioso vaso di maiolica e scagliarlo per terra mandandolo in frantumi, uscì dalla camera maledicendo il giorno in cui il padre aveva concesso la sua mano a quel debosciato.

Ferdinando ascoltò in silenzio sempre più preoccupato, aveva capito che la sua vita sarebbe cambiata forse per sempre, realizzò che il padre aveva contratto debiti di gioco talmente grandi da prevedere un futuro difficile abituati com’erano ai lussi più sfrenati.

Ritornò in camera sua a pensare alla festa che voleva organizzare poche settimane dopo e che sicuramente non avrebbe più potuto tenere, ai suoi abiti di ottimo taglio che non avrebbe più potuto far confezionare ed al suo splendido purosangue che ormai non era più neanche suo visto che faceva parte integrale del feudo di Balatazza.

Ma la cosa che più gli pesava era che molto probabilmente, una volta sparsasi la voce in città, egli non avrebbe più fatto parte del mondo dorato cui era appartenuto fino alle nove di quella mattina; le ragazze di buona famiglia non avrebbero più accettato il suo corteggiamento e lui non avrebbe più potuto mantenere i ritmi ed il tenore di vita dispendioso dei suoi vecchi amici che da quel giorno si sarebbero disinteressati a lui.

Così accadde. Ferdinando si ritrovò solo anche perché prima di quella mattina si era sempre comportato in maniera altezzosa e sprezzante con chi non apparteneva al suo alto livello sociale e non riuscì più ad avere amici di nessun tipo; la vita per lui cominciò a scorrere noiosa e decise di aiutare il padre nella gestione della solfatara che effettivamente rendeva quanto bastava per pagare la quota mensile dell’ipoteca e, contemporaneamente, mantenere lo splendido palazzo barocco in cui abitavano.

Don Francesco La Lumia non era solo un depravato quasi rovinato dal vizio del gioco d’azzardo ma era anche sfortunato, pochi anni dopo il prezzo dello zolfo cominciò a scendere sempre più velocemente fino a perdere la metà del suo valore iniziale, la rivoluzione industriale di quei primi anni del ‘900 cominciava a mietere le sue vittime anche in Sicilia.

I nuovi macchinari per l’estrazione e la raffinazione del minerale erano ormai diffusi, essi garantivano una produzione più alta e più economica  causando un grande abbassamento del prezzo. La solfatara di Don Francesco era diventata scarsamente redditizia ma lui non aveva i capitali per acquistare le apparecchiature per ammodernare la miniera, cercò di reperirli proponendo un’ipoteca sul palazzo ma ormai nessuna banca era disposta ad accordargli fiducia. Cominciò a non pagare la vecchia ipoteca sperando in un miracolo ma il miracolo non avvenne e quando arrivò il decreto ingiuntivo del Banco di Sicilia andò nel suo studio e si sparò un colpo di pistola. Don Francesco era anche un pusillanime assolutamente incapace di affrontare la dura realtà della vita.

Antonietta cercò aiuto nei due fratelli minori del defunto marito ma essi erano ancora corrosi dal livore per essere stati quasi esclusi dall’eredità paterna che favorì il figlio maggiore, come spesso si usava per non frammentare l’eredità. Ferdinando e la madre non si presentarono neanche di fronte al Tribunale dove si sarebbe dovuta tenere la causa intentata dalla Banca che dopo pochi mesi venne in possesso della miniera rivenduta lucrosamente dopo non molto tempo.

Ormai non avevano alternative, non riuscivano più a vivere a Caltanissetta dato che l’ambiente che avevano frequentato fino ad allora non li accettava più e le persone di ceto inferiore li respingevano a causa della boria che avevano mostrato quando erano ricchi.

Antonietta decise di giocare l’ultima carta a sua disposizione, scrisse a Giacomo, fratello minore del marito, che viveva a Palermo del suo lavoro di medico e che era rimasto affezionato; gli sottopose la loro situazione e manifestò la sua intenzione di vendere il palazzo con quasi tutto l’arredo per andare a vivere in quella grande città nella speranza di rifarsi una vita. Lo pregò quindi di cercargli un appartamento di media grandezza in modo da porre in atto il prima possibile questo suo desiderio.

Giacomo restò impressionato dal dolore che emanava la lettera della cognata, proprio lei che era sempre stata arrogante ora manifestava sentimenti di umiltà. Diede seguito alla sua richiesta e dopo alcuni mesi Ferdinando e sua madre si trasferirono a Palermo con alcuni mobili e qualche suppellettile, giusto quanto bastava per arredare il nuovo appartamento, conservando il resto del denaro ottenuto dalla vendita del palazzo, il che avrebbe garantito loro una rendita dignitosa per molti anni e venire.

Giacomo fece ancora di più, trovò un impiego in banca al nipote e questo fece tirare un respiro di sollievo a sua madre; Ferdinando si applicò con serietà al suo lavoro e cominciò a fare amicizie tra i suoi colleghi e, col tempo, il giro di amicizie si allargò. Non andava al ristorante ma si accontentava delle trattorie e quando veniva la bella stagione lui e i suoi amici si riunivano al bar vicino al Monte di Pietà per passare la serata in allegria..

Tutto questo durò finché un sabato sera alla fine di una festicciola a casa di un nuovo amico rimasero in pochi ed il padrone di casa propose di giocare a poker; Ferdinando era riluttante ad accettare ma non se la sentì di rifiutare ed accondiscese. Quella sera vinse ben trecento lire quasi dispiacendosi di averle tolte a degli amici, per cui in altre occasioni diede a loro la possibilità di rifarsi. Vinceva spesso e cominciò a pensare di essere bravo e fortunato, prese a frequentare i circoli della città dove sapeva che si giocava a carte, inizialmente solo per guardare finché non cominciò a sedersi con degli sconosciuti ed il demone del gioco si impadronì di lui.

Ma in quei circoli iniziò a perdere e settimana dopo settimana i suoi debiti aumentavano, firmava dei “pagherò” sui quali gli altri giocatori facevano molto affidamento visto che Ferdinando aveva un lavoro in banca, ma col tempo i debiti si accumularono e, per non far sapere niente alla madre, prese ad effettuare dei prelievi in banca alterando la contabilità, cosa che gli veniva facile dato che era lui a gestirla.

Un giorno arrivò un’ispezione della Direzione Generale dove si erano accorti che c’era qualcosa che non andava nei conti di quella filiale, tutti i documenti furono esaminati, controllati e raffrontati finché non scoprirono quale era il problema: Ferdinando si era appropriato di più di ottantamila lire. Fu messo alle strette, il suo licenziamento era scontato ma gli venne anche detto che se non avesse coperto l’ammanco l’avrebbero denunciato alla magistratura; Ferdinando si sentì morire al pensiero di ciò che gli avrebbe detto sua madre una volta messa necessariamente a conoscenza della situazione. L’unico modo che aveva per restituire il denaro era quello di prenderlo da ciò che era rimasto dalla vendita del palazzo di famiglia di Caltanissetta; andò a raccontare tutto alla sua madre la quale inizialmente ascoltò in silenzio con gli occhi sbarrati e poi svenne; nonostante Maria, la cameriera, le facesse odorare la bottiglia di aceto ella rinvenne dopo più di mezz’ora.

Antonietta si riprese e cominciò a guardare il soffitto anonimo della stanza in cui si trovava pensando agli affreschi del palazzo di famiglia perso per sempre anni prima, pensò alle grandi feste a cui partecipava e le raffrontò con la vita quasi da reclusa che faceva da quando si erano trasferiti a Palermo; una sola gioia essa aveva, che suo figlio conducesse una vita serena e dignitosa lontano dai tavoli da gioco. Lo svanire di questo unico desiderio l’aveva distrutta nell’arco di pochi minuti, lo sguardo rimase vitreo e l’espressione del suo volto denotava un dolore immenso, dolore che pochi mesi dopo la portò a morire di crepacuore.

Il debito con la banca fu pagato e Ferdinando venne licenziato in tronco, Palermo era una grande città ma la notizia girò velocemente e non riuscì a trovare lavoro, i suoi amici gli volsero le spalle perché non volevano frequentare un uomo che agli occhi di tutti era considerato un ladro. Lo zio dovette intervenire nuovamente e gli trovò lavoro come commesso in un negozio di mobili di proprietà di un suo paziente che aveva curato anni prima salvandogli la vita, lo pregò però di non fargli mai maneggiare la cassa.

Ferdinando restò solo nell’appartamento e decise di venderlo per comprarne uno ben più piccolo. Le sue intenzioni iniziali erano buone ed inizialmente pensò di conservare il denaro rimastogli dalla permuta per permettersi un’esistenza un po’ più decente per diversi anni, mantenendo la speranza di rifarsi una nuova verginità morale. Ma dopo pochi mesi il sangue infetto che gli aveva trasmesso il padre ebbe la meglio sulla parte migliore di sé e riprese a giocare dilapidando tutto in poche settimane. Ormai della vita ricca e sfarzosa di una volta gli restavano solamente i ricordi e gli abiti di ottimo taglio ormai consunti.

Quella notte nella locanda Ferdinando non chiuse quasi occhio e spesso le lacrime gli rigarono il volto nel ricordare ciò che avevano fatto lui e il padre. Al primo chiarore dell’alba si alzò e si vestì dopo essersi sciacquato il viso. Richiuse la valigia di cartone stando attento ad avvolgerla bene con lo spago, in essa c’era tutto ciò che gli restava oltre ai brutti ricordi. Prese il poco denaro che aveva in tasca e lo contò domandandosi se sarebbe stato sufficiente a pagare anche la colazione.

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11 commenti »

  1. Un Racconto che ha il sapore di antico con il retrogusto di modernità sempre attuale…

  2. Complimenti :)!

  3. Fantastico! Davvero bello.

  4. complimenti, una parabola discendente raccontata con nostalgico disincanto…

  5. Davvero un bellissimo racconto quello di Michele Pipia. Ci rievoca le storie di quelle nobili, grandi, famiglie siciliane poi tristemente decadute. In questa c’è tutta l’amarezza della sorte di ritrovarsi, per un tragico gioco del destino, a dover essere preda dello stesso vizio, ad avere lo stesso “sangue infetto” del padre che, inesorabilmente, porta il protagonista a perdere anche quello che la madre era riuscita a salvare. Michele Pipia è riuscito benissimo a descrivere l’inettitudine e la fragilità degli aristocratici di un tempo. A lui i miei complimenti!!

  6. Davvero un bel racconto quello di Michele Pipia. Ci rievoca le storie di quelle nobili, grandi, famiglie siciliane poi tristemente decadute. In questa c’è tutta l’amarezza della sorte di ritrovarsi, per un tragico gioco del destino, a dover essere preda dello stesso vizio, ad avere lo stesso “sangue infetto” del padre che, inesorabilmente, porta il protagonista a perdere anche quello che la madre era riuscita a salvare. Michele Pipia è riuscito benissimo a descrivere l’inettitudine e la fragilità degli aristocratici di un tempo. A lui i miei complimenti.

  7. Davvero un bellisimo racconto! Rievoca le storie di quelle nobili, grandi, famiglie siciliane poi tristemente decadute.Michele Pipia è riuscito benissimo a descrivere l’inettitudine e la fragilità degli aristocratici di un tempo. A lui i miei complimenti.

  8. Il breve racconto di una storia che ha fatto epoca e che è stata raccontata tante volte, ripetuta e ripetuta di generazione in generazione e che l’Autore del racconto ha voluto ambientare in un’età della Sicilia che ci richiama a un mondo che non c’è più e a una età del decadimento in cui il gioco della vita si fa gioco dell’uomo.
    Mi è piaciuto ancora una volta leggere questo Ferdinando, un uomo che nulla può contro le insidie del mondo.

  9. Che tristezza queste storie di decadenza delle famiglie nobiliari siciliane. Che tristezza questo vizio o malattia del gioco. Ho sentito raccontare storie reali simili nella provincia di Catania dove vivo. Accenni anche alle tristemente famose solfatare che hanno arricchito quelle famiglie. Mi è piaciuto il tuo racconto in cui come già detto in altri commenti si mescolano antico e modernità. Il tuo protagonista nonostante tu genera compassione …

  10. Il racconto mette bene in risalto il tramonto di un’epoca e di una classe sociale , puntualizzando
    la figura di Don Francesco . Nonostante il vano tentativo della protagonista femminile di salvare
    la situazione il vizio del gioco si tramanda al figlio Ferdinando e non lascia alternative.
    Letto con piacere, complimenti .

  11. Bel racconto! Complimenti Michele.

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