Premio Racconti nella Rete 2010 “La lingua della tolleranza” di Cecilia Piras
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010Il mio viaggio era lunghissimo,si prospettava pieno di incognite,non sapevo quando avrebbe avuto fine,nè cosa cercavo di preciso.
Allora decisi di fermarmi per un po’ a riposare,ma anche a riflettere sul significato del mio viaggio e forse perchè ero già fisicamente e moralmente stanco,avevo bisogno di attingere ancora alla mia riserva di pensieri. E fermai le mie corse,il mio camminare affannoso presso una comunità di anacoreti. Erano un gruppo che aveva scelto la separazione dal mondo e la meditazione,ma,a volte,accoglieva qualche viandante. Quello era il luogo più adatto per rinfrancarsi sia nel corpo che nello spirito,e lì decisi di fermarmi.
Non ricordo dove si trovasse quel luogo e neanche so se,cercandolo,potrò mai più ritrovarlo,perchè con tanto peregrinare e dopo tanti anni,i ricordi si confondono.Ma mi è rimasto dentro quel senso di pace e un particolare episodio che diede un grande significato a tutto il mio viaggio.Le persone che mi ospitavano erano cortesi e discrete,non mi domandarono mai nè da dove venivo,nè dove ero diretto.La vita della comunità era scandita da meditazione,silenzio e passeggiate all’aria pura.Ogni pomeriggio usavo passare per il loro piccolo cimitero che era affiancato da una fila di tigli,vicino ad un prato.Per arrivare al prato oltrepassavo il cimitero e,un pomeriggio,proprio lì qualcosa mi colpì.Il cimitero era molto piccolo,tanto che le tombe si potevano contare una per una,avevo persino imparato tutti i nomi a memoria.E vidi qualcosa che non avevo mai notato prima di quel giorno:una tomba diversa dalle altre.Mi sentii tremare di dolore,un dolore inconsueto,eppure non era la prima volta che passavo di lì,vi avevo fatto l’abitudine,come se la morte fosse una cosa normale,quasi quanto vivere e respirare.
Ma questa tomba mi ispirava un moto di dolore profondo,era diversa,come una terra di nessuno,l’unica senza nome nè foto,nè effigie.Era molto piccola,dipinta di bianco e ricoperta di fiori di ogni genere,bellissimi e rari.Mi ritrovai ad esclamare:’chi era? E perchè improvvisamente tremo di dolore?Perchè questi pochi centimetri di terra non hanno nome e sembrano sospesi nel nulla?’ Scostai i fiori,e lessi una scritta:”QUI GIACE IL BIMBO SENZA PATRIA E SENZA NOME,CHE NON AVEVA ANCORA APERTO GLI OCCHI,NON VIDE MAI LA LUCE,SOLO LA TERRA E IL MARE SI APRIRONO AL PRIMO ABBRACCIO E LA TERRA SARA’ LA SUA UNICA CULLA”.Uscii subito di corsa dal cancello di ferro in lacrime,e andai a chiedere spiegazioni a uno di loro:’Il piccolo’,spiegò ‘era figlio di persone sconosciute,forse di una religione o di un’etnia non tollerata.Probabilmente fu buttato in mare,ma non sappiamo di preciso perchè morì , fu abbandonato qui vicino e trovato da noi.Nessuno voleva dargli sepoltura,per via della paura assurda della diversità.Si dice anche che fosse un figlio della colpa,e chi lo trovò temeva chissà quali conseguenze,aveva solo l’assurda paura di contaminarsi.La nostra pietà non poteva consigliarci diversamente da ciò che facemmo:lo seppellimmo,e,per rispettare la sua differenza,gli abbiamo riservato un posto senza immagine.Non ha ancora un nome,non sappiamo tutta la sua storia,sappiamo solo che era diverso,e che fu abbandonato anche nella morte.Forse un giorno riusciremo a dargli un nome,ma intanto i fiori più curati e rari adornano la sua piccola “culla” e, ogni giorno versiamo tante lacrime per lui,ed è come spegnere così la crudeltà del pregiudizio.’
E’ passato tanto tempo da quel giorno,ma io continuo a sentire i sussurri della mia mente,la vita spezzata di un bimbo ignoto,mi sento ancora tremare di dolore al pensiero di quella tomba-culla,avvolta solo dalla compassione e dai fiori.Questo è il ricordo che mi rimane di quella comunità,anche se non ricordo il luogo,la loro lingua,la loro religione.Ma mi rimane impresso tutto ciò che mi dissero,la loro tristezza nei confronti di chi non ama,e la profonda pietà per chi non è stato amato.Mi sembrava che la loro lingua fosse antichissima,ma forse era la lingua della tolleranza.
Come potrebbero,altrimenti,degli anacoreti,dall’alto della loro solitudine e del loro candore,avere pietà di un figlio di nessuno,o di chissà quale peccato?Un bimbo che non chiese di nascere e non scelse di morire,un bimbo scomodo,una creatura che venne buttata via come spazzatura.Il segnale di quella comunità era forte:era il prevalere della tolleranza sul perbenismo e sul pregiudizio. Quelle persone infransero persino la loro campana di vetro e il loro silenzio, per esprimersi nella lingua di chi mette da parte l’ascettismo,per andare incontro agli sfortunati sospesi in terre di nessuno. Dopotutto anch’io,uno sconosciuto vagabondo,non fui cacciato via da loro come randagio pericoloso,ma anzi fui accolto con affetto.
Ripeto,non ricordo che lingua fosse la loro,così priva di codici consueti ma carica di significato,che vibrava nella profondità di quel silenzio,e lo spezzava con una musica incisiva.E’ avvilente sforzarsi inutilmente di recuperare quell’idioma,ma basta solo che rinasca il sentimento di ribellione all’ingiustizia,l’empatia che divampa negli animi per ricordarsi ogni vocabolo,ogni accento,ogni modo di costruire le frasi.Ma probabilmente ognuno di noi la parla inconsciamente,senza riconoscerla,anche se non sa codificarne le regole.E’ questo forse il senso:è una lingua antica quanto il mondo,ma non morta.E’ impossibile certo catalogarla,ma la si parla spesso,con l’ingenuità di un bambino che impara molto bene una lingua,senza per questo capire il meccanismo che lo spingono a parlarla.
Ricordo sempre quanto mi commosse quella lingua,che non è la lingua del disprezzo mascherato da finta compassione,che esprime autorevolezza senza presunzione,sentimento che non è sentimentalismo.Si può ricordare e ritrovarsi a parlarla improvvisamente,perchè esiste già dentro ognuno di noi.
Bello, ma mi sembra più una riflessione molto profonda sull’amore, che una narrazione.