Premio Racconti nella Rete 2017 “Politica e magia” di Loreta Cerasi e Mario Mandrelli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017
Il braciere di bronzo riscaldava appena la stanza della Regia che trasudava freddo e umidità dai blocchi di tufo delle pareti. Tanaquil, l’etrusca, moglie del re di Roma Lucio Tarquinio, protese le mani diafane verso i carboni ardenti, articolandole a lungo; poi le distese, le avvicinò al fuoco e notò divertita il trasparire rossastro del sangue e delle ossa sottili. Come sempre le accadeva quando fissava la fiamma, anche quella sera la regina sentì la mente scindersi: una parte analizzava ogni particolare trasmessole dagli occhi e dagli altri sensi, un’altra contemplava la vampa, liberandosi d’ogni pensiero. Lentamente accoglieva in sé le fiammelle bluastre che danzavano sui carboni, le seguiva nei loro guizzi, se ne nutriva e le interrogava attendendo una risposta: cercava un segno, un monito, un indizio che le consentisse di esplorare il futuro.
Sospirando, pensò che la sua mente non era più ricettiva come un tempo e non riusciva ad accantonare, a rimuovere l’immagine che le trasmettevano gli occhi per librarsi negli spazi senza tempo della divinazione. Ora vedeva solo tendini, ossa e un po’ di pelle percorsa dal sangue. “Mani di vecchia”, si disse.
Quando era giovane, per quanto fosse fulgida la fiamma, le sue mani non avevano quella trasparenza. Adesso, l’incombente senilità rendeva la sua pelle più diafana, assottigliandola, e di pari passo acuiva la sua sensitività – quella più misteriosa, nella quale tante volte erano risuonati gli echi di visioni sciamaniche – rendendola più lucida, più facilmente permeabile agli eventi futuri e pronta a interpretare le miserie e le vanità del presente. Peccato che le occorresse più tempo per astrarsi dalle forme concrete della realtà circostante! Continuò a fissare il fuoco e accarezzò distrattamente una delle tre sfingi di bronzo che stringevano negli artigli il piatto del braciere corinzio.
Tanaquil non amava quella casa, ma il braciere le era caro. Dono di nozze del suocero, il nobile greco Demarato, le ricordava la bella residenza di Tarquinia, dove era entrata da sposa e vissuta col marito Arunte prima di stabilirsi a Roma, in quel triste edificio più volte incendiato e ricostruito che i Romani chiamavano pomposamente Domus Regia.
Uno schiamazzo improvviso interruppe i suoi pensieri; Tanaquil s’irrigidì. Il vocìo della folla all’esterno la richiamò alla realtà; distinse ripetute acclamazioni al Rex e al Magister, ed ebbe subito la certezza, dal tenore concitato delle voci, che anche quella giornata si era conclusa con un nulla di fatto.
La disputa che opponeva da più giorni il Re, suo marito, al Senato di quella strana città, le comportava il fastidio di trattenersi temporaneamente negli angusti locali della Regia, adibiti a residenza privata del sovrano. Lei sentiva il dovere di sostenere il marito nelle vicende politiche, ma ora temeva che, non risolvendosi la diatriba, rischiasse di rimanere a lungo in quella casa inospitale, privandosi degli agi della sua residenza personale sul Gianicolo.
Tanaquil si era fatta costruire la sua dimora ‘alla greca’, con il gran megaron nel punto esatto in cui, tanti anni prima, aveva convinto a entrare in Roma il suo sposo Arunte, che i Romani chiamavano ora Lucio Tarquinio, il quinto re di Roma.
I ricordi le affollarono la mente, ma scrollò le spalle e tese l’orecchio al rumore dei passi che rimbombavano nell’adiacente salone trapezoidale. Ne dedusse, dal vigore e dalla velocità, che di ritorno non era il Re, ma il giovane Magister. Un sorriso le illuminò il volto ancora bello.
La porta si aprì di colpo – ah! quel giovane non aveva mai imparato che si deve bussare prima di entrare in un ambiente privato! – e Tanaquil volse le spalle al braciere tendendo le braccia accoglienti verso Servio Tullio.
Come sempre, sentì il cuore riempirsi di affetto e d’orgoglio solo al vederlo: il giovane, figlio del Re e di una schiava, era suo, più suo che della madre, quell’odiata Ocrisia che lo aveva generato fra le doglie. Appena nato il bimbo, mentre faceva avvelenare la puerpera ancora affranta dal parto, Tanaquil ne aveva plasmato il destino, chiamando il sovrano e tutta la corte ad ammirarlo mentre dormiva nella culla, accanto al focolare sacro della Regia. La regina aveva fatto in modo che intorno alla testa dell’infante si sprigionasse una corona di fiamme, e aveva fermato gli astanti atterriti che le volevano spegnere. Con voce terribile aveva ingiunto di attendere che il neonato si svegliasse e, quando il bimbo aveva aperto gli occhi, le fiamme – realtà o suggestione che fossero – si erano spente di colpo. Allora Tanaquil, assumendo la veste profetica che le era propria, aveva predetto il ‘Regno’ per quell’infante. Così, per mezzo del vaticinio, si era impossessata del frutto vivente del tradimento coniugale, aveva punito il consorte, anteponendo a quelli legittimi il figlio di una schiava e, infine – particolare irrilevante – aveva rimosso qualunque sospetto che ad avvelenare l’amante del re fosse stata lei, la regina offesa, che invece ne adottava e ne esaltava il figlio.
Medea non avrebbe saputo fare di meglio!
“Madre!”, esclamò affettuosamente il giovane Tullio, omettendo ogni altro saluto. “Ancora una giornata persa in Senato. Non si è concluso nulla! Tarquinio non riesce a far approvare la sua proposta di raddoppiare il numero delle Centurie”.
“L’avevo capito dal tumulto della folla. Raccontami”.
“Il re ha fatto leva, ancora una volta, sulla necessità di duplicare il totale dei cavalieri per far fronte ai Sabini, pronti ad attraversare l’Aniene; ma i Senatori gli hanno risposto con decisione che il numero delle Centurie è stato fissato da Romolo stesso, per ispirazione degli Dei. Se il primo re ha stabilito che devono essere tre, tre devono restare”.
“Però, si può cambiare la Costituzione…” suggerì Tanaquil.
“Sì, è vero, ma non si può farlo su quel punto senza prendere gli auspici”.
“E ti meravigli?”, Tanaquil reagì con voce dura. “Voi due, tuo padre in testa, avete voluto tenere la seduta di fronte a tutto il popolo, all’aperto, sui gradini del Comizio… Pretendevi forse che i Senatori o Tarquinio, in queste condizioni, sbandierassero a tutti la verità?” La voce della regina era salita di tono. “Avere tre nuove Centurie significa per il sovrano poter disporre di tre Comizi Centuriati in più, vale a dire – parliamoci chiaro – che il re può collocare nei nuovi Comizi alcune centinaia di quei cittadini arricchiti dai commerci (e dalle rapine ai danni dei popoli vicini), insediandoli nella classe dei ‘suoi’ clienti”.
“Lo so, madre, sono quelli che si fanno chiamare pomposamente “cavalieri” solo perché armano un cavallo in caso di guerra”.
“Appunto. E nemmeno potevate rimarcare di fronte alla folla che il Senato difende gli interessi dei grandi proprietari terrieri e sostiene quella sostanziale diarchia – Senatus e Rex – con cui si regge questa città”.
“Tu hai ragione. Ma la guerra? Perché neppure quest’argomento fa presa sui Senatori?”
“Perché hanno capito che l’andamento della guerra in corso con i Sabini è solo un pretesto per modificare la Costituzione a favore del Re. E questo non sarà mai approvato!” Tanaquil rise beffarda senza attendere risposta.
Tullio ebbe anch’egli un sorriso nervoso che gli scavò rughe sottili sul giovane volto.
“Lo so, lo so”, sbuffò. “So tutto. Resta che queste discussioni sono interminabili e snervanti; la riunione è finita soltanto perché il giorno moriva e dopo il tramonto non è più lecito deliberare. Tutti hanno parlato così a lungo che ancora non ho capito se è stato il Senato o il Re a procrastinare la seduta fino al calar del sole, in modo che non si giungesse a una conclusione. Ma ora la plebe è sovreccitata e domani si ricomincerà daccapo in un’atmosfera densa di tensione”.
“Figlio mio, né il Re né il Senato volevano giungere alla deliberazione. Il Re avrebbe perso e poi sarebbe entrato in conflitto con i cavalieri e con la plebe cui ha fatto troppe promesse. Il Senato non vuole correre il rischio di sommosse e, soprattutto, non vuole inimicarsi il Re, perché si aspetta larghe concessioni di terre di là dall’Aniene, quando questa guerra sarà finita. In politica è sempre così: finché non si trova un compromesso, si tirano le cose per le lunghe”.
“Capisco… ma, ormai, non c’è più spazio per compromessi”.
“Perché dici questo? Cos’è accaduto?”
“Proprio al termine della seduta, dopo che il Senato aveva approvato una mozione con la quale si stabiliva il carattere religioso di questa modifica alla Costituzione, il vecchio Atto Navio…”
“Ancora lui! Andiamo bene… Ma, continua, figlio mio”.
Tullio guardò perplesso la matrigna, si sedette davanti al fuoco e proseguì nel racconto.
“Atto Navio, dicevo, a quel punto ha lasciato il suo seggio, si è buttato con un gesto teatrale la toga sulla testa, è salito sul podio del Comitium ed ha aperto le braccia, volgendo gli occhi in alto e invocando gli Dei. Poi ha delimitato la parte destra e quella sinistra del cielo e ha preso gli auspici”.
“Da quale segno?”
“Da un volo di cornacchie che, effettivamente, hanno attraversato la parte sinistra, sono tornate indietro, e hanno volato a lungo in tondo con alte strida. Il responso è stato questo: <<Gli Dei non vogliono che la costituzione di Romolo sia modificata e, quindi, le Centurie devono restare soltanto tre.>>”
“Ineccepibile e scaltro!”, disse Tanaquil fra sé e sé; poi proseguì ad alta voce: “Il vecchio Navio è sempre all’altezza della sua fama”.
“Lo conosci così bene?”, domandò stupito Tullio.
“Oh! Se lo conosco! Quando ero giovane e mi divertivo a profetizzare scrutando l’acqua della sorgente calda di Saturnia, Navio veniva a curarsi i reumatismi in quella fonte, e lì ci siamo scambiati diversi segreti. Un giorno arrivò tuo padre: aveva uno squarcio infertogli da un cinghiale alla coscia destra, proprio vicino all’inguine. Non conosceva le proprietà cicatrizzanti di quell’acqua miracolosa: fui io a pulirgli la ferita, a cucirgliela, a cospargerla di ragnatele macerate in un decotto d’alghe sorgive, a farlo guarire e… a farlo innamorare”.
“Non sapevo questa storia”, disse Tullio interessato. “Chi era mio padre, allora?”
“Si chiamava Arunte e pretendeva di farsi chiamare Lucumone – i Romani lo hanno storpiato in ‘Lucio’ -, ma i nobili Etruschi, quasi tutti miei parenti, lo disprezzavano per la sua paternità greca. Lui aveva bisogno di una presenza forte al suo fianco: una moglie aristocratica ed etrusca”. Tanaquil sorrise al figlio. “Quando calava la sera, io e Navio parlavamo a lungo di politica e fu lui stesso a dirmi delle immense ricchezze e della pari ambizione di Arunte. Alla morte di tuo nonno Demarato, tuo padre s’impossessò dell’intero patrimonio familiare, adducendo il pretesto che il suo unico fratello era nato postumo. Il bello fu che riuscì a convincere il giovane erede che era giusto così!”
“Fin da allora era un abile politico”, commentò Tullio con fierezza.
“Era ricchissimo, ambizioso e impudente. Sia come sia, fummo noi due, io e Navio, a persuaderlo che i nobili etruschi non lo avrebbero mai accolto fra loro, e fu Atto che gli descrisse questa città di confine, come un posto dove si poteva emergere e affermarsi. Roma era governata dal re Anco della gens Marcia; era vecchio, bisognoso di denaro, e tuo padre aveva più pecunia di quanta potesse spendere… In breve, fu lui, l’Augure, a denominarlo Lucio Tarquinio e a benedire le nostre nozze spezzando una torta di farro”..
“Questa non la sapevo! E poi?”
“Atto ci condusse a Roma e persuase Anco Marzio che Tarquinio avrebbe portato ricchezza e commerci nella città. Il resto della storia la conosci. Si può dire – ma nessuno dei due lo ammetterà mai – che Tarquinio deve il regno ad Atto Navio. Tu stesso gli devi qualcosa, se è vero che proprio lui indusse i figli di Anco Marcio – quei due incapaci! – a rinunciare al trono, convincendoli che la vita campestre è migliore del regno!”
“Capisco”, disse Tullio e guardò la madre con rispetto. Quella donna straordinaria non solo vaticinava il futuro e compiva magie, ma era anche padrona del passato e dei suoi segreti.
“Dunque”, proseguì Tullio dopo un attimo di silenzio, abbandonandosi sulla panca. “Ti stavo dicendo che Atto Navio ha preso gli auspici con quel bel risultato. Nel frattempo, il sole è calato, e la plebe ha preso a rumoreggiare accusando apertamente l’Augure e tutto il Senato di aver fatto ricorso a un volgare trucco”.
“So bene che la plebe, per quanto superstiziosa, non si fida troppo dei veggenti”, sorrise divertita Tanaquil.
Tullio, slacciandosi i calzari e allungando le gambe verso il tripode, proseguì: “Lo stesso Re, per non esser da meno, ha cominciato a deridere Navio e a contestarne l’interpretazione”.
“Ha fatto male”, lo interruppe la madre. “Non si oltraggiano gli àuguri davanti alla plebe!”
“Hai ragione. Tarquinio, però, è da scusare perché era esausto. Quando il sole è scomparso, la seduta è stata sospesa, ma non sono mancate risse e insulti ai Senatori. Il Rex è stato riaccompagnato alla Regia da una folla di cavalieri che lo incitano a un colpo di stato contro il Senato: come puoi sentire, li sta ancora arringando. Vedi bene che non c’è più niente da fare. Se Tarquinio accetta il responso di Navio, non può contestarlo seriamente senza ledere la fiducia negli auspici, sarà costretto a ritirare la sua proposta di raddoppio delle Centurie. In questo modo deluderà i cavalieri e sarà abbandonato dai plebei. A quel punto, il vero ed unico re di Roma sarà il Senato. Se, invece, il Re si metterà alla testa di plebe e cavalieri, sarà costretto ad attaccare il Senato e a iniziare una guerra civile. Non vedo altre soluzioni possibili”.
Tullio ritirò le gambe arrossate dal fuoco, appoggiò i gomiti sulle ginocchia, il volto sui pugni chiusi e scosse il capo guardando scoraggiato per terra.
Tanaquil gli si avvicinò e, accarezzandogli i folti capelli neri (perché mai non aveva ereditato dal padre quel colore biondo-oro che distingueva Tarquinio fra tutti?), gli sorrise con affetto.
“Gli Dei amano scherzare con gli umani, ma non predispongono mai le cose sì che vi sia un’unica soluzione. Sono gli uomini ad essere ciechi; essi non si accorgono che rimangono sempre aperte almeno due strade e si precipitano nella via più facile perché vedono solo quella. Da ciò nascono le guerre e tante altre disgrazie. Ma la politica è un’altra cosa: è l’arte di riconoscere, anche nelle situazioni estreme, la seconda via, escogitando il modo più abile di percorrerla”.
La porta si aprì violentemente. Tarquinio entrò gettando in un angolo il cerchio d’oro con cui s’incoronava nelle sedute pubbliche, mandò al diavolo con voce aspra i due littori che lo avevano seguito fin lì e aguzzò gli occhi nella penombra: distinse, stagliate contro il debole riflesso del tripode corinzio, le figure del figlio e della moglie.
“Ah! Siete qui! Datemi del vino, che ho la bocca secca a forza di rimbeccare i Senatori e arringare i plebei – maledetti loro! – che mi vogliono insegnare il mestiere di re! Avrei fatto meglio, sulle orme del vecchio Anco Marcio, a mettermi d’accordo con il Senato e a limitarmi a fare da portavoce alla volontà di quell’augusto consesso, anziché intestardirmi a governare io questa stramaledetta città. Una città dove tutti comandano in virtù di leggi date dagli Dei stessi, sia pure per interposta persona!”
“Tarquinio, non recitare la commedia con me e con tuo figlio”.
La voce serena, quasi ridente di Tanaquil, calmò come per incanto l’apprensione del marito. La donna proseguì: “Se hai perso una battaglia in Senato, la colpa è tua, perché ‘tu’ hai voluto che la seduta fosse pubblica. Se invece di deliberare nel Comizio, alla presenza di tutta la città, aveste decretato nel chiuso della Curia, le cose sarebbero andate in maniera diversa e, di certo, meno teatrale”.
“Come sempre hai ragione tu, Tanaquil! Ma io pensavo che il Senato si sarebbe arreso di fronte alla potenziale minaccia della folla: per questo ho voluto correre il rischio della seduta pubblica. Però, non è finita..”.
“Hai ragione; non è finita. In realtà stasera nessuno ha vinto e la partita è ancora da giocare. Bisogna solo trovare il modo di truccare un po’ i dadi”.
“Ben detto Tanaquil! Abbiamo tempo fino a domani, per farlo”, esclamò il re guardando ammirato sua moglie.
Il viso di Tanaquil esprimeva tutta la concentrazione della sua mente. Nella penombra rischiarata dalle braci ardenti, parve a Tarquinio di rivedere l’aristocratica fanciulla dai lunghi capelli neri, dal viso roseo e luminoso, che lo aveva stregato trent’anni prima; la giovane donna sapiente, edotta nei segreti della scienza divinatoria, che lo aveva posto sul trono. La guardò con occhi nuovi: eppure era sempre lei, la sua sagace moglie, prudente e scaltra, oculata e abilissima nel trovare ogni soluzione.
“Attento, Tarquinio! Non essere precipitoso. Dimmi con esattezza che cosa vuoi”. La donna aveva alzato il tono della voce, vedendolo distratto.
“Io voglio umiliare il Senato definitivamente e non m’importa come! E voglio anche la testa di quel maledetto Atto Navio…”.
“Del tuo amico Atto Navio, vuoi dire?” Tanaquil pronunciò quelle parole con voce quieta, guardando fisso negli occhi il consorte. “Devo ricordarti che…”.
“Io non dimentico nulla e, stasera più che mai, rammento bene quando ho conosciuto Atto, quasi trent’anni fa alle fonti di Saturnia; già allora, era “il vecchio Atto Navio“, sebbene contasse sì e no quaranta primavere. Per sua ventura aveva la barba e i capelli precocemente imbiancati, li portava lunghi e incolti, e se ne approfittava sfacciatamente. Allora era un semplice Senatore ma – fuori Roma, s’intende – andava in giro con il bastone ricurvo degli àuguri. E ricordo anche come ti spiava: un po’ per bramosia – credevi che non me ne accorgessi? – e molto per imparare da te l’aruspicina e le altre facoltà profetiche che possiedi”.
“Lascia stare Atto, per un momento, e ascoltami. Se tu sfidi il Senato, accadrà che i coloni, i fittavoli dei Senatori e una parte della plebe prenderanno le armi; il Magister Equitum, vale a dire tuo figlio, avrà un bel daffare per convincere i suoi cavalieri a massacrare dei concittadini… Sappi, inoltre, che la guerra civile cadrà come un dono del cielo in mezzo ai Sabini, che chiederanno l’aiuto degli Etruschi di Veio, e lo otterranno. A quel punto, tu dovrai combattere su due fronti: contro Roma e contro i nemici esterni contemporaneamente. Chiedi a tuo figlio che cosa ne pensa?”
Tullio assentì col capo e allargò le mani in un gesto d’impotenza, rispondendo alla muta domanda del padre che aveva rivolto lo sguardo verso di lui.
“E allora? Qual è la tua proposta, Tanaquil? Che cosa devo fare domani? Arrendermi al Senato?“
“Questo mai!” La Regina raddrizzò le spalle, levò alto il capo guardando nel fitto delle tenebre che nascondevano il soffitto della stanza. Rimase immobile, d’un tratto divenuta più alta e imponente, ieratica figura avvolta in veli neri che i due uomini contemplarono affascinati e sgomenti: troppe volte avevano visto Tanaquil in atto di scrutare l’avvenire.
Dopo un lungo silenzio, senza muovere il capo, Tanaquil parlò ancora:
“Il Senato non potrà mai modificare la legge di Romolo e concedere il raddoppio del numero di Centurie: questo è un fatto; però, può consentire che siano portati a milleduecento, i seicento membri delle attuali tre. Così potrai avere il doppio dei cavalieri per combattere i Sabini e farai contenti i tuoi sostenitori, collocandone molte centinaia nelle tre Centurie originarie. Quando avrai vinto la guerra con i Sabini, potrai pretendere – e il Senato non potrà rifiutare – il diritto d’istituire, tu personalmente, cento Senatori, ulteriore premio per i tuoi partigiani. Questo si può fare”.
“E cosa dovrò dare in contropartita?”
“In cambio, non permetterai che il popolo derida gli Auguri e gli Dei, e lascerai ai Senatori lo strumento degli auspici. Sappiamo bene che è uno strumento politico, ma è meglio confermare questo potere al Senato anziché consentire che il popolo, dopo aver calpestato la religione dei Padri, cominci a pensare che anche la tua sovranità non è sacra come si vuole. A che ti servirà quel gran tempio che sogni di erigere sull’Arce, a sacrale sigillo della corona, se il popolo comincia a dubitare della santità dei simboli e dei riti?”
“Tanaquil, come posso riconoscere l’autorità del Senato e la santità degli auspici senza umiliarmi davanti ai Senatori?”, chiese Tarquinio rabbuiato.
“Questo, ancora non lo so. Consulterò Atto Navio, per questo”.
Il re sobbalzò: “Come puoi pensare che Atto, proprio lui, sia disposto ad aiutarmi, dopo avermi appena sconfitto con i suoi maledetti segni premonitori? Bella gratitudine! Non si ricorda che deve a me se fu nominato Augure ufficiale di Roma: io convinsi Anco Marzio delle sue qualità… e guarda oggi cosa mi ha combinato?!”
“Sbagli, Tarquinio”. La voce di Tanaquil era calma e decisa. “Non è forse stato Atto a tirare in lungo il suo auspicio fino a che, tramontando il sole, fosse impossibile per legge deliberare? E dunque, non è stato proprio Atto che, almeno per oggi, ti ha risparmiato la sconfitta?”
Tarquinio tacque pensieroso e scrutò il volto della moglie; anche lei lo guardò: vide gli occhi increspati da minutissime rughe, il viso gonfio e due pieghe profonde ai lati della bocca. Il marito era stanco; se voleva aiutarlo, doveva agire rapidamente.
“Sono sfinito”, brontolò il re mentre si slacciava il mantello di porpora e lo lasciava cadere sul pavimento. “Datemi il mio vino. Io vado a letto. So già che tu, Tanaquil, non dormirai. Ma tu”, e si volse al figlio Tullio, “va al Campo Marzio e tieni pronti cavalieri e fanti. Manda le guardie etrusche sull’Arce e ordina che si trincerino negli scavi dei lavori in corso alle fondamenta del mio tempio di Giove. Buonanotte, Tanaquil. Pensaci tu. Buona fortuna!”
La moglie sorrise: aveva sempre apprezzato in lui la straordinaria duttilità dell’intelligenza e la capacità di attendere e favorire le circostanze per approfittarne al momento giusto. Ora, si rimetteva a lei! Sì, Tarquinio era un vero opportunista: se non fosse stato tale, non sarebbe divenuto il re di Roma!
Tanaquil non perse tempo: si buttò addosso una trabea di lana nera e, avvolta dal pesante mantello col cappuccio allacciato da una fibula d’oro, un velo scuro sul volto, uscì da una porta secondaria, senza attraversare la gran sala della Regia dove sostavano di guardia i littori.
La notte era molto fredda, ma lei camminò col passo spedito di una donna giovane: era sottile e snella. S’inoltrò rapidamente attraverso i vicoli bui che portavano al Colle Palatino: solo lei poteva percorrere di notte, sola e senza scorta, il selciato sconnesso della Via Sacra, passare davanti alle sinistre Aedes dei Lari e aggirarsi fra i cantieri e la zona dell’antica Porta Mugonia, dove si affollavano le nuove botteghe e le abitazioni attestanti la speculazione urbanistica sotto i Tarquini. Nessuno avrebbe osato avvicinarla, tale era la sua fama di maga e il timore che incuteva: era Tanaquil, l’Etrusca.
Giunta alla casa dell’augure Atto Navio, le bastò uno sguardo perché lo schiavo alla porta si facesse da parte, irruppe nell’interno, attraversò l’atrio e, guidata da una luce che filtrava sotto una porta, entrò in una stanzetta ingombra di cesti traboccanti di papiri. Dietro un tavolo, al chiarore di due lucerne, un vecchio stava faticosamente scrivendo su una pelle di pecora mal conciata: copiava da tavolette e cocci iscritti l’elenco dei prodigi riscontrati durante l’ultimo mese nel territorio controllato da Roma: <<…un vitello a due teste è nato nel campo di Plautino – una pietra è caduta dal cielo nella piazza di Alba – una donna ha partorito due bambini uniti per la schiena a Gabi…>>
Il vecchio non sollevò lo sguardo e Tanaquil sedette senza complimenti su una scranna, apostrofandolo cordialmente:
“Buonasera, Atto!” Poi, liberando il capo dal velo e sistemando la chioma ancora nera e folta, proseguì: “Andiamo, non far la commedia con me! So come sai guardare, tenendo il capo abbassato, attraverso quei cespugli bianchi che ti nascondono gli occhi. Hai visto benissimo quando sono entrata e sai anche perché sono qui”.
Atto alzò gli occhi e annuì.
“Ti manda Tarquinio?”, le chiese quietamente.
“Nessuno può ‘mandare’ Tanaquil; tu lo sai bene”. La voce della donna vibrò di sdegno appena contenuto, mentre un lampo di collera le balenava negli occhi intensi.
“Tu vieni per Tarquinio, soltanto per Tarquinio, e vuoi parlare con me che, oggi, rappresento Roma e gli Dei”, ripeté il vecchio ergendo il busto e raddrizzandosi sulla sedia.
“La tua Roma e i tuoi Dei!” replicò Tanaquil con ironia. “I tuoi Dei hanno il nome dei campi che Tarquinio ha donato a te e agli altri Senatori, e che ha moltiplicato dopo ogni guerra. Sei ricco, Navio, e quei campi non li lavori tu, né i tuoi colleghi, ma gli schiavi che Tarquinio vi ha regalato dopo ogni vittoria. Atto, facciamola finita con queste scempiaggini. Tu, oggi, prolungando le consultazioni degli uccelli, hai impedito nel modo più opportuno che il Senato deliberasse contro Tarquinio. Nello stesso tempo, però, hai battuto il Re, stabilendo che gli Dei non volevano la riforma delle Centurie. Perché hai vietato al Senato di andare sino in fondo?“
“Sono vecchio, Tanaquil…”.
“Smettila! Dicevi di esser vecchio già trent’anni fa, quando ti spacciavi per àugure e venivi da me a imparare i trucchi della magia etrusca”.
“E’ vero”, rispose Atto sospirando, “ma adesso sono vecchio sul serio. Questo significa che, oltre ad avere a cuore i miei campi e quelli degli illustri colleghi Senatori, mi preoccupo anche sinceramente per questa città e per il suo avvenire. Tarquinio non può rompere l’equilibrio costituzionale fra Rex, Comizi e Senato; per questo gli auspici gli hanno dato torto. Ma il Senato non può isolare il Re dalle classi dei cavalieri e dalla plebe, vale a dire dal nerbo dell’esercito, correndo il rischio di una rivolta popolare o permettendo a qualche mestatore d’insediarsi al posto di Tarquinio. Per questo ho impedito che si deliberasse oggi”.
“E’ così, dunque! L’avevo intuito”, annuì Tanaquil, “ed è per questo che sono qui. Tarquinio non può accettare il responso degli auspici, né l’umiliazione di una delibera senatoria; ma non vuole nemmeno iniziare una guerra civile. In fondo lui è il Re… e il Senato è come un re… e questo sistema duplice fino ad oggi ha funzionato… ma guai a rompere l’equilibrio su cui si regge!”
“Bene, bene, ora riconosco la mia Tanaquil. Noi due, in fondo, abbiamo posto la corona sul capo di Tarquinio e, bisogna ammetterlo, è stata una buona scelta, per Roma. Adesso occorre trovare il modo per aggiustare le cose, in modo che lui salvi la faccia e tutto resti come prima”.
“Bravo Atto”, disse Tanaquil abbandonandosi comodamente sulla sedia. “Ora ti riconosco anch’io. Possiamo parlare”.
“Più che parlare, dobbiamo inventare”, sospirò Atto. “La situazione è difficile. Somiglia a quella… ricordi? Ti rammenti di quando Tarquinio, accampato sul Gianicolo, aveva deciso di tornare indietro, fra gli Etruschi, e tu risolvesti tutto con quel trucco dell’aquila. Fosti molto brava, in quell’occasione…”
“Perché desideravo che andasse a Roma: non c’era un avvenire per lui, a Tarquinia. Da noi, i Greci non sono ben visti, perciò lo persuasi con uno di quei raggiri divinatori in cui sono maestra”, rise Tanaquil. “Ancora mi ricordo lo stupore del seguito e dello stesso Tarquinio, combattuto fra il desiderio baldanzoso di proseguire verso Roma e quello di ritornare nella civile Etruria. Quando l’aquila gli sfilò dal capo il berretto a cono e volò sopra Roma con un ampio giro, lui era ancora esitante e non riusciva a decidersi sul partito da prendere. Ma quando l’uccello riapparve e aprì gli artigli, lasciando cadere il pileo sulla sua testa bionda, parve a tutti un presagio. E fu così che il ricco avventuriero greco e il suo seguito, si convinsero a proseguire l’impresa verso Roma, come sembrava indicare quello straordinario volo dell’aquila”.
“Mi sono sempre domandato se il tuo consorte – che ben conosceva le tue capacità di addestrare e dirigere gli uccelli – non avesse dissimulato con i suoi seguaci, e se tutte le incertezze mostrate in quei giorni d’autunno al campo del Gianicolo, non fossero state messe in atto proprio per indurti a qualche trucco dal sapore miracoloso che convincesse il recalcitrante seguito”.
“Dici bene, Atto; fu uno stratagemma, ma funzionò”.
“A proposito, io ti avevo già visto fare un gioco del genere con un corvo presso le fonti di Saturnia, ma come hai fatto a convincere un’aquila?“
“Andiamo, Atto! Ma quale aquila?! Voi eravate tutti intenti a seguire con lo sguardo il berretto di Tarquinio che volava e, quando vi ho detto: <<Guardate l’aquila!>> con l’aria più ispirata che sapevo assumere, vi siete girati tutti a osservare me. In realtà era solo un vecchio e grosso falco ben addestrato, che avevo portato con me e liberato di nascosto”.
“Naturalmente, un falco! Perché non ci ho pensato subito?”
“Perché anche tu, come il seguito di Tarquinio, volevi credere che fosse un’aquila. Tutti associamo a quell’animale l’idea di regno, e tutti avevamo in mente che a Roma ci aspettava una corona. E’ strano, però, che tu non te ne sia accorto!”
“Io ero intento a spiare l’espressione del volto dei compagni di tuo marito, e come essa mutava di fronte a quel miracolo. E lui, lui che aveva promesso il ritorno, fu obbligato dagli amici a proseguire; anzi, i suoi seguaci furono sicuri di averlo costretto loro a entrare in Roma…”
“E’ questo il punto, vero?”
“Sì, Tanaquil. Bisogna, ancora una volta, che siano proprio i partigiani di Tarquinio a chiedergli di ritirare quella proposta di duplicazione delle Centurie che è stata fatta per le loro pressioni! Guai se fosse il Re ad assumersi la responsabilità del ritiro!”
“Gli anni non ti hanno indebolito il cervello, caro Atto!”
“Se solo avessi la tua età, mia bella regina, sarei ancora un leone… e un serpente…”
“Ora, amico mio, ti chiedo solo di essere saggio: secondo te, il Senato, può diventare l’arbitro assoluto della questione? O non dovrà concedere, almeno, che si raddoppi il numero dei cavalieri delle tre Centurie esistenti? Fra l’altro, il doppio dei cavalieri è necessario per vincere la guerra contro i Sabini”.
“Servono anche a conservare a Tarquinio il favore di quella classe che, lasciata a se stessa, si leverebbe contro il Senato”, aggiunse Atto, meditabondo. “L’importante”, proseguì deciso, “è che i poteri del Re e del Senato rimangano bilanciati come sono ora”.
“Come fare?”, domandò Tanaquil, un po’ nervosa. “Domani il Senato si riunisce di nuovo nel Comizio, in pubblica seduta, e, per quanto si possa portarla alle lunghe, alla fine si dovrà deliberare contro la proposta del Re”.
“Oppure dovrebbe ritirarla Tarquinio stesso per impedirne la votazione; ma non può farlo senza alienarsi i suoi sostenitori. Occorre un espediente, una mossa astuta, una trovata come quella dell’aquila sul Gianicolo… Dovranno essere i suoi seguaci a implorarlo di recedere…”
“Allora”, riprese Tanaquil, passandosi un dito sottile sulle labbra. “Allora… Atto, ricordi quel giorno che venisti alle fonti di Saturnia e mi trovasti che interrogavo le acque nel momento in cui divengono limpide e color smeraldo, nelle prime ore del pomeriggio? Fu tre giorni prima dell’arrivo di Tarquinio, devi ricordartene…”
Atto socchiuse gli occhi e parlò lentamente:
“Sì, certo che ricordo; non ho mai dimenticato! Tu eri immersa, immobile, in una pozza d’acqua sulfurea. Vedevo il fondo di ghiaia bruna da cui salivano colonne di bollicine. Indossavi una veste di lino bianco che ti si era incollata al corpo, modellandolo; io rimasi per molto tempo a contemplare le tue cosce sode, i tuoi piccoli seni eretti… Ti detti anche la mano per farti uscire dalla pozza, quando decidesti che era giunto il momento di andartene: fu allora, che per un attimo ti strinsi a me e temetti che potessi accorgerti del mio incantato – ed eccitato – rapimento. Ma tu avevi il volto impassibile di sempre. Io, invece, non ho mai dimenticato il tuo giovane corpo bagnato e caldo accostato al mio, e codesto viso che ancora conservi bello, nonostante gli anni. E’ un tuo speciale sortilegio?”
“Atto, Atto, non farmi dubitare della tua e della mia memoria. Stai forse cercando di sedurmi, a quest’età?!” Tanaquil non sembrò sorpresa dalle parole di Atto ma, tesa com’era a cercare un mezzo per restituire il potere al consorte, preferì sorvolare sui ricordi personali.
“Ricorda bene, Atto, che facemmo dopo?”
“Ci sedemmo lì accanto e, mentre tu ti asciugavi al sole, io ti mostrai alcuni vasi che avevo comprato strada facendo, a Vulci”.
“E poi? Che altro portavi nella sacca, oltre alle anfore?”
“Ah, sì, ti feci vedere un nuovo trucco che, per la verità, non avevo inventato io, ma un mercante cartaginese. Si trattava di una selce che, a maneggiarla, sembrava in tutto uguale a una qualunque pietra. Tu la soppesasti, rigirandola fra le mani, poi io te la tolsi, estrassi un rasoio di bronzo e la tagliai a metà come fosse burro: un bel raggiro, che però non ho mai avuto occasione di usare. Del resto fu proprio a te che regalai la cote, il rasoio e un vasetto di una colla speciale. Che hai in mente Tanaquil?”
“Veder tagliare una pietra con una lama è una cosa miracolosa agli occhi del popolo, e attesta in modo inequivocabile la volontà degli Dei, non credi Atto?”
Atto Navio, Senatore romano e Augure ufficiale, socchiuse gli occhi fino a ridurli due fessure e fissò Tanaquil con uno sguardo fattosi improvvisamente serio e penetrante. La regina lo guardava in silenzio annuendo con il capo, quasi seguisse man mano la consapevolezza che si faceva strada nella mente del vecchio. Alla fine, lui cominciò sommessamente a ridere e continuò fino ad essere soffocato dai singhiozzi.
“Tanaquil… Solo tu potevi pensare a una cosa del genere. Questa è la soluzione del problema!”
La donna lo abbracciò e lo strinse forte. Atto fece scivolare senza parere la sua mano lungo la schiena di lei; Tanaquil, con altrettanta indifferenza, l’allontanò dal suo corpo, guardò il vecchio con tenerezza e gli disse:
“Sei sempre il mio vecchio Atto. Con te non occorrono molte parole. Ti lascio: credo che il resto della notte lo passerò a parlare con Tarquinio”.
Si tirò sul capo la trabea, afferrò una lucerna dal tavolo dell’augure che la guardava ridendo e si avviò con passo svelto all’uscita. Era quasi sulla soglia quando la voce dell’uomo la richiamò:
“A proposito, Tanaquil, sulla strada per Alba, ci sarebbe quel poderetto che confina con le mie terre…”.
“Me l’aspettavo, e mi meravigliavo di non averti sentito chiedere nulla”. Tanaquil si volse sogghignando. “Ho perfino pensato che la vecchiaia ti avesse reso un po’ svanito, mio povero Atto! D’accordo, il ‘poderetto’, come lo chiami tu – malgrado si tratti di oltre quattrocento iugeri di buona terra -, fa parte del demanio regale. Se tutto va bene, sarà tuo. Altrimenti”, aggiunse con voce improvvisamente minacciosa, “bada a te, Atto Navio, e non contare sul mio affetto!”
Sorgeva un’alba gelida. Tanaquil, stringendosi al corpo il mantello, si affrettò nel timore d’incontrare i primi schiavi che andavano al lavoro. In breve e senza essere notata rientrò nella Regia attraverso la stessa porta da cui era uscita: per quella notte gli agi del Gianicolo andavano dimenticati, ed anche il sonno.
Per prima cosa svegliò un giovane servo e lo mandò di corsa alla sua casa sul colle spiegandogli bene che, in fondo a una vecchia cassa, nel Tablinium, avrebbe trovato un canestro di giunchi contenente un involucro ben impacchettato.
“Prendi la cesta e il pacco, e portameli qui senza riprender fiato!”
Poi andò da Tarquinio che dormiva in una delle stanzette del primo piano; avvicinò la lucerna a quel volto inquieto, dalla bellezza altera e insolente che tante volte aveva contemplato nel sonno, si chinò su di lui, sentì il richiamo dei suoi capelli biondi, appena brizzolati, ma trattenne l’impulso d’infilarci le dita. Lo scosse per una spalla, invece, senza tanti complimenti.
“Coraggio, Lucumone! Svegliati! Dobbiamo parlare”.
“Tanaquil!” Era una caratteristica di Tarquinio svegliarsi immediatamente lucido, come se non si fosse mai addormentato. “Dopo tanti anni, svegliarmi nelle tue braccia è…”.
“Non è certo come essere svegliato da una delle tue servette sabine”, lo interruppe con asprezza Tanaquil.
“Sì, ma nessuna di loro ha i tuoi occhi”, disse Tarquinio con voce fattasi improvvisamente grave. “Sono sempre così grandi, pieni d’ombre, con quei riflessi verdi che vi danzano in fondo e mi parlano… mi parlano… ma io non capisco le parole che mi dicono. E’ sempre stato così, fin dal primo giorno. Quando mi guardi, gli occhi ti diventano talmente enormi che mi pare di precipitarvi dentro. Nessuna donna è capace di darmi questo”.
Il volto di Tanaquil si era fatto di pietra e gli occhi splendevano immensi nell’ombra. Afferrò con entrambe le mani il volto del marito e: “Taci! E ascoltami, ora”, gli disse, senza mostrare emozione. “Saranno i tuoi stessi fautori, sarà quella plebe che ama il Magister tuo figlio e odia il Senato, a scongiurarti di recedere dalla tua proposta di duplicare le Centurie. Tu lo farai e il Senato ti ringrazierà tangibilmente. So io come fare…”.
Il giorno dopo, sulle gradinate e sulle spalliere del Comitium, di fianco alla Curia, si accalcavano i cittadini di Roma. La folla rumoreggiava, esasperata dagli interminabili discorsi dei Senatori togati che occupavano lo spazio centrale del Comizio, simile a una scaena teatrale. Lungo le scale si aggiravano venditori di lupini, fichi secchi e prugne farcite, mentre vecchie sdentate dallo sguardo avido, abbrustolivano castagne, scrollando sui bracieri le padelle bucherellate di terracotta. All’avvicinarsi di un compratore attirato dal profumo delle caldarroste, le donne univano a coppa le mani ormai coriacee per il gran calore e le riempivano di bruciate che deponevano svelte in un lembo della tunica dell’acquirente, ghermendo leste un informe pezzettino di bronzo che portava il disegno di un ramo secco. Era un’invenzione del Magister per pagare più agevolmente i soldati: i Romani la trovavano molto pratica.
Il sole, già alto nel cielo, traeva riflessi dagli elmi dei mercenari etruschi che Servio Tullio aveva disposto a barriera tra la folla e il Senato. I Patres si domandavano nervosamente se quello schieramento fosse una difesa o una minaccia. Tarquinio, circondato dai littori, la testa cinta dal cerchio d’oro, scuro in volto e accigliato, troneggiava da uno scanno ornato di aquile dorate.
Atto Navio prese la parola per riaffermare che gli auspici negavano la possibilità di accogliere la proposta fatta dal Re di raddoppiare le Centurie. Ululati di derisione, fischi e suoni osceni si levarono dalla folla alle dichiarazioni dell’àugure. Il fornaio Aulo Plautino giunse trafelato con la tunica bianca di farina tesa sul gran ventre debordante dalla cintura. L’uomo fu all’altezza della sua fama.
“Atto Navio”, urlò rivolto al vecchio. “Se ne sei ancora capace, fa drizzare il tuo uccello come hai fatto volare il ficus ruminalis e prendi gli auspici da quello!”
Un mare di risate e sberleffi accompagnò la battuta oscena. I Romani andavano famosi per le loro pittoresche assemblee: nessuna piazza etrusca o greca avrebbe tollerato uno spettacolo del genere!
Si alzò Tarquinio e arringò la folla con ampi gesti e grandi sorrisi, dopo aver ottenuto un relativo silenzio. Con voce alta e penetrante, scandendo le parole e scoprendo i denti in un sorriso beffardo, si rivolse all’Augure:
“Atto Navio, Senatore e Augure ufficiale di Roma, poiché dici di sapere, interpretando il volo degli uccelli in cielo, cosa si può e cosa non si può fare, allora dimmi questo: è possibile fare quello che sto pensando in questo momento?”
I Senatori percepirono quelle parole come una minaccia; fecero capannello – le toghe agitate e sbattute sul capo – tentando invano di farsi ascoltare mentre a turno proponevano mozioni d’ordine ed eccezioni procedurali. La plebe, esasperata sino alla frenesia, levò rinnovate acclamazioni a Tarquinio e ingiurie contro il Senato.
Quando il tumulto fu al culmine e cominciarono a piovere sui Senatori manciate di fichi secchi e bucce di lupini, Atto Navio si alzò di nuovo in piedi, avvolto nella bianca tunica, e si mostrò al popolo appoggiandosi al bastone ricurvo, simbolo della sua sacralità. Attese immobile che si facesse silenzio, mentre il vento gli agitava la candida massa dei capelli e della barba.
Lentamente il mormorio si spense, perché il senso di religiosità emanante dalla figura del vecchio sortiva l’effetto previsto. Allora Atto si tirò un lembo della toga sul capo e rispose gravemente a Tarquinio:
“Prenderò subito gli auspici, o Re”.
I Senatori, che la sapevano lunga in fatto di vaticini, si guardarono perplessi domandandosi se Atto non fosse improvvisamente impazzito, e se non fosse tempo di nominare un nuovo àugure; temettero persino che il vecchio potesse inopinatamente favorire il re nella sua richiesta di nuove centurie.
Ma Atto divise i quadranti del cielo con i consueti gesti, levò le mani in alto e si mise a osservare attento il volo degli uccelli. Infine abbassò le braccia e, rivolto a Tarquinio, disse:
“Mio Re, gli Dei assicurano che è possibile fare la cosa cui stai pensando”.
Tarquinio agitò le mani per calmare il rumorio della folla e sogghignando si piegò verso un lato del trono, sollevò un canestro coperto da un telo di porpora, strappò via il panno e, mostrando il contenuto del cesto alla folla, gridò a gran voce:
“Orsù, vecchio, taglia con questo rasoio codesta pietra!”
La moltitudine esplose in grandi applausi scagliando insulti e bucce di castagne contro i Senatori; tuttavia, la fissità delle facce vocianti, ora tutte rivolte verso l’Augure, smentiva la violenza delle grida e trasmetteva un senso di superstiziosa attesa e di timori antichi.
Atto Navio, impassibile, si avvicinò lentamente al trono di Tarquinio mentre il rumoreggiare dell’assembramento si spegneva in un ultimo brusio. Salì sul piedistallo ponendosi bene in mostra alla stessa altezza del re, e, nell’improvvisa quiete, rotta soltanto da lontane voci che il vento portava dall’ormeggio sul Tevere, prese la cote con la sinistra e il rasoio con la destra, li sollevò entrambi verso il cielo e rimase fermo in quella posizione. Assaporò l’innaturale silenzio che ora avvolgeva lo spazio gremito del Comizio, guardò solennemente la folla, poi volse gli occhi a Tarquinio e quindi ai Senatori, tutti immobili come statue; stese davanti a sé le mani mostrando nella sinistra aperta la selce, che posò davanti a sé ben in vista su un ceppo di marmo, poi, lentamente, abbassò la lama impugnata con la destra e spezzò la pietra in due con colpo secco. Lasciò quindi cadere il rasoio e raccolse, mostrandole a Tarquinio, alla gente assiepata e ai Senatori stupefatti, le due metà tagliate di netto.
Più d’uno in seguito giurò di aver visto Terrore e Paura comparire sulle gradinate del Comitium; altri affermarono che dalla pietra sgorgavano fiotti luminosi.
Tarquinio scese verso l’Augure con volto solenne e, tendendo le mani, afferrò le due parti della cote, le osservò a lungo con attenzione e quindi le sollevò in alto, girando lentamente su se stesso, perché tutti potessero vederle.
Si alzarono a parlare Cneo Sisenna, per i cavalieri, e Sulpicio Niger, per la plebe; l’uno tremante e l’altro scuro in volto pronunciarono le stesse parole:
“Gli Dei non vogliono! Rinuncia, o Re!“
Un mormorio d’approvazione, prima sommesso, poi rimbombante come un tuono, si levò dalla folla. Aulo Plautino non rinunciò a far sentire la sua voce possente:
“O re, non attirare l’ira degli Dei sulla Città! Rinuncia!”
Tarquinio simulò una virile accettazione delle pressanti richieste fatte dai suoi sostenitori e ritirò la proposta di duplicare le Centurie. Fu portato in trionfo alla Regia da una moltitudine di seguaci acclamanti alla sua saggezza.
La notte stessa, uscito di soppiatto, galoppò fino al Gianicolo e – non accadeva da anni – chiese a Tanaquil di ospitarlo nel suo letto.
La Storia.
“Una statua di Atto col capo velato rimase a lungo nel luogo dove avvenne il fatto, nel Comizio, (luogo di riunioni delle assemblee popolari, nella parte nordoccidentale del Foro), sulle gradinate a sinistra della Curia; raccontano che un tempo anche la pietra si conservava nello stesso luogo, come testimonianza ai posteri di quel miracolo. Comunque dopo di allora in così grande onore furono tenuti gli auspici e il collegio sacerdotale degli àuguri, che nulla si faceva in pace e in guerra se non dopo aver preso gli auspici, ed erano sospesi i Comizi popolari, la chiamata degli eserciti e le decisioni più importanti, se gli auspici non erano favorevoli”.
Da: Tito Livio, “La Prima Deca”, collana “I classici latini” diretta da Augusto Rostagni, Torino, 1953. (Traduzione di Luciano Perelli)
Siamo nel mondo antico, a Roma. Tanaquil, l’Etrusca (c’è un dipinto che la ritrae, di Domenico Beccafumi, del 1519) è la moglie di Lucio Tarquinio, quinto re di Roma. Si tratta di una delle tante donne che ispirano questi autori, che ne hanno fatto un loro timbro. Ricordiamo la figura di Arlette, una donna dell’anno Mille concubina del duca di Normandia Roberto il Magnifico e madre di Guglielmo il Conquistatore, ma anche altri racconti: “Anna e il Barbaro”, “Alice e il Vescovo”, “Louise e l’Imperatore”.
I personaggi sono presi dalla storia (Tito Livio: “La prima Deca”), e gli autori li rendono protagonisti di vicende affascinanti. Anche qui, infatti, troviamo Tanaquil, una specie di maga, che intriga (“prudente e scaltra, oculata e abilissima nel trovare ogni soluzione”) per salvare il potere di Lucio Tarquinio, che si trova in contrasto con il senato di Roma. Abitudini, rituali, ambienti del mondo antico sono rievocati felicemente e la scrittura rende piacevole la lettura.