Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2010 “Andare” di Gianni Zanata

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010

Andare, star seduti, fare nulla.

C’è stato un periodo in cui io e Paolo ce ne stavamo seduti per ore su una panchina alla stazione dei treni. A fare nulla.

Andiamo, andiamo, diceva Paolo. E rideva.

Andiamo dove?

Su, dai, andiamo, mi diceva sempre Paolo. E rideva.

Ma dov’è che vuoi andare?, gli dicevo io.

Andiamo, andiamo, mi diceva lui, non importa dove. E rideva.

Andiamo a fare che?, gli dicevo io.

Andiamo. Non c’è bisogno di fare, mi diceva lui, ma di andare.

No, non è così che si va, gli dicevo io.

Ma lui niente. Andiamo, andiamo, ripeteva. E rideva.

Io lo guardavo. Andare dove? E scuotevo la testa. Ma dov’è che vuoi andare?, gli dicevo. Lo guardavo e scuotevo la testa.

Andare…

Che poi, per Paolo, andare, voleva dire mille cose. Matto d’un Paolo.

Andare voleva dir donne, voleva dir sesso, voleva dire musica, voleva dire canne, voleva dire svegliarsi tardi la mattina, far colazione all’aperto, strizzar gli occhi e guardare in cielo, ché se c’erano molte nuvole allora era meglio star sdraiati sul divano dentro casa, e magari dormire un altro po’.

Andare voleva dire soprattutto sperare di non tornare mai più da dove si era partiti. Voleva dire spedire una cartolina a tutti gli amici che invece erano rimasti: ciao, qui si sta bene, si scopa alla grande, peggio per voi che siete rimasti. Voleva dire agli amici ciao, vi voglio bene, più di quanto non ve ne volessi quando ero lì con voi e non vedevo l’ora di andare.

Andare…

Andare voleva dire comprarsi un paio di scarpe nuove. Perché non si può andare da nessuna parte senza un paio di scarpe nuove. Sono belle le scarpe nuove, ma non subito, non quando te le infili la prima volta. Le scarpe nuove, la prima volta che te le infili, ti danno fastidio ai piedi, fanno proprio male, ti escono le bolle ai lati. Le scarpe sono belle quando sono nuove, ma non nuovissime. Le scarpe belle sono quelle che hai già usato un po’, quelle che c’hai camminato qualche giorno, ed è per questo motivo che già ti sembrano più tue, vissute, in sintonia con te stesso, non avulse, ammesso che un paio di scarpe nuove possano essere avulse.

Andare…

Paolo voleva sempre andare. Matto d’un Paolo.

E non c’era verso di fargli capire che puoi pure pensare di andare dove vuoi, ma se poi non ti muovi, non puoi mica andare.

I genitori di Paolo, per dire, non s’erano mai spostati da casa, dal loro paese, dalla loro provincia, dalla loro regione. Siliqua, Cagliari, Sardegna. Non s’erano mai spostati. Proprio mai. Mai un viaggio. Mai una vacanza. Mai una gita. O forse sì, qualche gita al mare l’avevano fatta. Sì, una gita al mare, così mi aveva detto Paolo una volta. Una gita al mare, per andare a vedere l’isola di Carloforte. Sì, ma mica c’erano andati, poi, a Carloforte. Si erano fermati a Portoscuso. A guardare l’isola da lontano. Erano rimasti sul molo, a guardare quell’isola che pareva vicina, tanto che se allungavi una mano ti sembrava di poterla toccare. Erano arrivati sino a Portoscuso, avevano viaggiato su una vecchia fiat millecento grigia del sessantatre, per poi scoprire che l’ultimo traghetto per Carloforte era già partito. Quando si dice andare senza sapere che per andare bisogna saper andare.

Il loro posto, il posto dei genitori di Paolo, era il cuore. Da quel posto lì non s’erano mai mossi. I genitori di Paolo erano morti senza aver mai conosciuto nient’altro che cuore, sudore e tormento. Erano morti insieme, più o meno. Lui, il padre, piegato dalla fatica del lavoro nei campi, aveva ceduto qualche mese dopo aver tagliato il traguardo degli ottantadue. Lei, la madre, una donna che aveva messo al mondo nove figli, mica due, nove, s’era spenta alle soglie degli ottanta, un anno dopo la morte del marito. Era stato un bel funerale, il funerale della madre di Paolo, nel pomeriggio di un sabato d’aprile, con la luce gialla del sole che si diffondeva dai rosoni e disegnava strane figure sul pavimento della chiesa. Anche il funerale del padre di Paolo era stato un bel funerale, in un mattino di dicembre, sotto la pioggia fredda e il vento umido che soffiava dal mare. Il parroco, durante l’omelia, aveva letto un passo del Vangelo, qualcosa sul viaggio lento e dolce che compiono le anime verso il cielo, verso il Paradiso. Un viaggio. Verso il cielo. E dire che non erano mai andati da nessuna parte, i genitori di Paolo.

Andare…

Andiamo, andiamo, diceva Paolo. E rideva. Matto d’un Paolo.

Ma andiamo a fare che?, gli chiedevo io.

Che poi, per andare, bisogna aver coraggio. Bisogna far finta di volersi lasciare tutto alle spalle. Far finta, mica sul serio. Andare per cambiare. Per poi tornare, dopo aver cambiato le cose, dopo esser cambiati. Tornare, per poter dire, un giorno, agli amici, ecco, lo vedi che ce l’ho fatta?

Io Paolo l’ho conosciuto che voleva sempre andare.

Una volta se n’era andato per davvero. Era scappato di casa. E non mi era mai capitato che un mio amico, un mio amico del cuore, se ne andasse via da casa, via dai genitori, a quindici anni. Era stata una sorpresa. Una di quelle cose che non ci sono parole per spiegare. Una di quelle cose che ti sorprendono, e basta. Specie se anche tu hai quindici anni e il tuo miglior amico se n’è andato senza nemmeno dirti ciao. Matto d’un Paolo.

Paolo, Paolo, Paolo, s’erano messi a urlare i suoi genitori. Erano corsi a casa mia, avevano parlato con mio padre e con mia madre. È qui? È qui da voi? Ma chi? Paolo! No! Paolo? Ah, ma stavolta non la passa liscia!

Paolo aveva lasciato un biglietto sul tavolo in cucina. Me ne vado, non torno più, vi voglio bene, grazie, ma io devo andare. Aveva scritto proprio io devo andare. Ma dove te ne vai senza di me, avevo detto io. Non è così che si abbandona un amico, avevo pensato io.

Paolo, i genitori e i parenti lo avevano cercato dappertutto, in paese. E nei dintorni. E anche negli altri paesi della zona. I fratelli di Paolo erano dovuti andare dai carabinieri. E i carabinieri erano saltati di corsa su una camionetta e si erano messi a girare tra le stradine di campagna.

Io lo sapevo dove era andato Paolo. Ma non avevo detto niente. E pure se qualcuno me l’avesse chiesto, non avrei detto niente. Perché Paolo era il mio migliore amico.

Paolo era andato al fiume, dove di solito andavamo a catturare rane e serpenti, e a tirar sassi a pelo d’acqua. Dove c’era un posto che sembrava una grotta, anche se non era una vera grotta. Ma a noi piaceva pensare che fosse una di quelle grotte dei fumetti, con i ragni e i pipistrelli, e le ossa di qualche cadavere sparpagliate tra i frammenti di canna e le foglie bagnate.

Paolo era andato al fiume. E lì lo avevo trovato. Seduto su una stuoia, sotto un salice bianco, Paolo mi aveva visto sbucare da dietro un cespuglio e s’era messo a ridere. Matto d’un Paolo. S’era messo a ridere come solo lui sapeva, con le fossette sulle guance che lo facevano assomigliare a uno di quei ragazzini dei telefilm western, quei telefilm in bianco e nero che la tv trasmetteva al pomeriggio. Matto d’un Paolo. S’era messo a ridere e non la smetteva più. M’ero avvicinato ed ero rimasto in piedi a guardarlo. E basta. Senza dire nulla. E dopo un po’ che continuavo a guardarlo, senza parlare, e a chiedermi che cosa sarebbe successo se in quel momento fossero arrivati i carabinieri, e dopo un po’ che continuavo a fissarlo, senza parlare, e a chiedermi che cosa sarebbe accaduto se proprio in quel frangente c’avessero colto i nostri genitori, e dopo un bel po’ che stavo sempre lì a guardarlo, in silenzio, e a chiedermi che cosa cazzo c’avesse ancora da ridere in quel modo, insomma, alla fine, ma dopo un bel po’, m’ero seduto a fianco a lui e m’ero messo a ridere pure io. Matto d’un Paolo.

Dove volevi andare?, gli avevo chiesto.

Non lo so, mi aveva risposto lui, volevo andare.

Sì, ma dove?

Non lo so. Andare.

Andare…

Che poi, per Paolo, andare voleva dire mille cose.

Andare voleva dire vivere come ti capita, dove ti capita, se ti capita.

Come quella volta che dovevamo andare in campeggio.

Io e Paolo c’eravamo svegliati alle cinque, per partire alle sei. Zaino e sacco a pelo in spalla, un tocco di fumo in tasca e un giro lungo di blues nella testa, avevamo viaggiato in pullman sino alla periferia di Villasimius. E poi a piedi, sotto il sole, lungo la strada provinciale, nella speranza che il buon Dio degli Autostoppisti non c’abbandonasse.

Un camionista di Nuoro che trasportava acqua, birra, frutta e verdura, c’aveva caricato vicino a Punta Molentis. Il camionista si chiamava Beppe, aveva cinquant’anni, rugoso il viso, gli occhi verdi. Ma dov’è che andate?, c’aveva chiesto lui. Già, dov’è che andiamo, m’ero chiesto io. Andiamo, andiamo, gli aveva risposto Paolo. Sì, ma dov’è che andate?, gli aveva detto lui, Beppe, il camionista. Dove ci capita, andiamo dove ci capita, gli aveva detto Paolo. E Beppe prima lo aveva guardato, e poi s’era fatto una risata sorda. Va bene, vi ci porto io, aveva detto Beppe. Allora Paolo aveva tirato fuori il fumo e aveva rollato una canna. Beppe aveva scosso la testa, aveva detto che lui non capiva che cosa ci fosse di così divertente in quella roba lì che ci fumavamo. E Paolo gli aveva passato la canna e gli aveva detto di fare due tiri. Beppe aveva detto no, no, no, quella roba lì proprio no. E Paolo aveva insistito un po’, gli aveva detto che non era mica veleno, che era qualcosa che mica faceva così male, che era qualcosa che apriva la mente, che faceva vedere le cose da un altro punto di vista. Beppe s’era aggrappato con tutta la forza delle sue mani al volante del camion, e aveva scosso nuovamente la testa, aveva detto che lui mica aveva bisogno di guardare le cose da un altro punto di vista, che gli bastava il suo, di punto di vista, per capire com’era fatto il mondo e come giravano le cose, per capire che potevi pure aprire le menti degli uomini ma le cose avrebbero continuato a girare come sempre avevano girato. Era diventato serio, molto serio, Beppe. Avrei voluto dire qualcosa, avrei voluto che Paolo gli dicesse qualcosa. Non mi era venuto fuori il coraggio di rispondergli che forse le cose non facevano che girare nello stesso verso proprio perché il mondo era pieno di gente ottusa che non voleva cambiare, che stava bene se stava male, che stava male per non voler star bene, che guardava ma non vedeva. Avrei voluto dire qualcosa di serio anch’io, avrei voluto che Paolo dicesse che mica noi eravamo degli stupidi, che non ci facevamo le canne solo per sballarci, che mica andavamo dove ci capitava perché non sapevamo dove andare. Noi lo sapevamo, dove bisognava andare.

Andare…

Che poi quel campeggio lì, dopo che Beppe c’aveva portato su, sino a Orosei, e noi lo avevamo ringraziato di cuore, e lo avevamo abbracciato e salutato con strette di mano fortissime, e lui alla fine s’era quasi commosso e c’aveva regalato due bottiglie di birra a testa e un melone grande come un pallone, quel campeggio lì era l’estate in cui Paolo era andato di testa per via di un acido che s’era fatto una notte in tenda, una specie di pastiglia che c’aveva dato un tipo che avevamo conosciuto in spiaggia, Paolo non se l’era fatto ripetere due volte, aveva buttato giù quella specie di pastiglia, e per tutta la notte l’avevo dovuto tenere a bada, s’era messo a camminare per andare non so dove, s’era messo a camminare a quattro zampe attorno alla tenda, aveva cominciato ad abbaiare, s’era messo nudo, in piedi, steso, in piedi, seduto, nudo, in piedi, s’era messo a correre, e io dietro, lui nudo, io dietro, lui nudo sull’asfalto nero della strada, sotto la luna bianca, nudo, io davanti, lui sempre nudo, s’era messo a strisciare su un lato, io dietro, lui pallido, sempre più pallido, s’era messo a correre, io dietro, era montato sul tettuccio di un’auto in sosta, io sotto, a dirgli di scendere, lui nudo, sul tettuccio di un’auto, poi s’era messo a urlare e l’avevo tirato giù, ma lui s’era messo nuovamente a correre, nudo, come un folle, io dietro, due folli, lui con le braccia protese ad acchiappare il nulla, nudo, di corsa, verso il precipizio, sul ciglio del belvedere, gli scogli sotto, e lui nudo, un passo avanti, il vuoto, Paolo, ragiona, gli dicevo, ragiona, Paolo, lui niente, folle e nudo, ragiona, gli dicevo, Paolo, ascoltami, gli dicevo, lui nulla, io volo, mi diceva, io posso volare, se voglio posso, se voglio posso, mi diceva, un passo avanti, il vuoto, gli scogli sotto, io posso, io volo, io posso, lui nudo, io volo, diceva, ragiona, dicevo, un passo avanti, gli scogli sotto, il vuoto, non voli, dicevo, io volo, diceva, non voli, dicevo, io posso, diceva, voleva volare, matto d’un Paolo. Che alla fine aveva spalancato le braccia e con lo sguardo rivolto alla luna aveva detto andiamo. E poi s’era come afflosciato e allora l’avevo dovuto prendere per le spalle e trascinarlo via, prima che si buttasse di sotto per davvero, di sotto nel vuoto, sugli scogli. Matto d’un Paolo. Che poi c’erano voluti due giorni per farlo tornar sano. E lui mica si ricordava tutto quel che aveva combinato. Matto d’un Paolo.

Andare…

Andare, star seduti, fare nulla.

C’è stato un periodo in cui io e Paolo ce ne stavamo seduti per ore su una panchina alla stazione dei treni. Proprio a fare nulla.

Prendiamo il treno e andiamo, diceva lui.

Andiamo, e poi?, dicevo io.

Andiamo e basta. Senza fermarci mai, diceva lui.

Il primo viaggio in macchina con Paolo, sembravamo due emigrati, di quelli che si vedevano nei documentari alla televisione. Uno zio di Paolo, uno che aveva fatto i soldi grazie all’espianto dei vigneti, ci aveva prestato una A112 monocolore con paraurti in metallo e fascia in gomma. Il cofano era piccolo, ma a noi sembrava grande quanto un magazzino. C’aveva pure la radio, l’A112 dello zio di Paolo. Una radio che suonava sul serio, con le audiocassette e tutto il resto. Una macchina che però ci volevano due pieni di super per fare duecento chilometri, se andava bene.

Andiamo, aveva detto Paolo.

Andiamo dove?, avevo detto io.

Andiamo a vedere Bob Dylan, aveva detto lui.

Bob Dylan?, avevo detto io.

Sì, Bob Dylan, aveva detto lui.

Ed eravamo andati sino a Porto Torres, e da lì c’eravamo imbarcati su un traghetto per Genova. E da Genova eravamo andati ad Avignone, dove c’era davvero Bob Dylan che suonava e cantava. E durante il concerto era successo qualcosa di strano, era mancata l’energia elettrica, così, di botto, era saltato tutto, e s’era scatenato un pandemonio. Tutti al buio, c’era chi si muoveva, chi si spostava, e noi, che eravamo sdraiati per terra ed eravamo un bel po’ distanti dal palco, vedevamo la gente in lontananza che faceva avanti e indietro, come una specie di risacca umana. Poi le luci s’erano riaccese, e Bob Dylan aveva ripreso a suonare e a cantare, con quella sua voce che sembrava quella di un gatto impigliato in una rete metallica, Bob Dylan aveva cantato e suonato per più di due ore. Ma già a metà io e Paolo c’eravamo stancati di ascoltare le canzoni e di ballare, e allora avevamo cominciato a fare gli stupidi con queste due ragazze tedesche che stavano qualche metro avanti a noi. Erano carine, e quella più carina aveva un paio di tette che mi era proprio venuta voglia di dirglielo, che aveva delle tette straordinarie. Erano carine, le due tedesche, e quella più carina si chiamava Mila, l’altra Jule, venivano da Stoccarda, e quella più carina era davvero la ragazza più carina che avessi mai incontrato, mentre l’altra non è che non fosse carina, ma rispetto a Mila scompariva. E Paolo s’era messo a fare lo stupido come solo lui sapeva, matto d’un Paolo. Che non sapeva nemmeno una parola di tedesco ma aveva cominciato a dire frasi senza senso, così, giusto per far ridere le ragazze, parole come krapfen, doberman, strudel, kaputt, fahrenheit, Muller, Rummenigge. E loro, le ragazze, piegate in due dalle risate, che se non le avessi viste con i miei occhi non c’avrei mai creduto, matto d’un Paolo. Che poi s’era alzato e s’era avvicinato alla più carina, Mila, e l’aveva presa per mano e insieme s’erano messi a correre verso il palco, e l’altra, Jule, che mi aveva guardato e s’era alzata anche lei e anche lei m’aveva preso per mano e c’eravamo messi a correre pure noi verso il palco. Matto d’un Paolo. Che poi dopo il concerto eravamo andati tutti e quattro a mangiare patate fritte e a bere birra, e dopo aver mangiato patate fritte e bevuto birra eravamo saliti sull’A112 dello zio di Paolo, io alla guida, Jule a fianco, dietro Mila e Paolo, e dopo aver girato in lungo e in largo per le strade di Avignone c’eravamo fermati vicino a dei giardini bellissimi e con dei prati verdi che erano verdi anche se era notte e i colori non è che si distinguessero tanto bene. Matto d’un Paolo. Che poi eravamo rimasti in silenzio per un po’ ad ascoltare la radio e a guardare i giardini con i prati verdi, seduti dentro l’A112 dello zio di Paolo, con Mila e Jule che ci guardavano e cercavano di ripetere i nostri nomi. Matto d’un Paolo. Che a un certo punto avevo guardato nello specchietto retrovisore e avevo visto che lui e Mila si stavano baciando, e un po’ c’ero rimasto male, ché Mila era davvero la ragazza più carina che avessi mai incontrato. E avrei voluto baciarla io, Mila, ché la sua bocca sembrava di pesca e di rugiada, ché le sue tette erano davvero uno schianto, Mila. Ma poi Jule mi aveva buttato le braccia al collo e s’era messa a sbaciucchiarmi le orecchie, così m’ero distratto, avevo chiuso gli occhi e avevo baciato Jule, anche se il mio desiderio sarebbe stato quello di baciare Mila, e la sua bocca di pesca e di rugiada.

Andare…

Andare, star seduti, fare nulla.

C’è stato un periodo in cui io e Paolo eravamo proprio stanchi di star seduti per ore su una panchina alla stazione dei treni. A fare nulla.

Prendiamo il treno e andiamo, diceva lui.

Andiamo, e poi?, dicevo io.

Andiamo e basta. Senza fermarci mai, diceva lui.

Guarda che questa è un’isola, gli dicevo io.

E allora?, mi diceva lui.

Allora puoi andare dove vuoi, fin che vuoi, ma poi ti devi fermare, c’è il mare, e ti devi fermare per forza, gli dicevo io.

Dovrebbero inventare i treni subacquei, mi diceva lui.

I treni subacquei. Ne diceva di cazzate, Paolo. Matto d’un Paolo, che voleva andare, andare. Con i treni subacquei. Ma ne diceva di cazzate, quel matto d’un Paolo.

Poi un giorno Paolo non l’ho visto più. Sparito. Svanito.

Niente andare, niente star seduti sulla panchina alla stazione, niente far nulla. Era sparito, Paolo. Non lo si trovava più. Da nessuna parte. Proprio come quando era scappato da casa e l’avevo trovato giù al fiume. Sparito.

Matto d’un Paolo.

Da quel giorno lì, dal giorno della sua scomparsa, non ho fatto altro che cercarlo. Sono andato dappertutto. Sono andato in tutti i posti dove lui diceva di voler andare. Ho preso il treno, e poi mi sono fermato davanti al mare. Ho preso il treno subacqueo, e sono sceso a tutte le stazioni. Non ne ho saltata una. Ma di Paolo neanche l’ombra. Niente di niente.

Matto d’un Paolo.

Ho continuato a cercare. A vagabondare per piazze e viali di città mai viste prima, a scrutare nei vicoli e nelle strade, nei palazzi e nei cortili, a bere nei bar, a incontrare gente, a chiedere, a scrivere, a dire, a raccontare, a spiegare, a ricordare. Ho continuato a inseguire il suo profilo, a braccare la sua immagine, a rincorrere il suo spirito.

Ma Paolo non l’ho più trovato.

Ora che è inverno e che il cielo è scuro e non smette di piovere, ora che è buio dentro e che vivo in una città di confine, ora che non cerco più una terra promessa e che non ci sono più stelle a guidare il mio cammino, ora che la memoria è un fiume senza argini e che gli anni son leggeri, ora sì, ora Paolo ho smesso di cercarlo.

E mi piace pensare che sia sempre stato in viaggio, quel matto d’un Paolo, come un vero migrante, come un nomade senza destino, come una nuvola spronata dal maestrale.

Paolo, con le labbra distese in un sorriso.

E nella testa un blues di frontiera.

Loading

2 commenti »

  1. Bello, ben scritto. Malinconico. Mi è piaciuto.

  2. Mi è piaciuto, ha un bel ritmo, che incalza. Un racconto ipnotico.

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.