Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2017 “Stefano” di Sara Bernabeo

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017

“Andrea s’è perso, s’è perso e non sa tornare”

(F. De André)

 

Stefano fu svegliato dal rombo dei tuoni.

 

Da quanto si era appisolato? Un’ora? Un minuto? Non riusciva a capirlo. La coperta ruvida gli graffiava il viso, e le fitte alla schiena lo tormentavano.

 

Prese a girarsi da una parte all’altra, mentre i lampi rischiaravano il cielo – il temporale era imminente – ma il sonno non voleva saperne di tornare a concedergli una tregua.

 

A fatica si alzò dal suo giaciglio arrangiato e, carponi, uscì dalla tenda: gli mancava l’aria, lì dentro. Fuori la temperatura era rigida, nonostante fosse quasi estate, e il freddo sulla pelle gli regalò un immediato sollievo. Respirò a fondo, fino a quando sentì il nodo che gli serrava la gola sciogliersi pian piano. Poi, avvolto nella coperta, Stefano accese il fornello da campo che usavano per cucinare, e vi si accovacciò accanto.

 

Al chiarore di quella fiamma, poteva scorgere le sagome delle tende dove i suoi compagni riposavano; non li vedeva, ma riusciva a immaginarli: si agitavano, alcuni parlavano nel sonno, qualcuno di tanto in tanto urlava, angustiato dai bombardamenti che gli affollavano la testa. Il giovane soldato sapeva che nessuno di loro dormiva davvero, nonostante le raccomandazioni del generale di riposare un po’, prima dell’alba. Prima dell’attacco.

 

Stefano si lisciò con una mano il capo rasato, e chiuse gli occhi.

 

 

“Che fai con quel rasoio? Non vorrai…?”

“Devo. Se non lo faccio, lo faranno loro una volta arrivato lì. È obbligatorio, è per curarti meglio le ferite alla testa, se ti fai male. Così dicono.”

“Se è così, allora… Ti aiuto io?”

“Grazie.”

Le loro dita si erano sfiorate nel passarsi il rasoio, e Stefano non aveva potuto trattenere un sorriso, anche se aveva voglia di piangere. Era rimasto immobile a guardare i suoi riccioli, i suoi bei riccioli neri cadere a terra uno dopo l’altro. “Come soldati su un campo di battaglia” aveva pensato, arricciando le labbra in una smorfia di malcelato sarcasmo.

“Ecco. Finito.” Le mani di Andrea gli carezzavano la testa nuda.

Stefano aveva indugiato ancora un attimo, nel tentativo di scolpirsi quell’istante nella mente. Poi si era alzato.

Una ciocca di capelli gli era rimasta nell’incavo del collo, la sentiva solleticargli la pelle; senza pensarci l’aveva raccolta con cura, lisciandola un poco, aveva afferrato la mano di Andrea e vi aveva chiuso dentro il ricciolo superstite: “Tornerò presto, te lo prometto” aveva detto. Andrea aveva stretto il pugno e aveva annuito in silenzio.

 

 

Quando le prime gocce di pioggia gli bagnarono la faccia, Stefano si riscosse. Controvoglia, si trascinò di nuovo nella tenda, e lì rimase, sveglio, fino al momento fatidico: quello dell’attacco.

 

***

 

Ma l’attacco non ci fu.

 

Il temporale era cessato da poco, e la nebbia inghiottiva i volti stralunati dei soldati che uscivano uno dopo l’altro dai loro ripari notturni. Ombre di loro stessi, centinaia di giovani uomini si aggiravano nell’accampamento in attesa di ordini da eseguire, ma era evidente che qualcosa non andava.

 

“L’attacco è rimandato…”

“Il tempo è troppo cattivo, non si fa niente…”

“Attacchiamo tra due ore, forse. O domani…”

 

Le voci si rincorrevano, rimbalzavano da una bocca all’altra, si disperdevano insieme alle raffiche di vento che schiaffeggiavano l’altopiano; ben presto, però, la situazione fu chiara: il maltempo aveva intralciato i piani, la Difensiva Ipotesi Uno – la grande azione militare contro gli austriaci, in programma da mesi – non poteva procedere in condizioni tanto avverse.

 

Durante quel trambusto, Stefano si era tenuto in disparte, nella sua tenda, chiuso in un mutismo di sollievo misto ad angoscia. Quella tregua forzata non sarebbe durata a lungo, questa era l’unica certezza.

 

 

“Mi vedrai tornare da qui” aveva detto ad Andrea.

Erano usciti per fare due passi, ché a stare in casa, seduti al tavolo dove tante volte avevano cenato insieme, non ce la facevano più; si erano incamminati fuori dal paese, fino ad arrivare sul colle che dominava la vallata. Ci andavano spesso, lassù, dopo il lavoro nei campi, quando il sole iniziava a tramontare, e si stendevano a riposare in mezzo alle violette che d’estate riempivano il prato. Stefano aveva indicato l’orizzonte. “Sarai il primo a vedermi, quando tornerò. Anzi, guarda: sali qui sopra”  gli aveva detto, saltando sul bordo del pozzo che si trovava proprio accanto a loro “così vedrai ancora più lontano, e mi riconoscerai anche se sarò piccolo come una formica” aveva scherzato.

Andrea si era messo a ridere; poi, prendendolo per un braccio, l’aveva tirato giù: “Non vorrai romperti una gamba il giorno prima di partire, eh?”.

Andrea aveva riso ancora, mentre Stefano atterrava tra le sue braccia.

 

 

Fu così, rannicchiato e assorto, che Gigi lo trovò.

“Stefano! Ti cerco da un’ora. Dov’eri?” gli disse.

“Sempre qui, amico mio. Non mi sono mosso. Che succede?”

“È ora di muoversi invece, dammi retta” lo incalzò quello, muovendo in aria le mani.

“Hanno detto che non si fa niente prima di domani mattina, cosa vuoi che facciamo?”

Gigi sospirò, e gli si sedette accanto.

“Ma tu credi davvero che sopravviveremo a questa pazzia, eh?” Il suo tono si era fatto più calmo, ma era una fiamma viva quella che gli accendeva lo sguardo.

“Che vuoi dire?” chiese Stefano.

“Voglio dire che questo non è un attacco. è un suicidio. Ipotesi Difensiva, hanno detto che si chiama, così pensano di farli fessi, agli austriaci, hai visto che bella trovata, uhm? Fanno il piano d’attacco, e lo chiamano difesa, e quest’è tutta la grande strategia del nostro generale. Pensa di farci fessi pure a noi. Ci manda a morire, ci manda, e se ne fotte. Quelli sanno tutto, ci stanno aspettando, ci fanno fuori a tutti”.

“E allora? Che ci vuoi fare? Che ci possiamo fare, noi?” Stefano aveva timore della risposta, e nello stesso tempo non attendeva altro.

“Ce ne dobbiamo andare. Domani, appena iniziano i bombardamenti, nessuno starà a guardarci. Alle spalle dell’accampamento c’è un punto cieco, vieni a vedere”

“Gigi, non è una buona idea, se non ci riusciamo lo sai cosa…”

“Moriremo. Moriremo lo stesso. Vuoi rivedere la tua famiglia, Ste? Vuoi rivedere Andrea?”.

 

I due ragazzi si diressero verso il punto indicato da Gigi. “Guarda Ste, vai a vedere. Là, a destra, dietro a quelle rocce. Se ci schiacciamo bene a terra, e siamo veloci, non ci vedono. Poi basta correre, corriamo, corriamo finché non siamo lontani. Vai a vedere. Io rimango qua, a controllare se arriva qualcuno”.

Stefano non aveva proferito parola, durante la spiegazione dell’amico, ma aveva ascoltato con attenzione. E quello che pensava, mentre si allontanava per ispezionare la via di fuga, era che Gigi aveva ragione.

Non era la loro guerra, non era come i giornali scrivevano, non era come aveva creduto. Come avevano voluto fargli credere.

Non ne poteva più, nessuno di loro ne poteva più.

“Soldato!”

Stefano si voltò di soprassalto. “Sissignore!” rispose, mettendosi sull’attenti davanti al tenente che lo stava scrutando dalla testa ai piedi, accigliato.

“Che stai facendo qui?”

“Signore, io…” Stefano si guardò intorno, non sapendo cosa dire.

“Sei da solo?”

“Sissignore” rispose Stefano alzando il mento. “Io volevo solo…”

“C’è bisogno di uomini ad armare i cannoni. Seguimi” lo interruppe l’ufficiale.

 

Gigi, che non aveva visto il tenente arrivare, rimase a distanza a fissare l’amico che veniva portato via.

 

***

 

Non ci fu, per i due, occasione di parlare di nuovo fino a sera inoltrata, quando era ormai ora di ritirarsi per la notte. I primi bombardamenti erano previsti per le cinque del mattino seguente. “Procederemo con l’operazione qualunque siano le condizioni climatiche” aveva annunciato il generale. “Un’ulteriore procrastinazione comprometterebbe irrimediabilmente il piano”.

 

Quando Gigi riuscì ad avvicinare Stefano, seppe che il tenente l’aveva tenuto d’occhio per tutto il pomeriggio. “Ha capito a cosa stavo pensando, Gigi, e mi ha voluto avvertire” spiegò Stefano all’amico.

”Ma no, che dici, cosa ha capito… non ha capito niente, quello, come al solito, stai tranquillo.”

“Ti dico che è così” continuò Stefano. “Vai senza di me, ma salvati. Almeno tu.”

Gigi fece per ribattere, ma Stefano lo bloccò con un gesto della mano. “Fammi solo un favore” disse a bassa voce. “Se mi succede qualcosa… sai, mandano quella cartolina, e basta… almeno così ha pure queste due parole mie…” e gli porse un foglio piegato a metà che aveva estratto dalla tasca.

Gigi ammutolì per qualche secondo, incerto sul da farsi.

“Se arriverò a destinazione io, lo farà anche questa” rispose alla fine, prendendo in consegna la lettera. “Non devi preoccuparti. Buona fortuna, amico mio”.

 

***

 

Come preannunciato dal generale, all’alba del giorno seguente l’attacco ebbe inizio. La nebbia che da due giorni si era posata sull’altopiano non aveva accennato a diradarsi, e i bombardamenti proseguirono per l’intera mattinata.

Stefano, in prima linea insieme ad altre decine di sventurati, aspettava l’ordine del generale. “All’attacco!”. Alla cieca, baionetta in braccio e piedi inzuppati, quei soldati poco più che bambini si lanciarono in direzione delle trincee nemiche; non vi arrivarono mai.

Le mitragliatrici austriache, nascoste tra le rocce, attendevano l’esercito italiano e lo accolsero col loro benvenuto di fuoco. Aveva percorso già cento metri Stefano, quando, colpito dalla raffica, si accasciò al suolo, in mezzo ai compagni già cadaveri; il respiro si faceva più lieve e anche il dolore pian piano svaniva, mentre due ragazzi sorridenti lo guardavano dalla foto che stringeva tra le dita. Anche se non riusciva più a distinguerne i contorni, fissò il suo sguardo negli occhi di carta di Andrea, e così rimase, aggrappato fino alla fine al pensiero agrodolce dell’ultima lettera che era riuscito a scrivergli.

 

Quello che non seppe mai, fu che le sue parole di addio per Andrea si erano fermate a pochi chilometri di distanza da lì: impregnate di sangue, giacevano nella giacca di Gigi, raggiunto alle spalle dalle pallottole riservate a chi tentava di fuggire da quell’inferno.

 

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4 commenti »

  1. Sara,

    che stupenda e difficilissima avventura hai intrapreso tingendo di nuova vita un capolavoro di De Andrè.

    Il risultato è ottimo: ti sei (narrativamente) aggirata tra le meraviglie dell’amore e la stupida insensatezza della guerra con uno stile nobile, composto, rispettoso della delicatezza dei temi che hai sapientemente sviluppato.

    In questo contesto, balena agli occhi l’inganno del vedersi costretti a sacrificare sogni, aspettative, utopie in nome di un intangibile, freddo ideale collettivo.

    E mai come oggi, spero che il tuo Andrea non scelga “un pozzo più fondo degli occhi, della notte e del pianto”, tentando piuttosto di risorgere all’alba di un nuovo amore.

    Complimenti.

  2. Grazie mille, Lorenzo.
    Il timore di non essere all’altezza, quando si tenta di rendere omaggio a un grande come De André, è tanto: le tue parole mi fanno davvero piacere! Grazie ancora!

  3. “Non era la loro guerra, non era come i giornali scrivevano, non era come aveva creduto. Come avevano voluto fargli credere.” un racconto che ci riporta sul tema non facile della guerra e ad alcune imbarazzanti domande che come cittadini dovremmo porci: gli interventi delle nostre Forze Armate solo “ipotesi difensive? ” .Brava

  4. Grazie Anna Rosa!

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