Premio Racconti nella Rete 2017 “Qualche no ben assestato” di Emanuela Bianchi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017Quando ero molto piccola, dovevo avere sì e no cinque o sei anni al massimo, sospettavo, o meglio, ero fortemente convinta, che i miei genitori sapessero, ma non volessero dirmi, di avere una figlia, la loro ultima figlia, ovvero me stessa, diversa dalle altre. Eravamo quattro sorelle e io, che ero la più piccola, non somigliavo a nessuno. La diversità che temevo, però, non consisteva nella distanza fisica con la mia famiglia. Il mio essere più robusta delle mie sorelle e l’avere occhi, naso e denti piccoli laddove entrambi i miei genitori avevano tratti pronunciati e, volendo essere onesti, anche grossolani, mi turbava poco dal punto di vista meramente estetico. Tuttavia ero certa che quei tratti suggerissero un segreto che i miei genitori volevano nascondere a tutti, tacendolo a me per prima e persino a loro stessi: io ero una bambina speciale.
Speciale all’epoca non era affatto un complimento e, in virtù di quello che credevo significasse per me allora, non poteva in ogni caso essere altrimenti. Qualche tempo prima avevo conosciuto un lontano cugino, figlio di chissà quale zia di mia madre, spedito a respirare l’aria di mare da noi, che al mare vivevamo tutto l’anno e non per questo ci sentivamo più sani. Questo cugino di mia madre, Saverio mi pare si chiamasse, era un ragazzo basso e piuttosto in carne, ultimo di undici figli, dal viso inusuale e con palesi impedimenti linguistici. Quando all’inizio dell’estate mi fu presentato come l’ospite che avrebbe occupato la mia stanza per qualche settimana, ricordo che risi per l’imbarazzo di non capirlo, ma non feci in tempo a cercare soccorso in mia madre che lei mi allungò uno schiaffo in piena guancia. Dopo, in disparte, mi disse che Saverio era speciale e che come tale dovevo trattarlo. Le risposi che Saverio non era speciale, ma strano, diverso, e lei mi dette un altro schiaffo.
Quell’estate imparai il significato dell’aggettivo speciale e tutta l’ambiguità che esso comportava. Mettendo insieme i miei ricordi di allora e quello che ho imparato una volta adulta, posso adesso immaginare che Saverio avesse la sindrome di Down, ma da bambina sapevo solamente quello che riuscivo a carpire dalle conversazioni tra mia madre e mio padre. Dai loro discorsi, sempre sussurrati alle spalle di noi figlie, mi era sembrato in qualche modo di intuire che Saverio avesse un ritardo mentale difficile da quantificare, perché si trattava di una caratteristica variabile di quel tipo di disabilità che gli era toccata in sorte. Quella variabilità era anche il motivo maggiore di disaccordo tra i miei genitori, perché su essa basavano il loro modo di trattare Saverio e la scelta su cosa vietargli. Ovviamente la mia era una comprensione della faccenda molto epidermica che non si esprimeva consapevolmente nei termini con i quali da adulta ho poi chiarito la questione. Sentivo che Saverio era in qualche modo diverso da noi sorelle, non in quanto unico maschio oltre mio padre, il quale comunque era a casa solamente di sera, ma in quanto inusuale di per sé. Oddio, avrei detto inusuale se avessi saputo mettere in parole il mio stupore per le cose inaspettate che Saverio faceva, ma da bambina credo pensassi a lui come divertente e basta. Mi piaceva abbastanza giocare con lui, mi sembra. Tuttavia la questione dei privilegi che gli venivano concessi mi lasciava interdetta.
All’epoca, che io ricordi, non si sapeva come fosse meglio comportarsi. Si tendeva, credo, a lasciar correre molti aspetti dell’educazione, con l’idea di fondo che un inserimento nella società non fosse previsto per persone come Saverio, destinate alla cura autoreferenziale e autogestita della famiglia. O forse eravamo noi a non sapere cosa fare, un noi ampio che includeva non solo i miei genitori e le mie sorelle ma anche i nostri vicini e i genitori stessi di Saverio, che lo avevano lasciato al mare con serena noncuranza della nostra impreparazione, grande tanto quanto la loro, probabilmente. Oggi, forse in virtù del lavoro che mi sono costruita, in questo teatro così pieno di adolescenti e nei laboratori che propongo ogni anno per favorire l’integrazione della disabilità nelle scuole, o forse soltanto perché i tempi sono cambiati, i falsi miti della sana vita contadina sono morti insieme al fascismo e il boom economico ci ha inurbati portandoci ad avere figli sempre più tardi, oggi saprei cosa consigliare ai miei genitori. Saprei dir loro, credo con un margine di incertezza piuttosto piccolo, questo sì, questo no, questo forse, questo a volte, questo dipende. Ma ai tempi penso che nessuno fosse sicuro sul come comportarsi. Se fosse impreparazione o disattenzione, disinteresse, non so dirlo. So che a Saverio, almeno in casa nostra, erano concesse cose che a nessuna di noi figlie erano mai state consentite: poteva rubare il pane dalla dispensa, alzarsi da tavola a metà dei pasti, rifiutarsi di apparecchiare o rifare il suo letto, poteva rispondere a mia madre che no, lui non voleva fare quello che lei suggeriva, ma altro, molto spesso giocare, e poteva persino portare in casa i gattini del cortile che avevano più pulci di peli sul corpo. I miei genitori si trovarono a fare i conti con domande che, prima del soggiorno di Saverio, mai avrebbero pensato di porsi. Una su tutte credo tormentasse entrambi: poteva Saverio baciare le loro figlie? Mio padre, da patriarca geloso quale è sempre stato, prodotto di un’epoca in cui le distanze rappresentavano una forma di rispetto e amore verso il prossimo, avrebbe voluto che le proprie figlie rimanessero innocenti, non solo illibate, ma persino mai sfiorate da mano maschile, fino al giorno del loro matrimonio, tanto che neppure la sua propria mano osava carezzarci, se non la testa, la sera, per la buonanotte. Eppure di fronte all’esuberanza di Saverio, davanti a quel suo modo sfrontato ed eccessivo di abbracciarci, mio padre si bloccava, impietrito, nella paura di imporre limiti che ad un altro ragazzo non avrebbe mai permesso di oltrepassare. Avevo sentito mia madre lamentarsi di questo e mio padre chiederle in risposta quali fossero i divieti che lei proponeva per Saverio, quanto pensasse che lui potesse comprenderli e, soprattutto, come farli rispettare. E mia madre, con quel certo cocciuto buonismo che ha portato avanti tutta la vita nutrendolo di grande fervore religioso, capitolava.
Fu in questo clima che pian piano, dalle scarse informazioni che avevo raccolto e dal ripetuto passaggio davanti allo specchio dell’ingresso, si iniziò a formare in me l’idea di essere come Saverio. Ricordo che iniziai a tenere i capelli davanti la faccia per nascondere agli altri, ancora secondo me inconsapevoli della mia condizione, i dettagli del viso che sentivo come rivelatori di una somiglianza sospetta, unica caratteristica, a dire il vero, sulla quale era basata la mia convinzione di essere come Saverio. Non so perché mi vedessi così simile a lui nei tratti. A posteriori, guardando le vecchie foto negli album ingialliti della libreria, non posso che pensare di aver avuto una percezione di me stessa alquanto discutibile. Eppure mi sentivo come lui. Come lui ma in modo meno grave. Immaginavo una pagina di quaderno colorata con il pastello rosso in sfumature che, grazie alla pressione della mano, viravano dal rosa chiaro al rosso intenso: ecco, io e Saverio eravamo due intensità diverse dello stesso colore. Lentamente, quell’estate, si insinuò in me il dubbio che i miei genitori sapessero del mio essere speciale come Saverio. Sapevano, ma tacevano, per proteggermi dall’affetto incerto ed eccessivo che le persone mostravano verso mio cugino. In quelle sere estive, calde e afose, quando il buio mi faceva sentire sola in una stanza che per le abitudini moderne sarebbe considerata piuttosto affollata, ripercorrevo i gesti dei miei genitori nei miei confronti, cercando di capire se ciò che mi era concesso fosse più o meno di quello che veniva permesso agli altri. Le mie sorelle, prima pietra di paragone, erano piuttosto grandi rispetto a me e per questo mi era sempre sembrato naturale ricevere maggiori attenzioni e, con esse, maggiori libertà. Quando Saverio entrò nella mia vita, però, iniziai a chiedermi se invece non mi sfuggisse la piena comprensione delle cose. Iniziai allora ad osare di più, tirando la corda della mia educazione, sfidando le piccole regole che mi erano state date e osservando le reazioni che provocavo, spesso traendone come conclusione che, sì, vi era un certo lassismo nei miei confronti, un lassismo che imputerei ora a quel clima spensierato tipico dell’estate ma che mi sembrava allora conferma di ogni mio dubbio. Dal momento che, per quanto sciocca io possa essere stata, non ero in fondo del tutto cieca, notavo che per Saverio c’era un occhio di riguardo maggiore che per me, ma questo era tuttavia perfettamente coerente con la mia idea che io e lui fossimo gradazioni diverse dello stesso fenomeno, per le quali mia madre e mio padre avevano evidentemente concordato linee guida differenti.
Un sera più tormentata delle altre, quando ormai ero convinta di sapere cosa i miei genitori mi nascondessero, credendo che fosse inutile continuare una farsa che non giovava a nessuno, men che mai a me stessa, dissi a mia madre mamma, dimmelo, ti prometto che non lo dico a nessuno, se tu non lo vuoi e lei rispose cosa, tesoro? con quello che sul momento mi sembrò un timore trattenuto, ma che nelle ore successive interpretai poi come sincero stupore. Non ero impreparata a quella reazione. Conoscevo mia madre, il suo testardo modo di essere buona, amorevole fino alla nausea, la vittima sacrificale di casa. Sapevo che avrebbe mentito a chiunque, forse persino al prete in confessione, pur di risparmiare sofferenze che poteva caricare sulle proprie spalle. La conoscevo e, quella notte di fine estate, avevo tutta l’intenzione di scardinare la sua granitica protezione, farla a brandelli e liberarmi del peso che il sospetto mi premeva sul petto. Non avevo paura di essere come Saverio. Temevo, piuttosto, di non avere la percezione giusta delle cose, di essere tagliata fuori, impotente, da una fetta di mondo. E di quella fetta volevo che mi venisse detta l’entità esatta, perché se la avessi saputa, nessuno avrebbe mai potuto ferirmi, mi sarei salvaguardata da sola, senza che i miei genitori mi isolassero come isolavano Saverio, pascendolo di soddisfazioni come si nutre un canarino in gabbia. Io, da parte mia, a Saverio avevo detto che non volevo essere baciata e che non poteva toccare le bambole sul mio letto senza il mio permesso e lui mi aveva capita al volo. Ovviamente, direi ora alla me stessa di allora. Ovviamente, perché Saverio non era affatto stupido e comprendeva benissimo il valore di qualche no ben assestato. Il suo problema era, riguardandolo con gli occhi di oggi, che nessuno si premurava di dargli alcun riferimento. Io di riferimenti non capivo nulla al tempo, ma sapevo cosa non desideravo. Niente baci avevo chiarito quando mi fui saturata della espansività di mio cugino. E, misurato il successo di quella mia richiesta, qualche tempo dopo avevo introdotto la regola sulle bambole. I miei genitori non si erano accorti di nulla e, credo che, anche avessero visto, anche avessero notato come io avevo imposto delle cose, cose più che ragionevoli, a mio cugino, si sarebbero domandati se non fossi stata troppo dura, arrivando forse a rispondersi persino di sì. Ed era proprio quella bontà non necessaria che io temevo. O almeno volevo che, se proprio ero destinata a ricevere quel trattamento, fosse chiaro a tutti che lo accettavo scientemente, sapendo di essere considerata speciale. Per questo, quella sera in cui presi il coraggio a piene mani, proseguii il dialogo con mia madre dicendole mamma, dimmelo se sono speciale, per me va bene esserlo, non preoccuparti. Lo dissi con un filo di voce ma lei mi udì lo stesso e restò immobile per qualche secondo. Dei secondi lunghissimi in cui potei sentire la pressione dell’aria dentro le orecchie e lo scricchiolare dei miei capelli. Poi fece una cosa che non faceva spesso: scoppiò in una risata squillante, grassa, irrefrenabile, dalla quale mi sentii quasi schiaffeggiata. Rise, io penso, perché la sua bambina le aveva sussurrato, vergognandosene, il dubbio, che lei interpretava probabilmente come anelito, di essere una persona atipica. Rideva, come sorrido io ora nel ripensarlo, del fatto che non solamente la sua piccola si sentisse una persona fuori dal comune, ma che si dimostrasse persino pronta, dall’alto dell’esperienza dei suoi pochi anni di vita, ad assumersi il peso di tanta supposta peculiarità. Non la sfiorò nemmeno l’idea che pensassi a Saverio, che le chiedessi chi ero rispetto a lui. E io non insistetti oltre.
Quando mi lasciò sola nel mio letto, dopo molte parole alle quali non avevo prestato alcun orecchio e che difatti ho totalmente dimenticato, rimasi con gli occhi sbarrati a ripercorrere ancora e ancora i gesti dell’estate che avevo alle spalle. Ripensai agli sguardi di mia madre, sempre benevoli nei miei confronti, ma, di fatto, a voler guardare bene, meglio di come avevo fatto sino a quel momento, sempre benevoli verso tutti quanti, pronti ad un anticipato perdono, ad una ottusa condiscendenza, improntati a quei principi della Bibbia che mi aveva fatto imparare ancor prima di portarmi a iniziare il percorso della comunione. Ripensai alla flessione della sua voce nel chiedermi cosa, tesoro?, sorpresa più che tesa, mi dissi, concedendomi di essermi sbagliata. Risentii sulla pelle l’eco della sua risata aperta e poi della ilarità più sommessa quando, oltre la porta, nella cucina ancora attiva e illuminata, raccontò a mio padre quello che le avevo domandato, o almeno ciò che lei pensava io le avessi chiesto. Fu ascoltando mio padre risponderle quella bambina… una ne fa e cento ne pensa che infine mi convinsi: i miei genitori non lo sapevano. Per un qualche motivo a me ignoto, i miei non erano al corrente della situazione, e, anzi, neppure li sfiorava l’idea della condizione nella quale ero ormai certa di trovarmi. Si trattava dunque di un segreto, un personalissimo inconfessabile segreto, che, mi promisi, avrei custodito come un piccolo tesoro. Perché, mi dissi quella notte, si trattava a tutti gli effetti di un tesoro: una sfumatura rarissima di una realtà già rara, una sfumatura talmente impercettibile che persino i miei genitori, che pure mi conoscevano da sempre, non erano riusciti a intuire. E fino a che ne avessi avuto consapevolezza e controllo, fino a che avessi potuto spingermi ai limiti della mia capacità di comprensione e lì, sul bordo indefinito del mio intelletto, avessi potuto misurare la distanza con quello che gli altri, eventualmente, sembravano capire in più rispetto a me, allora avrei potuto gestire facilmente il mio status. E nessuno mi avrebbe amata troppo per pura bontà d’animo, nessuno mi avrebbe voluto bene per i motivi sbagliati. Mi avrebbero criticata per ogni errore e mi avrebbero lodata solo se lo avessi meritato, così come faccio sempre ora, nel mio lavoro, indipendentemente da chi ho davanti. In quell’estate epifanica, però, Saverio mi aveva mostrato che l’essere speciali comportava dei privilegi pesanti, che avrei evitato solo se fossi riuscita a non far trapelare quanto io e mio cugino ci somigliassimo.
Non ricordo per quanto tempo io mi sia impegnata a nascondere la persona che credevo di essere. Ad un certo punto della mia infanzia devo aver semplicemente dimenticato Saverio, quell’estate e il mio segreto. Eppure continuai a lungo a sentirmi inadeguata, pascendomi di nuove certezze create da me medesima e rivelate soltanto a me stessa, e in tutta onestà credo di non aver mai smesso.
Emanuela, quanto dolore nel crescere e quanta l’inadeguatezza del genitore che semplifica: ‘che preoccupazioni può avere alla sua età?’ condizionano lo sviluppo equilibrato di una persona! Racconto impegnativo, denso, difficile da leggere e non perché scritto male, anzi. Racconto che fa fare i conti con la continua estenuante lotta per l’accettazione di sé.
Paola, grazie per aver letto il mio racconto e per aver lasciato il tuo commento. Esatto: e’ un racconto sul senso di inadeguatezza che, giustificato o meno, spesso ci accompagna.