Premio Racconti nella Rete 2017 “Lo Sguardo dell’Artista” di Chiara Capelli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017Nicola Grassi, seduto sulla sua poltrona preferita, stava guardando il dipinto. Non era ancora pronto, decise, e si accese una sigaretta, il suo unico vizio. Quando cercava di spiegare quel momento ai bambini delle scuole o ai giovani artisti vivaci e ambiziosi, lo paragonava allo sviluppo di una fotografia quando ancora c’erano le camere oscure e l’immagine emergeva lentamente dal liquido della vaschetta. Quando un ritratto era finito, lui si sedeva e lo guardava. Chiudeva gli occhi, li riapriva, sgombrava la mente di ogni pensiero e aspettava che qualcosa, il suo inconscio? il dipinto stesso?, gli suggerisse cosa mancava. Il quid che avrebbe trasformato l’opera di un artigiano provetto nell’intuizione, spiazzante e rivelatrice, dell’artista che da anni era acclamato uno dei più grandi del secolo. Un reporter fantasioso, più di vent’anni prima, aveva definito il suo talento come lo “Sguardo dell’Artista” e l’espressione aveva avuto fortuna, tanto che numerosi giovani, presentandogli le loro opere, lo interrogavano ansiosamente: “Maestro, possiedo lo Sguardo?”.
Nicola non sapeva cosa rispondere. Lui dipingeva così ma era il suo modo di ritrarre, non l’avrebbe mai imposto ad un altro. Tuttavia non scacciava chi si presentava allo studio con un paio di tele, accuratamente impacchettate, sotto il braccio. La sua porta era sempre aperta, tanto che il suo agente lo rimproverava bonariamente di essere troppo buono.
La bontà era un’altra dote che tutti riconoscevano a Nicola. Lui dava la colpa al suo aspetto: era grande e grosso ma con un’espressione bonaria ed intelligente. La folta barba bianca e la voce calda e pacata lo rendevano il candidato perfetto per il nonno buono.
Sulla scrivania, alle pareti si ammucchiavano alla rinfusa le lettere di ringraziamento, i riconoscimenti, le foto. Neppure Nicola ricordava con precisione tutte le buone cause che avevano ricevuto il suo appoggio e, spesso, i suoi soldi.
Il suo ultimo progetto aveva fatto scalpore.
Il campo di Nicola erano i ritratti. Da sempre lui dipingeva persone. Aveva anche provato a cambiare temi e soggetti, nature morte, animali, paesaggi, perfino qualche opera astratta, ma tornava sempre alle persone, ai loro visi, ai loro corpi. Per lui non c’era nulla di più affascinante.
Il suo talento lo aveva ereditato dalla madre, una maestra silenziosa e dalla splendida mano, ed era esploso quando era ancora un ragazzino. Frequentava la scuola e già lavorava part time alla stazione di Polizia del capoluogo, disegnando gli identikit. Era tanto bravo che lo chiamavano un po’ ovunque, anche fuori dalla provincia. Dopo qualche anno si era dedicato esclusivamente alla carriera artistica. Avevano la sua firma i ritratti dei più famosi protagonisti della scena nazionale e internazionale. Personalità della cultura e dello spettacolo, politici e autorità facevano la fila per essere ritratti da colui che, durante le sedute, riusciva misteriosamente a cogliere l’essenza della persona davanti a lui e a riportarla con i suoi pennelli. Una famosa attrice aveva dichiarato che farsi fare un ritratto da lui era più efficace di un intero anno di terapia psicologica e molti erano d’accordo.
Nel suo ultimo lavoro Nicola aveva ritratto dei detenuti. Mafiosi, assassini, corrotti, ladri. Le autorità dei carceri inizialmente erano perplesse ma non potevano negare i permessi ad un pittore tanto famoso. Così davanti al grande artista si erano seduti i condannati che, come tanti altri prima di loro, avevano scoperto che il silenzio di Nicola era un invito irresistibile a narrare di sé, a scoprirsi, a lui e anche a se stessi. Proprio ascoltando, con le orecchie, il cuore e la mente, era nata quell’idea, celebrata poi come rivoluzionaria. Come sempre il pittore aveva colto il carattere profondo dei suoi modelli, non ne aveva nascosto difetti o qualità ma, in fondo agli occhi di ognuno, aveva dipinto un’ombra luminosa, dalla forma appena accennata. Quell’ombra, presente anche nel delinquente più crudele, rappresentava il punto di luce che ognuno di loro, quasi senza accorgersene, aveva svelato mentre lui dipingeva. Per qualcuno era l’amore per i figli, la moglie o i genitori, per altri un senso di lealtà, per quanto distorto, per altri ancora una passione per qualcosa o qualcuno.
La sua scelta aveva scatenato un vespaio in cui si mescolavano le accuse di buonismo e le lodi sperticate alla sua umanità. Nicola non aveva commentato in alcun modo, limitandosi a rispondere con il silenzio alle domande dei giornalisti, mostrando quella curiosa indifferenza alle opinioni altrui che il suo agente era sempre in dubbio se rimproverare o invidiare.
L’ultimo ritratto in carcere era stato completato il mese prima e ora Nicola si stava dedicando al progetto finale della sua vita, quello di cui neppure il suo agente sapeva niente. In realtà non si sentiva ancora pronto ma la lettera del medico, poggiata sotto un mucchio di corrispondenza, non gli dava scelta. Il tumore, di cui nessuno sapeva nulla e che Nicola si era rifiutato di curare, era tanto avanzato da non lasciargli che qualche mese di vita. Così nella tranquillità del suo studio, aveva lavorato a quello che, come deciso anni prima, sarebbe stato il suo ultimo dipinto.
Era lì, davanti a lui: il suo autoritratto.
Si era raffigurato in piedi, davanti alla porta di una stanza, parzialmente di spalle: quasi chiamato da un interlocutore invisibile appena prima di uscire.
Era lui eppure non era lui, mancava qualcosa.
La porta dello studio si socchiuse e Melchisedek, il grosso gatto bianco, l’unico abitante della casa a parte lui, venne a strusciarsi contro le sue gambe.
L’uomo si chinò e se lo mise in grembo, accarezzandolo. Non avrebbe mai pensato di avere un gatto, un giorno.
Nicola era generoso, paziente e nessuno lo aveva mai sentito alzare la voce ma metteva un’invisibile e invalicabile distanza tra sè e gli altri. Il suo agente, la persona che lo frequentava di più, trovava questo distacco a tratti inquietante. Il pittore non aveva famiglia (era figlio unico ed era rimasto orfano da giovane) e sembrava non avere amici, per non dire fidanzate o amanti. L’unico ad aver fatto breccia nella sua vita solitaria era Melchisedek, il gatto randagio che si era presentato alla sua porta anni prima e ostinatamente era rimasto. Nicola aveva iniziato a tollerarlo, poi ad accettarlo e infine aveva scoperto di essersi affezionato e Melchisedek era diventato ufficialmente il suo gatto.
Ora lo accarezzava distrattamente mentre riportava lo sguardo sul dipinto. I particolari erano riportati con ossessiva precisione e i colori si mescolavano armoniosi, dal magenta del maglione al verde oliva degli occhi.
Erano questi ultimi a non convincerlo del tutto. La tentazione era lì, davanti a lui: in un piattino era pronto un bianco lucente, appena spremuto dal tubetto e il pennello più sottile. Un’ombra luminosa, appena accennata, avrebbe tolto l’opacità dallo sguardo, il velo d’indifferenza.
Tuttavia Nicola aveva giurato di essere onesto con se stesso, l’unica promessa che aveva mantenuto per tutta la vita e si rifiutava di infrangere. Aveva dipinto quel chiarore negli occhi dei detenuti non per ragioni politiche, ideali o umanitarie. Lo aveva dipinto perché c’era, lui lo aveva visto.
Chiuse gli occhi e tentò di nuovo di ascoltare se stesso, l’interlocutore più difficile.
Riandò di nuovo a quella sera, di tanti anni prima. Si rivide, poco più che ragazzino, riempire più volte il bicchiere di suo padre, mentre lui, come al solito imprecava contro il mondo e la sfortuna che lo aveva condannato a ruoli misconosciuti in film di serie B. Suo padre aveva una bellezza appariscente e sfavillava di cordialità al di fuori delle mura di casa. La gente si lasciava incantare dal suo fascino e non vedeva i segni bluastri dei lividi sul petto e la schiena di sua madre né le ferite nella sua anima lasciate dal disprezzo e dall’astio che il marito le rovesciava addosso. Era lei ad essersi lasciata cadere nel fiume distante pochi chilometri da casa ma era stato il padre ad averla spinta. Qualcuno, forse, aveva intuito la verità. A Nicola era sembrato che i poliziotti si fossero accontentati troppo velocemente di incolpare l’alcol, la velocità, il buio, la curva stretta per l’incidente in cui suo padre era morto. Alla Stazione tutti si erano stretti intorno a lui, la mascotte, il giovanissimo disegnatore e nelle loro espressioni c’erano solo dispiacere e comprensione, neppure l’ombra di un sospetto.
Ma anche Nicola, in qualche modo, era morto quella sera e anche ora, dopo tanti anni, per quanto cercasse, non trovava luce dentro di sé.
“Così sia” disse e si alzò faticosamente, poggiando il gatto sul tavolo, accanto al dipinto.
Poi estrasse la pistola dal cassetto, tornò a sedersi sulla poltrona e si sparò.
Il dolore fu immediato ma, mentre si accasciava, fece in tempo a sorprendersi di Melchisedek che, al posto di scappare balzò verso di lui, quasi a volerlo aiutare. Una zampa piombò nel piattino del colore, spandendo gocce di bianco intorno. Una goccia, piccola, infinitesimale, finì sul dipinto appena terminato, proprio al centro di un occhio. Nicola vide stupefatto il ritratto trasformarsi, prendere vita e diventare lui.
“Allora c’era la luce” pensò e chiuse gli occhi.
C’è una luce in ognuno di noi. Messagio di grande umanità. Finale stupendo. Uno dei racconti che mi sia piaciuto di più. Complimenti, Chiara.
Bellissimo Chiara questo racconto, bellissimo il concetto dello sguardo che coglie l’essenza viatale e mortale di ogni essere.
È forse questo che l’uomo chiama arte una piccola goccia di colore messa proprio lì, ne di più ne di meno, di quel colore è solo di quello.
Un infimo dettaglio che cambia il tutto, come la parola a lungo cercata che ti fa dire “ok adesso è finito”
… e adesso respiro perché il tuo racconto toglie il fiato. Grazie per averlo scritto!
il racconto scorre in modo fluido e la figura del protagonista cattura il lettore.
Ben riuscito il ruolo di ritrattista nelle carceri. Finale non scontato dai risvolti psicologici,
Piacevole lettura, brava.
Lo scritto scivola via, bisogna continuare a leggere, poi il finale è costruito ad arte.
Grazie a tutti! è la prima volta che partecipo ad un concorso ed è emozionante ascoltare le reazioni che il racconto ha suscitato in voi.
Grazie Maria Cristina per i commenti sulla struttura del racconto;
Grazie a te, Grazia, per i complimenti e le attente osservazioni sul protagonista;
Grazie Dominique..il tuo “c’è una luce in ognuno di noi” è la sintesi perfetta!
Gianluca, grazie..il tuo commento ha emozionato me!
Ancora grazie a tutti!
Chiara,
l’anima dell’artista, che poi è il seme di tutta l’arte, scorre fluida tra le tue bellissime parole, che narrano di una vita passata a cercare la perfezione e conclusa dinnanzi alla consapevolezza della propria imperfezione di uomo.
Uno scritto caldo e raffinato, con un protagonista, benedetto dal talento e dannato dalla vita, che attrae e coinvolge.
Credo che un finale simile rappresenti la “chiusura di sipario” desiderata da chiunque si avvicini alla pittura.
Bravissima.
Molto bello Chiara, mi ha ricordato in un certo senso il film “I colori dell’anima” e ci ho trovato la questione dell’essenza dell’arte, quel qualcosa che fa la differenza e che distingue il vero artista (che sa trovarla). Davvero una buonissima lettura. Buona fortuna!
Fantastico Chiara, sei riuscita a “dipingere” con sguardo poetico un personaggio complesso, che suscita empatia e malinconia. Scritto davvero bene. Complimenti!
Quel guizzo di vita, che si intuisce anche in chi diventa preda della stanchezza di vivere, sorprende e stupisce fino all’ultimo respiro. E nel tuo racconto la luce arriva da un gatto con un nome che richiama la sacralità, quella dell’antico personaggio biblico e forse anche della vita.