Premio Racconti nella Rete 2017 “Alfredo e Rori” di Ursula Galli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017Alfredo sembra rimpicciolito, più basso, come se si fosse ristretto, prosciugato.
Gli occhi mobili nel volto pallido, la bocca carnosa ancora bella, macchie di vecchiaia tra i radi capelli grigi tenuti corti corti.
Alfredo non parla, non scrive, si esprime a sussurri, borbottii, cerca di farsi capire con sguardi sgranati, se non lo intendono quasi ringhia, sbuffa.
Afasia motoria, incapacità di farsi intendere con la parola, capacità ridotta di comprendere il significato di quello che dicono gli altri.
“Babbo, preferisci il pesce o la carne?”.
Sì sì, con vigorosi rovesciamenti del capo in avanti.
“Ma sì pesce, o sì carne”?
Rori, sua moglie, lo guarda con il cuore pesante.
Gli ha preparato un borsone sportivo con lo spazzolino da denti, il necessaire per il bagno e la barba, il pigiama, mutande e camicia di ricambio, se si sporca. E il costume, le ciabatte, il telo da spiaggia.
Lui se n’era andato di casa due anni prima, voleva vivere i suoi ultimi anni tranquillo, senza vincoli familiari, libero dai tentacoli di quella famiglia di fratelli, cugini, nipoti, pronipoti, matrimoni, battesimi, comunioni, compleanni, natali, capodanni, pasque.
Solo, in realtà, non era, perché di nascosto da tutti stava con Francesca da anni, quanti anni? Due, cinque, dieci? Però non era voluto andare ad abitare con lei, si era stabilito da solo in un piccolo pied a terre in affitto, e non aveva voluto divorziare da Rori, sposata a venticinque anni, fidanzati dal liceo, università insieme, carriera insieme, una coppia brillante, di quelle che si dicono di successo, Rotary e circolo del tennis, vacanze in barca a vela e casa in montagna, gli amici di un certo giro. Ma anche le beghe, i musi, le riappacificazioni, la routine, lui chiuso nel suo studio, lei in gita con le amiche.
Tutto era rimasto sospeso, una lunga pausa di riflessione, o come si dice.
A Rori riaffiora di quando aveva trovato una mattina il criceto della figlia allora piccolina, ora quasi cinquantenne, morto nella gabbietta.
Lo aveva seppellito in giardino, prima che la bimba si svegliasse, e le aveva detto che l’animalino era partito, ma che sarebbe tornato presto.
Ma poi, al lavoro, in riunione con un cliente, a Rori era venuto in mente il dubbio che forse il criceto non era morto, magari era andato in letargo, stava cominciando l’autunno. Atterrita dall’eventualità ma anche speranzosa, aveva mollato in tronco il cliente, aveva disseppellito il roditore, l’aveva portato da un veterinario che probabilmente l’aveva presa per pazza, o un po’ scema, nel darle la notizia che no, il criceto non era in letargo, ma era proprio morto, morto morto.
Rori si chiede se anche Alfredo non possa essere in letargo, una specie, magari fa finta di avere avuto l’ictus perché si è stufato del suo monolocale squallido e della fidanzata più giovane e incolore.
Quando Alfredo aveva avuto l’ictus, era lei, la moglie legittima, che avevano chiamato in ospedale, e Rori si era precipitata, aveva parlato con medici e fisioterapisti, l’aveva accudito e nutrito e lavato e poi ripreso a casa, con un badante e riabilitatori della parola. Nella buona e nella cattiva sorte, in salute e malattia. In salute e in malattia.
Lui non parla, ma è rimasto il solito.
Quando la figlia gli porta in casa il presidente dell’associazione afasici, uno che aveva ripreso a parlare dopo l’ictus, ma al quale era rimasto un braccio paralizzato e rattrappito, Alfredo da dietro gli fa le facce, come a dire, “ma che me lo hai portato a fare”, mimando pure il braccino corto.
Sta sprofondato in poltrona a guardare la tv. Sullo schermo piatto passano le sgranate repliche della Casa nella prateria. Si entusiasma con gli occhi e la faccia a seguire le vicende degli Ingalls, la bella famiglia di pionieri americani la madre amorevole, il padre autorevole, la piccola Laura dai capelli castano-rossi e la bionda sorella Mary più grande che con il passare delle puntate diventa cieca, i vicini spocchiosi con la figlia antipatica.
Quando la loro figlia, età da scuola media, guardava quel telefilm, lui sbuffava e snobbava – gli piacevano L’altra domenica, Linus, la lampada Arco, aveva una stanza interamente dedicata ai trenini, un grande tavolo allestito con il plastico con ferrovia, casine, alberini, e locomotive e vagoni che andavano e venivano.
Rori non si ricorda quando tutto il trenino era sparito dalle loro vite. Forse quando hanno cambiato casa. Da un appartamento in un condominio anni Sessanta a una ben più grande abitazione all’ultimo piano di un palazzo antico, un labirinto di stanze dal pavimento di marmo e le pareti dai colori tenui intorno a una terrazza straripante di piante e fiori.
Una notte, Alfredo se n’era già andato di casa, Rori era rimasta chiusa sul terrazzo – la porta aveva sbattuto per una ventata – e l’aveva ritrovata la mattina dopo piangente e semicongelata, in vestaglia, la filippina. C’erano volute ore prima che Rori si riscaldasse e riprendesse colore. Per tutta la notte aveva avuto il chiodo fisso di un pulcino tinto di verde che avevano portato a sua figlia piccola da una fiera. Erano gli anni primi Settanta e quelle cose usavano: pulcini rosa shocking, blu, viola. Di solito morivano in pochi giorni, per il trattamento tossico. Il loro invece era vissuto ed era diventato un gallo. Impossibile tenere un gallo in appartamento. Gli aveva anche chiuso una zampa nella porta del bagno, e ora aveva due dita invece di tre, da una parte. L’avevano dato a dei contadini e ogni tanto lo andavano a trovare. Un giorno non l’hanno trovato più. Alla figlia avevano cercato di far credere che fosse un altro, il suo galletto, ma lei lo sapeva che aveva una zampa senza un dito e si era disperata. Il pollo arrosto non lo aveva mangiato più.
Alfredo aveva in casa un suo studio con immense librerie con enciclopedie di tutto, Enciclopedia Britannica, Utet, Storia della Marina, collezioni di fumetti, coppe e gagliardetti delle regate a cui partecipava con la barca a vela. Sembrava così attaccato ai suoi oggetti, ai suoi libri, eppure quando se n’era andato non aveva portato via niente, giusto qualche abito.
Il monolocale in cui si incontrava con Francesca, Rori l’ha visto dopo l’ictus, quando è andata a recuperare cellulare e portafogli con i documenti, E’ impersonale, arredato da qualcun altro.
Nel portafogli Rori ha trovato una cosa scritta a mano, dalla “tua Francesca”.
La mia vasca è troppo corta. Non riesco a starci dentro distesa. Le gambe piegate, semiaperte, come una partoriente, la schiena inarcata, il collo incassato. Acqua calda. Bagnoschiuma al tè verde. Da due ore.
Non mi rilasso.
Penso.
La mia bocca sul suo sesso, le mie mani che tengono lontana la sua camicia perché non si sporchi. Lui abbandonato, stupito, non ci si aspetta da me niente del genere. Sono una donna grande, una mamma, non una ballerina di night. Non una che si butta in una relazione clandestina, brevi incontri frettolosi in un ufficio, mani dappertutto, e fuori gente che lo aspetta. Incontri un po’ meno frettolosi all’ora di pranzo in una casa prestata, in un letto dove fino a qualche ora prima dormiva qualcun altro, il pigiama appallottolato per terra, ciabatte di spugna, lenzuola spiegazzate, il bagno pieno di gocce d’acqua, schizzi di dentifricio nel lavandino, una rivista aperta sull’ultimo articolo letto sulla tazza del water.
E’ amore, chissà, squallore, certo, è non capire più niente, non riuscire a staccare le bocche, respirarlo, non parlare, guardargli gli occhi, è una malattia.
L’acqua si raffredda, apro di nuovo la cannella, acqua bollente, fa male alle vene.
Mi sento sbagliata, sono sbagliata.
Lui ha moglie e figlia grande, io ho marito e bimbi piccoli.
Ho sognato un mare di merda che cade dal lucernario di questa casa che non è né sua né mia, ricopre me, lui, il divano blu elettrico.
Quando partorisci, e credi di morire e poi ti posano sul petto il tuo bimbo piccolo e palpitante, ti dici, niente sarà più come prima, ho conosciuto il dolore più forte, ho conosciuto la gioia più grande, niente mi farà più male, niente mi farà stare più così bene.
Poi solo qualche giorno dopo vai dal dentista e ti accorgi di avere ancora paura di sentire male, e senti male.
Poi sfiori una persona, dopo anni che già la conosci di vista, e l’annusi e l’odore è forte e ti accorgi che l’unico momento in cui stai bene è quando sei con lui e bevi la sua bocca, accarezzi i sui denti, uno è un po’ scheggiato, la pelle del suo collo non è più giovane, le sue mani sono troppo piccole per il resto del corpo e sanno di te, le unghie mangiate, le gambe che stanno perdendo muscolatura perché sta troppo seduto e fa poco sport, i piedi e ancora le gambe, il torace, le braccia, il collo, gli occhi.
L’acqua è caldissima e fuori da questa vasca non c’è niente. Francesca.
Rori l’ha letta, accartocciata, buttata via.
Francesca aveva fatto fuoco e fiamme per riprenderselo.
E’ vero, non abitavano insieme, ma, anche se Alfredo non si era legalmente separato, loro due stavano insieme, di testimoni ce n’erano tanti.
Ha denunciato Rori, e il giudice ha stabilito che Alfredo deve stare con moglie e figlia, ma che Francesca può prenderlo due volte alla settimana.
Tutti i mercoledì e il sabato, Rori prepara la borsa ad Alfredo e lo accompagna sotto casa.
Oggi vanno al mare.
Alfredo sale contento sulla macchina di Francesca e saluta Rori con la mano.
Un poveraccio deve farsi venire l’ictus (o far finta che nebbia stato colpito) per vivere bene.
Scherzo, naturalmente.
Molto bello. Complimenti
Errata corrige: ne sia stato colpito, no nebbia colpito. Sto T9
Sei stata bravissima. Certo viene da chiedersi se sia più sfortunato o fortunato quest’ uomo! Accudire qualcuno nella malattia credo sia una delle forma d’ amore più vera e profonda e Alfredo ha, addirittura due geishe a contenderselo…sei stata bravissima, Ursula, ad utilizzare gli ” aneddoti vintage ” della moglie per sottolineare la sua ostinazione a voler mantenere in vita qualcosa di, effettivamente, morto ( l’ amore di Alfredo ) e, nel contempo, ad utilizzare lo stratagemma della lettera dell’ amante per far capire ai tuoi lettori quanto sia vivo e potente, invece, il loro di amore. Sei stata bravissima, aggiungo, a spostare le situazioni ed i personaggi in altri luoghi e in altri tempi con tanta morbidezza e disinvoltura. Sei stata bravissima. Punto. 😉
Che menate particolare. Alla fine c’è una forma di serenità mi sembra o quanto meno di accettazione di quello che è stato nella vita dei tre personaggi. Alfredo e Rori ( e Francesca )
è una storia d’amore che va ben oltre le “mani dappertutto”, per questo è una bella storia.
non menate, assolutamente no: doveva essere menage!!
Racconto bello e originale. Ha dei passaggi crudi ma anche toccanti e verii. Brava, una scrittura pulita ed efficace per un racconto spudoratamente realistico.
Uno scorcio reale di vita comune a molti. Mi ha incredibilmente catapultato nell’atmosfera suggestiva ed emotiva del “Non ti muovere” della grande Mazzantini. Grazie per l’emozione!
Brava Ursula, al di là della storia, i rimandi al passato mi hanno fatto rivivere situazioni che avevo dimenticato: dal criceto ai pulcini, dal trenino elettrico alle librerie piene di tomi “da arredamento”. Ci si identifica in questa donna la cui esistenza è uguale a quella di tante altre.
Un racconto molto breve eppure capace di mostrare tre sguardi diversi, modi di amare diversi, tutti, comunque, “accolti” da una narrazione consapevole e compartecipe della fragilità della condizione umana
Ho letto il racconto perché lo ha scritto un’amica. So che Ursula è brava, scrive così bene e stamani avevo deciso di leggermelo con calma. Le parole andavano avanti ed io tornavo indietro, volevo rileggere di nuovo le frasi, così belle e dense di tutto. Non riuscivo più a staccarmi dallo schermo, non ho risposto al telefono che squillava e ho riletto ancora. Vorrei che continuasse la storia d’amore, vorrei che fosse un racconto di un libro e leggere altre, tante parole e storie di Ursula.