Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2017 “Il tanguero” di Marinella Cataldi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017

Il funerale era stato triste e struggente, nello stesso tempo.

Solo quattro o cinque le persone venute a salutarlo, Pablo, più una piccola folla di curiosi che si era avvicinata solo per vedere chi suonasse un bandoneon al cimitero.

Tornato a casa, Francisco sapeva quello che l’aspettava.

In silenzio chiuse dietro di sé la porta della milonga, mise su un disco di Gardel e aprì la lettera.

Come gli aveva chiesto di fare Pablo, un anno prima.

“Va bene, ormai è successo”, iniziava.

Francisco si aggiustò gli occhiali sul naso. Aveva tanto da leggere.

“ Quante volte fra una lezione e l’altra, hai provato a interrogarmi,curioso come sei. E io niente. Nessun accenno alla mia vita. Eccoti accontentato.

Perché sono quattro o cinque, comunque tante, le vite che ho vissuto. Belle, brutte,chi lo sa.

Le ho vissute e questo basta.

Una è iniziata il giorno che sono venuto a chiederti quel posto di insegnante qui alla milonga.

“Sono un tanguero di professione e non ho una lira”, ti dissi appena entrato.

Stavi asciugando un bicchiere e ti fermasti un attimo a guardarmi.

”Torna stasera – rispondesti imperturbabile -torna stasera e vediamo cosa sai fare”.

All’inizio la paga era poca. Non ti fidavi.

Ma il tango lo ballavo da dio e ancora meglio lo insegnavo.

La scuola aumentò gli allievi e i clienti non riuscivano a entrare tutti, nella milonga.

Così firmammo il contratto.

Dove avevo imparato a ballare il tango? Perché ero venuto in Italia da Buenos Aires?

Quante volte hai provato a scoprirlo.

Per colpa di una donna, te lo dico oggi. Ma non è come pensi tu. L’avevo conosciuta a Buenos Aires. Dentro un portone.

Io, a quel tempo giocavo a carte, bevevo, ma sopratutto, ballavo.

Le donne in particolare e lavoretti procurati da amici mi permettevano di non rubare.

Questo, per lo meno, mio padre me l’aveva insegnato.

Ora devi sapere che mio padre era un brav’uomo, ma non capiva niente. Era ricco,anche onesto, se vuoi, ma pensava solo alla fazenda.

Le terre e l’allevamento erano l’unica cosa che contava, per lui.

Io non mi ci vedevo ad allevare manzi per l’asado dei ricchi panzoni che venivano a sceglierli, il giorno della fiera.

Mio fratello,sì. Lui faceva tutto quello che mio padre gli ordinava. Anche mia madre, per questo.

Povera donna, non contava niente.

Alla fine me ne andai. Buenos Aires è un buon nascondiglio.

Non l’ho mai saputo, se m’hanno cercato. Sta di fatto che non m’hanno trovato e lì ho vissuto per tanti anni e lì l’ho incontrata.

In quei giorni mi vedevo con una donna che avevo conosciuto a “El Beso”. Non ci aveva messo molto a farmi capire che le piacevo. C’ero uscito per un po’, ma era troppo appiccicosa e mi parlava sempre del marito, militare, che non c’era mai , la trascurava e via e via.

L’avevo mollata, ma era una tanguera di prim’ordine, così avevamo continuato a vederci, ma solo per ballare.

Come milonga non andavo solo  a“El Beso”. Andavo anche al “Nino Bien”, al primo piano del Circolo Italiano.

Mi conoscevano tutti e conoscevo tutti. Mi son sempre piaciuti, gli italiani.

Io facevo favori a loro e loro ne facevano a me. Preti, militari, attaché, prima o poi ci capitavano tutti, al Circolo Italiano.

Floriana, si chiamava.

La sera che l’incontrai pioveva forte.

Quando la vidi rannicchiata, dietro al portone, pensai che avesse cercato lì riparo .

Tremava tutta e batteva i denti. Non so perché, mi venne da pensare che avesse paura del tuono, tanto erano spalancati i suoi occhi.

Stavo per dirglielo quando, dallo spiraglio del portone, vidi la Ford Falcon Verde.

Quelle macchine, in quel periodo, lo sapevamo tutti a cosa servivano.

Disse solo “Mi aiuti, per favore. Hanno preso mia sorella”.

Per quel che mi riguarda, fino a quel giorno, me n’ero strafregato dei militari, della dittatura e delle Ford Falcon Verde.

Mi sentivo bene a fare quello che avevo sempre fatto. Non davo fastidio a nessuno e nessuno lo dava a me.

Per fortuna abitavo al pianterreno. D’istinto aprii la porta e la feci entrare.

Era d’origine italiana, la sua famiglia veniva dal Polesine. Lei e sua sorella Silvia, però, erano nate a Buenos Aires.

Questo lo disse così, tutto d’un fiato, come se fosse la cosa più naturale del mondo.

“E’ matta”-pensai- e io ho proprio sbagliato. Quelli non ce l’hanno con lei”.

Lei capì e, accennando col dito di tacere, tirò fuori un quaderno dalla borsa.

”Faccio così per salvarla e per salvarmi-ci scrisse sopra- i vicini possono sentire. Meglio far pensare che in casa lei ci sia venuto con un’amica”.

Allora mi sentii stupido e ridicolo.

Da quella sera, fino a che non l’ho vista partire con altri italiani, su un aereo che la portava a Roma, non ho mai pensato al rischio che correvo.

Non era affatto una bambina. Lo capivo man mano che i giorni passavano.

Era forte e determinata e io, per una strana alchimia, da abulico e indolente che ero, mi ritrovai energico e sfrontato.

Mi misi in contatto con tutti quelli che conoscevo, al Circolo Italiano , fino a che non ebbi un appuntamento con il console italiano. Sapevo che aiutava gli argentini d’origine italiana a scappare.

Partì, Floriana, e io, per proteggerla, non le dissi niente. Non le dissi che lo sapevo, il nome del carcere dove avevano rinchiuso la sorella, che lo avevo saputo quasi subito dalla tanguera, a “El Beso”.Era bastato chiederlo al marito, il militare.

Non è che ci fossimo promessi qualcosa, con Floriana, ma il fatto è che dopo tre anni venni in Italia e la cercai.

Ci incontrammo al bar, sotto le logge. Quello dove, poi, ho visto il tuo annuncio, Francisco.

Ero convinto di non volere niente . Ero convinto di volerla solo rivedere. Sapere come stava. Se era contenta.

Quando arrivò lo vidi subito che era incinta.

Sapevo di sua madre, in Plaza de Mayo,col suo fazzoletto bianco in testa.

Non so cosa mi prese, me lo chiedo ancora. La vidi incinta e glielo dissi subito, allora, di sua sorella.

Lei non disse niente, non pianse neanche. Mi guardò con orrore e se ne andò.

Non l’ho più rivista da quel giorno, non so neanche che fine abbia fatto.

Io, di  me, lo so.

Ho sempre ballato il tango”.

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2 commenti »

  1. Marinella,

    molto originale ed affascinante l’idea di una lettera post mortem, che svela gli inattesi risvolti della vita di Pablo.

    Il tango e la milonga, poi, come tutto cià che profuma di argentino, hanno un fascino caldo, attraente, irresistibile, che hai ben saputo interpretare ed esporre svelando passo dopo passo le peripezie del protagonista, riuscendo, addirittura, ad affrontare la questione politica e sociale argentina senza essere pendante.

    Complimenti.

  2. Una vita dissoluta capace di un “gesto” eroico che cambia e dà valore a quella vita. Mi è piaciuto molto il tuo racconto.

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