Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2017 “Soluzioni” di Francesco Gallo

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017

                                           …penso che, alla fine, abbia vinto la paura.

 

All’improvviso il vento aveva cambiato direzione. Veniva da nord, freddo, prima a folate rabbiose, ora violento ma con un mugghio continuo.  Qualcosa di terribile stava per accadere. Il sole ormai all’orizzonte, basso, sembrava dar fuoco al bosco. “È meglio che rientri”. Dopo la vendemmia, nella vigna, per sistemarla, c’era ancora molto da sudare. “Mi farò aiutare”. Foglie e polvere rotolavano fra la casa e la rimessa, in corsa sullo stradone di pietre verso lo stagno. Sonia, da sotto il porticato, agitò un braccio e poi entrò in casa. Il camino fumava, avrei certamente trovato un buon tepore. Poggiai gli strumenti di lavoro al muretto, tirai su le maniche della camicia, mi guardai le unghie. Con tinte che si combinavano con i grigi del cemento, confondendosi, occupava un angolo della vasca; eppure vistosa per l’ombra che circondava le sue forme arrotondate; quasi fosse lì ad attendermi, in quel tratto del giardino: così immobile. Sorpreso, mi attesi uno scatto, istintivo per la salvezza di entrambi, ma la scossa che avvertii nella nuca mi impalò a guardarla; e la testa di lei, seducente, ben accolta nel resto del corpo -mi apparve bello-, disposta di sghembo e rivolta verso il basso, soltanto mostrò il restringersi dorato dell’occhio sinistro, come fessura feroce. Il gocciolio della fontana aveva trasformato in lumacature il muschio della vasca; il vento strappava le ultime ortensie rinsecchite, alte sui muretti di pietra. Fermi, immerso ognuno nella sua solitudine animale. Il distacco remoto dalla natura ci ha reso più esposti a ravvisare il nemico nell’estraneo, a reagire in modi estremi, quasi sopraffatti dalla paura: si scopre di avere perduto l’originaria scaltrezza negli incontri con le altre creature della terra, si teme l’arrivo della belva straniera e si dimentica il predatore più pericoloso, quello socchiuso in noi, nelle nostre tenebre, capace a far male, a uccidere; balordo da far morire anche se stesso. Sentivo la paura, ma non sapevo, con certezza, a chi appartenesse; sapevo invece di non voler guardare, e sapevo anche di dover guardare, perché tutto può succedere in qualunque momento. Il canto del gallo rimbalzò dritto, proprio allora, quasi un fuso, a ricomporre il  filo di una trama, -sì, perché questo accadde tempo dopo-, a intrecciarsi ai ricordi dell’estate, al Pian della gleba. Lassù, sui sentieri delle  incisioni rupestri di millanni fa. “Quanti morti ci furono in questi paesi. Da quei torrioni, proprio dove c’è l’antica pietra sacrificale, i partigiani controllavano i valichi, e i nazisti bruciarono tutto. Ci furono tante brutte storie. Dalle nostre parti la vita non è mai stata semplice” . “Semplice?” l’interruppi “Forse, nemmeno dalle altre parti”. Eravamo nella vecchia cascina, al primo piano, e guardavamo giù nella vallata. Il sole estivo rinvigoriva il verde dei prati, degradanti tra pianori e pareti a picco. E pensai ai tratturi che dalla costiera scendevano nelle piccole insenature, al mare, tra gli scogli; nel mio sud, lontano da tanto tempo. I vestiti erano sulla sedia e sul pavimento in legno; Gemma portò le mie mani al seno, e mi strinse a sé, i suoi capelli profumavano di lavanda, fece un piccolo sospiro con il naso, sorridendo, gli occhi si socchiusero in una lama verde, sottile, che luccicava in briciole piccole di oro. Fu in quel momento che dalla malga, insistente, si sentì il canto del gallo. Il frinire delle cicale, fuori, continuò, fino a sera. “È la nostra faccenda che non è semplice. Forse è a questo che pensavo prima… Quando siamo insieme sembriamo due animali” disse “sempre a nascondersi. Siamo due serpenti, questo è quello che siamo”. Respira. “Due animali flessuosi”. Era pensierosa. “Avvinghiati, già, invece di svincolarsi e scappare” dissi io. “Altrimenti, lasciami volare”, aveva detto infine, con unzione, “ho paura”. Era verosimile. La verità è che lei avrebbe dovuto andare via, io non avrei dovuto fare nulla per trattenerla. Come deve essere. Presi la zappa e la tirai giù come una scure su quella vipera. Divenne un cencio, spoglio di ogni forma. Ho scavato una buca profonda, l’ho deposta dentro e l’ho ricoperta, con cura. Un lampo attraversa il cielo, mi avvio verso casa; laggiù il porticato è grondante di luce, guardo in alto; un cielo che diventa sempre più basso, oscuro, cieco  ormai, senza fessure.

 

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