Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2017 “Kiss mi Licia” di Nunzia Picariello

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017

“Il était un peti navire, qui n’avait jamais navigué. Ohé, Ohé. On tira alla courte paille pour savoir chi serai mangé”.

Non mi pareva una canzone adatta. Tu eri appena arrivato e lei metteva in chiaro che il caso decide del destino. Quindici giorni parevano pochi per spiegarti che qui, niente è come sembra. Ma lei diceva che si ricordava solo quelle: le canzoni della sua infanzia in francese. Ne aveva un piccolo repertorio. Compresa una canzone in una lingua impossibile, imparata in quarta elementare e mai dimenticata. Cantandole, a mano a mano, affioravano come sassolini da una tasca rivoltata.

Del resto, a dispetto del tuo nome, sembrò che tu fossi già al corrente di ciò che ti aspettava. Il caso scelse uno degli ultimi giorni dell’anno per spingerti via dal tuo eterno crepuscolo tiepido: non impiegasti molto. Quando varcasti l’osso pubico, si sentì un rumore sordo, uno scricchiolare di rami secchi. T’affacciasti, poi un ultimo respiro all’unisono, facesti leva con la clavicola e sgusciasti tra le gambe di tua madre. La donna ti prese per il collo e ti sollevò in aria e il tuo primo respiro fu un grido acuto. Piangevi l’abbandono della tua condizione perfetta: ora era luce, era freddo, era aria. Un dolore acuto ad ogni respiro: tributo di male da dare alla vita. Tua madre ti guardava. Tu no. Strizzavi gli occhi, agitavi le braccia e urlavi la rabbia. La morte fa sempre arrabbiare. La morte fa urlare.

Ti portarono via subito: c’era il cambio turno e tutti avevano fretta di tornare a casa. Urgenza come di riprendere le fila, lì fuori: Necessità di sbuffare fiati nell’aria gelida e mettere spesa nei sacchetti gialli; sollievo di togliersi giacconi e stivali nel rincasare alla luce gialla delle lampadine. Mentre lavavano via la camicia dei tuoi nove mesi, tua madre tornò a fissare la luce lampeggiante sulla gru accanto alla cupola: l’arcangelo si distingueva appena. L’intermittenza le dava il senso del ritmo ipnotico, anestesia frugale per le carni penetrate da un ago ricurvo. Avvertiva il filo tirare lembi di pelle: chissà come si possono ricucire certe ferite. L’ostetrica aveva usato le forbici: un taglio preciso nel suo essere donna. Prima era tutta. Intera, integra, intonsa. Adesso era sangue, cicatrice, latte.

Prima era stata una con te. Ora c’era lei e c’eri tu. Ti aveva attaccato al seno quando tuo padre ti aveva riportato in sala. Un momento fondamentale avevano detto i libri. Un po’ di teoria l’aveva studiata: ma agli esami era sempre andata male: fottuta paura. Ti porse il seno sinistro. Faceste dei tentativi: tu guidato dall’odore della vita, fosti meno maldestro. Per la seconda volta, quel giorno, tua madre, pensò di aver capito il significato di essere in balìa della natura. La prima volta, era successo all’arrivo in sala parto: lì s’affacciò la consapevolezza che niente nel suo corpo era più legato alla sua volontà. Si era osservata. Sofferente, contorta da spinte di vita che pressavano nonostante lei.

Succhiando ti eri quietato.

La prima mattina della tua vita dissero che dovevi restare in osservazione. La saturazione non era buona. Dissero di starti accanto; eri attaccato ad un macchinario che misurava battiti e ossigeno. Se suona, gli dia dei pizzicotti, lo svegli! Ci chiami!

Si era seduta e ti aveva preso in braccio. Eri perso in una tuta troppo grande, con un piede legato alla macchina. Lei respirava piano. La macchina suonò. Ti scosse, ti pizzicò. Tu apristi gli occhi: un vortice oscuro su cui lei s’affacciava con le ginocchia molli. Cercò aiuto con lo sguardo: a urlare riuscivi solo tu.

Non sembravi sofferente. Lo disse pure il medico, un rabdomante in cerca di segnali: ti sbatteva il cuore in mezzo alla testa sottile e il fiato caldo, e il sangue in piccoli canali ad irrigare. Ti rivoltò come una piccola bambola di pezza, solo con più delicatezza. Il beep della macchina a ritmare il walzer dei segni.

Tu ti impuntavi. Stringevi i pugni, piegavi le ginocchia secche, arricciavi il naso. Tua madre si tratteneva, i pugni serrati nella paura nuova e antica; la paura che sa liberare le viscere e riempire la testa. Sulle pendici del cuore, la cenere piovuta l’anno prima. Strato fonoassorbente di sopravvivenza.

Usciste due giorni dopo. La macchina aveva detto bugie: raccontava di respiri che non volevi fare. Invece, la tua caparbietà ed ostinazione erano uno stato che avevi chiarito. C’eri e l’avresti fatto sapere.

Era l’ultimo giorno dell’anno, il primo della vita nella tua nuova casa. Un ventre più grande, più freddo e ripieno di luce.

Il primo giorno dei vostri discorsi solitari:

“Sono madre”.

“Sono figlio”.

“Non sono più figlia”.

“Tu sei. Senza me.”

“Io muoio, senza me”.

“Io vivo, senza te?”

“Noi siamo”

“Noi. Non. Siamo”.

 

Il primo giorno dei passi. Venti. Venti dal soggiorno alla camera da letto. Venti dalla camera da letto al soggiorno. Lei ha comprato una fascia di jersey lunghissima, bordeaux. Se la lega attorno al corpo. Ti infila dentro: sei di nuovo bruco nella crisalide. Poi cammina. Uno, due, tre… Conta. Canta. Venti passi in camera, giravolta si torna indietro: “Il était un petit navire, il était un petit navire”. Venti! Soggiorno e daccapo. La nave madre ti restituisce il rollio che ami: sei meno incazzato. Chiuso nel bocciolo, sembri dimenticarti la fatica di vivere. Ti abbandoni al sonno.

Un, due, tre passi; un, due, tre, passano i giorni. Scorrono. Guarda le gocce di latte colare dal capezzolo duro. Il seno è gonfio, rosso, caldo. Troppo caldo. Acqua. “Datemi da bere. Presto”. L’arsura è troppa. La sente afferrarle la gola, ma anche la pelle.

“Dio che sete! Questa è la Sete”. La sete atavica, la sete immorale, la sete disperata.

 

“Chi sei?”

“Siamo”

“Da dove vieni?”

“Dal pianeta un, due tre…stella!”

“Sono stanca”

“Anch’io”

“Ho sete”

“Ho fame”

“Piangiamo troppo”

Vi addormentate sul divano.

Ieri c’era sua madre in casa. Ti ha portato da lei e le ha detto:

“Tienilo tu. Lui non mi vuole bene”

Tua nonna ti ha preso e non ha risposto. Ti ha sorriso: lei sa fare la madre. Ha vissuto per essere madre. Suo padre no. Padre mai. Tu non lo conoscerai. Chissà se vi sareste piaciuti. Se lo chiede. In silenzio. Vi arrivano i pensieri silenziosi?

Se n’è andata in bagno. Non si ricorda che sua madre sia stata mai donna. Ha aperto la doccia, si è tolta i vestiti larghi, si è infilata sotto il getto caldo. Nel vortice dello scarico rotolano sangue e lacrime. Una concessione. Respiri e singhiozzi: l’acqua lava e copre. Acqua, benedetta acqua.

Ritorna in soggiorno: hai fame. Di nuovo.

Uscite. Lei si è messa i pantaloni di quando ti aspettava: la pancia è grossa, i fianchi sono grossi, i seni sono grossi, perfino i piedi, ancora non entrano in altre scarpe se non quelle da ginnastica bianche e usurate. Non si guarda allo specchio: non vuole incontrare i lividi neri sotto gli occhi di una che non conosce.

Si lega di nuovo la fascia, ti infila dentro. Così la tua testa è alla portata del naso. Si chiede se ti riconoscerebbe: sai di latte e rancido, di yogurt e pannolino.

“Messo tra altri bambini, non capirei qual è la tua testa morbida. Forse solo toccando i tuoi capelli fini. Forse no.”.

Infila un cappotto ampio: richiude la zip su di te. Sono le 10.00. Da una settimana, alla stessa ora, prendete la gialla in Piazzale Lodi. Andate in direzione Maciachini. Scendete al capolinea, salite le scale e riprendete la direzione opposta.

Siete andati all’ospedale, l’altra settimana; così ha scoperto che la metropolitana ti quieta. Piangi solo per segnalare la fame. Se vuoi mangiare, vi fermate. Su uno sgabello rosso, succhi quanto devi. Nessuno fa caso a voi. Nei vagoni, a quell’ora c’è posto per sedersi. Se è pieno, qualche volta rimanete in piedi. Andate fino all’altro capolinea. Sono circa 40 minuti a tratta. Avanti e indietro. Qualche volta, vi addormentate sul seggiolino di plastica. Avanti e indietro. 80 minuti. Fate il tragitto due volte. Siete al riparo dal freddo, dalla pioggia dei tuoi urli, dalla solitudine della tv.

Spunti da dentro il capotto; quando ti guardano, ti sorridono. Sempre. Fai la fisiologica tenerezza di sopravvivenza.

“È un maschio? Quanto tempo ha? Adorabile, cicciccicci! Cocccocò! Ciu, ciu ciu”.

Lei ha tutte le risposte pronte. Risponde saggia. Le risposte da madre. Nessuno chiede come sta. La madre è appendice della crisalide.

Inizia a riconoscere qualche pendolare. C’è una coppia di anziani. Si tengono sempre per mano. Lei è preoccupata: dove devo scendere? Lui le stringe la mano. Stai tranquilla, io so dove andare. Tutte le mattine, così. Cerca negli occhi dei due i segni della vita. Cosa li ha guidati fin lì, a quale appiglio si sono stretti quando la vita li ha strattonati: l’uno all’altra, alla famiglia, al lavoro? A quale fermata scenderanno? Il dipanarsi di una vita è una matassa che non sa comprendere. Il futuro non sembra più appartenerle, né appartenere al tempo. Tu sei futuro e ogni giorno ne rivendichi di più.

Una donna sale con la carrozzina. Si siede accanto a voi. Dentro, avvolto in una copertina azzurra, un bambino. Lei sbircia. La donna le sorride: è il contatto stabilito dalle madri, il codice non scritto dell’esclusivo club. “Kiss me Licia”, il circolo delle madri innamorate.

“Quanto tempo ha il suo?”

“Cinquantacinque giorni”

Cinquantacinque notti senza giorni. Pochi per conoscerci e amarci. Pochi per comprendere, sebbene ti abbia compreso per nove mesi.

“Lui fa un mese, tra 5 giorni”.

Le regole del circolo sono chiare: si contano i giorni d’amore, i sospiri emessi, le cacche prodotte, le ore passate tra una poppata e l’altra, le tutine lavate con il Napisan. E si scrivono le date nel diario: il primo giorno a casa, il primo bagnetto, quando è caduto il cordone, il primo sorriso. Lei conta le parole, quanti minuti piangete, i passi dalla camera, i minuti di metropolitana, le canzoncine e quanto manca al sorgere di un’altra notte. Non ha credenziali di felicità per essere ammessa al club.

“È un bel bambino. Sembra buono”

“Sì, dorme quasi tutta la notte. Lui dorme?”

“Dormiamo poco. Sogniamo.” Sogniamo di essere in una pancia luminosa, dove rimbalzano risate e carezze. Sogniamo di capirci senza parlarci. Sogniamo di saltare con il cordone, tenendoci per mano.

 

Siete stanchi delle luci e del rumore. La gente affolla i vagoni. Allora, lasciate le viscere, riemergete e vi riempite di aria grigia.

Lei ha ancora quell’andatura dondolante: il baricentro dislocato in chissà quale punto del corpo. Ti guardi in giro, in alto.

“MMM….MMM…”

Mamma. Non riesci a dirlo. Nemmeno lei. È troppo presto. Nel ciondolìo della camminata, un intermezzo: un piccolo sussulto. Come un passo falso. O solo, un passo diverso.

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