Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2017 “La Borsa” di Michela Mannoni

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017

E’ importante avere la borsa – dice sempre mia madre- ti fa coordinatore del gruppo”.

Sì, mamma – le rispondo al solitodo semprispondo sempre io – ma il mio gruppo è fatto solo da Fabio” che mi segue annoiato mattina e sera, fino a che decide di tornarsene a casa a piedi.

La vita del venditore porta a porta è ogni giorno diversa. Strade eleganti o quartieri malfamati, palazzine grigie e anonime o villette a schiera coi fiori sulle finestre; casalinghe affannate, anziani sordi ingrigiti o disoccupati in mutande, ma la trama è la solita : porte in faccia, citofoni che gracchiano insulti e cani che ti abbaiano contro. Il finale è sempre un autobus che ti riporta a casa.

Aspetto anche stasera ,sotto questa pensilina scassata, che passi il bus in una strada di periferia, una vena nera d’ asfalto fra i palazzi del quartiere popolare. Mi osservo sulla vetrina di un negozio svuotato e c’è solo il mio corpo ridicolo riflesso nel vetro, sotto al viso coperto dal cartello AFFITTASI.

Mio zio ha trovato il lavoro, la zia mi ha sistemato il suo completo fresco lana di trent’anni fa, mia madre ha comprato all’usato le scarpe eleganti, mio padre dal cielo storce la bocca in un ghigno schifato.

Trenta euro a settimana, trecento insulti a ogni suono del campanello, tremila porte sbattute e via di seguito, fino a sera quando torno a casa e nel cortile c’è sempre il nonno che mi saluta:

Buonasera professore!”

Poi un giorno, saranno le scarpe sformate, sarà l’umidità dell’autunno che ti entra dalle suole e ti avvizzisce anche il colletto della camicia, torno sulla porta: “ Che hai da prendermi in giro? ” gli dico.

Lui sembra solo guardare in basso, seduto sulla sedia di legno nel suo vestito nero, elegante, pronto per essere messo nella cassa e portato al cimitero, le mani poggiate sul bastone.

Allora, che hai tutte le sere da chiamarmi Professore?” ripeto e la mia voce ha un suono irritato e distorto.

Lui punta il bastone sulle mattonelle di graniglia e si alza piano. Con gli anni si è accartocciato come una foglia scura.

Tua nonna mi salutava sempre così la sera quando rientravo da lavoro. Abitavamo ancora in Albania e la sera camminavo tanto dalla stazione a casa, con una borsa a tracolla proprio come la tua” dice indicando la mia a tracolla.

Era piana di libri e di quaderni e di compiti da correggere, poi le cose, così velocemente sono cambiate, tua nonna è morta e la guerra, due ragazzi da mantenere…ho svuotato la borsa di libri e l’ho riempita di vestiti e siamo partiti. Ma qua la matematica non è mica come in Albania ,lo sai? Qua probabilmente l’armonia dei numeri trova soluzioni diverse perché nessuno vuole un professore straniero, nemmeno per le ripetizioni a casa, nemmeno per i compiti di un bambino delle elementari.

Sono partito dall’Albania che credevo la matematica un linguaggio universale e invece ho fatto il cameriere, lo scaricatore, il piastrellista, perché per quello la geometria è ancora importante e la mia borsa non so nemmeno dove è finita. Forse è quella che porti a tracolla. Sembri proprio un professore!”

Lo guardo e tutta la mia furia finisce nello stomaco ingoiata con la saliva per vincere quel nodo stretto nella gola. “Poi ?- chiedo quasi con un sibilo – Poi che hai fatto?”

Poi anche i miei figli si sono fatti grandi, due omoni alti! Tuo zio indossava l’ abito che porti al suo matrimonio, ma sua moglie l’ha vista poco con il lavoro di camionista e ora asseconda ogni sua stramberia, come cercare a suo nipote un lavoro in cui va in giro come una gazza spennata.

Tuo padre invece, per lui pensavamo l’università in Albania e invece tutto è saltato in aria, come le bombe anche i progetti, e quando siamo arrivati in Italia aveva solo le sue gambe forti e le sue braccia giovani.

Mi dice un giorno che ha trovato lavoro e si alza prestissimo la mattina e la sera torna a casa tutto impolverato. Prima penso che lavori in un forno con la farina, poi che mescoli la calce bianca, ma io non mi alzavo mai così presto quando lavoravo nei cantieri. Allora chiedo a lui e lui sai che fa? Per tutta risposta mi porta qui, proprio qui dove siamo ora, in mezzo al cortile e mi indica lassù – e alza la mano tenendo ancora fra le dita il bastone dopo averlo battuto a terra – là in cima, su quelle montagne che sembrano innevate anche in pieno agosto. Io non sono mica stato contento, no , ma lui è così pieno di qualcosa che lo riempie e lo fa alzare prima dell’alba e tornare bianco come un vecchio. Ecco sì, andava via la mattina giovane e scuro come te e ricompariva la sera fiacco e bianco come me, ma se gli dicevi “Cercano un apprendista in cantiere, un giovane per imparare alle piastrelle” lui ti rispondeva solo che un lavoro ce l’aveva già ed era come se “fosse all’Università ” . A volte mi parlava degli attrezzi che usava, altre volte del tipo di bianco dei marmi e altre volte ancora dei mezzi che con un rombo feroce salivano fin lassù e spaccavano la pietra.

Finché un giorno mi ha portato con lui, tutti lo salutavano e lui mi presentava,così per una volta non mi sono sentito albanese, italiano, professore o piastrellista, ma solo suo padre.

Siamo saliti, prima nel verde dei boschi, poi tutto è diventato bianco e roccioso. Attraversiamo una nebbia spessa e quando arriviamo capisco che mio figlio lavorava sopra le nuvole, su una montagna liscia come una pista da ballo, a strapiombo sulla vita e non gli mancava nulla a quelli che gli insegnavano il lavoro per essere professori,come me. La dignità del suo lavoro l’ho compresa, ma che lavoro facesse no. Quello l’ho capito solo quando sei nato :“ Lo sai Baba (papà) – mi ha detto – quel dottore fa il mio stesso lavoro! La montagna è come una madre che non vuole darti la sua parte più bella, quella più nascosta, allora io, come un dottore , devo inciderle la pancia e toglierle quel figlio che da sola non mi avrebbe voluto dare! Anche la montagna sanguina! E quando le tagliamo la bancata, i fiumi sono bianchi latte fino al mare, fino a che, come un vagito forte, si sente il boato del masso che si schianta sul letto di pietre che gli abbiamo preparato”

Ci pensi? avevo un figlio dottore!

Un giorno quella bancata è nata prematura e, prima che lui fosse pronto, prima che le avessero fatto un giaciglio di pietre morbide, si è staccata e l’ha travolto.”

Mio nonno è tornato piano alla sua sedia.

Non ho avuto proprio nulla da dire, ho saputo questa storia da sempre, senza mai che me l’avessero raccontata. Avrei voluto una frase semplice, cose che dicono gli uomini , ma ho solo stretto le labbra ancora di più in una smorfia.

Lui mi ha guardato e vedendo che le parole non le trovavo, ha continuato : “ La montagna quel giorno sembrava una cattedrale bianca e i suoi compagni chierichetti candidi di polvere. I cavatori si siedono sulle pietre bianche e,con gli scarponi grossi e impolverati, piangono come bambini , si consolano fra loro, si danno conforto battendosi le spalle larghe l’uno con l’altro ma poi, la mattina dopo sono ancora lì, sapendo che la montagna vorrà nuove vittime in cambio dei suoi figli bianchi.

I nostri invece moriranno ancora,colpiti dai proiettili del filo diamantato che di colpo si spezza , precipitando dalle bancate alte o salendo con i camion fino lassù.

Guardami – dice passandosi la mano magra sul panno nero della giacca- io sto qua e vesto il mio nero, porto il lutto finché non muoio” e si è seduto.

Ma te, che lavoro fai tutto il giorno con quella borsa?” mi chiede poi asciugandosi la faccia .

Sono entrato in casa senza rispondergli,solo poggiandogli la mano sulla spalla magra e la mattina dopo ero di nuovo a suonare ai citofoni con un sorriso sempre più tirato e stasera sono ancora sotto questa pensilina, ad aspettare la corriera.

Mi affaccio ancora,solo una luce,non i fanali dell’autobus,ma il lume debole di uno scooter che ronza veloce,mi arriva dritto addosso e in un attimo sono già con la faccia a terra, senza capire come. La borsa ,afferrata e strappata, rompe le catene che la legano alle mie spalle e nevica contratti bianchi.

La sera è immobile, deserta, un cane abbaia da un balcone vicino.

Ho in bocca grani bianchi di denti e quando mi alzo il motorino,su un fianco,accelera ancora e c’è un corpo a terra. Il vento alza i fogli che lo coprono svolazzando,sembra dormire come un bambino fra lenzuola di catrame. Si tiene lo stomaco e quando sono su di lui,sotto al cappuccio della felpa nasconde due occhi stranieri che si strizzano in un verso doloroso. Il casco è rotolato lontano,fino a fermarsi al bordo del marciapiede come la pallina di un flipper.

Non posso picchiarlo perché il suo dolore è già lì anche se il sangue che lo macchia di rosso gocciola dalla mia bocca e dai miei denti sbriciolati.

Le luci delle finestre dei palazzi attorno ci spiano,si sente una sirena lontana,allora prendo quel corpo scuro per il bavero del giaccone e lo metto in piedi. Alzo da terra il motorino,lo riaccendo a calci sulla leva e lo incastro sotto al suo culo.

Vattene …e non dimenticare la borsa che volevi fregarmi! ” gli dico accartocciando i fogli dentro alle cerniere spalancate. Spingendolo, lo faccio ripartire.

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7 commenti »

  1. Bellissimo. Tre, forse quattro generazioni con le loro storie difficili alla ricerca di dignita’ soluzioni e realizzazioni, descritte con sguardo asciutto e uno stile e un ritmo impeccabili. Complimenti Michela.

  2. Generazioni che si intrecciano in una trama dalle forti tinte chiaro scure. Storie che sanno di un amaro ben reso dalle parole scelte. La difficile strada per ritagliarsi un misero spazio laddove si è ospiti spesso sgraditi. L’ho trovato molto scorrevole ed eloquente. Ben fatto!

  3. “è importante avere una borsa” e la tua Michela è piena di storie, sentimenti e personaggi, è anche piena di nostalgia, fatica e speranze.
    bello questo tuo racconto gentile e garbato ma solido e scritto con un amore percepibile .
    Non chiuderla mai quella borsa, e continua a riempirla di pagine narrate e vissute con la stessa intensità
    Bravissima !

  4. Michela,

    hai intrecciato due argomenti complicatissimi, facendoli respirare all’unisono ed evidenziandone con sapienza i risvolti: il dramma della fuga forzata dal paese natio ed il calvario lavorativo degli immigrati.

    Oltre allo stile essenziale, ho apprezzato moltissimo la figura del nonno, con la sua aura da vate dei tempi andati, ed il sottotema della “montagna”.

    Affrontando quest’ultimo, in particolare, mi hai ricordato “Il canto delle manere” di Mauro Corona, sia per le figure retoriche, che per le descrizioni, che per l’amore che il padre del protagonista nutriva verso i monti.

    Veramente brava.

  5. Però che densità! questa è una storia con un alto peso specifico: c’è l’emigrazione, la guerra, l’integrazione più o meno riuscita, la vecchiaia, la nobiltà del lavoro e la sua miseria, la guerra fra poveri e la poesia fredda di una natura crudele, la generosità che fa la differenza fra una vita grama e una vera. E’una borsa piena di cose, si tirano fuori frasi che potrebbero svilupparsi in storie laterali. Eppure da questa materia così potente e quasi magmatica esce una narrazione limpida, scorrevole e coinvolgente. Complimenti!

  6. Brava Michela, la dignità dell’uomo che passa anche attraverso il lavoro e il desiderio di un futuro migliore. Il racconto del nonno è commovente.

  7. Cara Michela
    Questo tuo racconto mi ha fatto commuovere! E anche riflettere: da domani sarò sicuramente più gentile con chi bussa alla mia porta o ancor di più con chi lavora chiamando al cellulare. … Complimenti!

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