Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2010 “Biancaneve inutile” di Pierandrea Formusa

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010

1.

La fine e’ convergente, ad essa tende lo spazio, ad essa il tempo, il destino. Non posso fare a meno di ricostruire, strutturare i percorsi alternativi, vie di fuga senza andata. Alla fine non si sfugge, scritta in pagine inaccessibili, in un capitolo tutto da interpretare, esegesi incompiuta. 

Oltre solo un vuoto da riempire, di significato, di ricordi, di mute parole. Ombre scariche di un giorno che non arrivera’.

Una possibilità  su otto milioni. Una. Possibilità. Altamente improbabile. Mediamente impossibile.

 

308 o 310. AZ. Solo andata, grazie. Di tutto.

 

Potrei interpretare ogni cosa attraverso la numerologia. Filtrando arrivare alla soluzione. Filtrare arrivando alla soluzione.

 

308 o 310. AZ. Numeri inquinati dalle lettere. Non ricordo mai le sigle dei voli. Raramente dimentico i viaggi.

 

Mi chiedo quale e’ realmente il viaggio.Se queste ali massicce che mi portano lontano o queste parole che mi riportano dentro di me, per un minuto, noncuranti del rumore, della follia della folla di chi come me parte per arrivare o arriva per partire. Improvvisamente, in volo, dentro di me, cambia tutto, tutto si trasforma nell’esatto Altro. Da qui la prospettiva cambia radicalmente: grande si fa minuscolo, imponente appare insignificante, importante diviene trascurabile.

 

Ora la chiamo per dirle che il volo partira’ in orario. La partenza. Telemaco. Nostos.

Preoccupata con discrezione. Ansiosa con noncuranza. Ne parlavamo proprio ieri notte. La scaramanzia, la statistica, la sorte. Affanni. Per nulla.

 

Una coppia qualunque sul divano di una casa qualsiasi, all’approssimarsi della sera profonda. Lei fa un gesto improvviso, non prevedibile, alquanto ingiustificato se non si abita il cuore di quella donna: tocca delicatamente il viso di lui, con ansiosa imprecisione.

 

Seguiva attentamente con le dita il mio profilo, come per memorizzarne la forma: la memoria nelle sue mani. Tremava. Non capivo. Ieri.

 

Mi rimprovera sempre di riempirla di numeri vuoti, cifre senza anima: orari, prezzi, tariffe dei telefonini, rate del mutuo. Vivo di numeri. Non si puo’ morire di numeri. Spesso mi ricorda che le parlo raramente. Per lei i silenzi interrompono arbitrariamente il flusso delle parole: la comunicazione. Per me sono le parole che interrompono il silenzio: il senso. Sarebbe come confondere lo sfondo col primo piano. E’ ossessionata dall’ordine, piu’ precisamente dalla posizione reciproca tra gli oggetti. “Ibis redibis non moriatis in bello.” La posizione della negazione nell’enunciato e’ ininfluente, rendendo assolutamente ambiguo il significato dello stesso. Nessuna certezza nell’interpretazione. Non so quindi se tornero’-dalla o moriro’-nella battaglia. Morire nella battaglia. Anche questo fa parte del gioco. Ma non ho voglia di giocare. Non ho tempo per morire. Non avrei avuto tempo per morire.

 

Aeroporto all’alba. Sonnolenta visione dall’alto di passeggeri in cerca di improvvisate colazioni. Un uomo al suo metal detector. Piu’ precisamente una giacca e cravatta con dentro un uomo, impegnato a trascinare un bagaglio a mano e a brandire una ventiquattrore nera contenente nient’altro che tempo da sprecare, affari sfumati, occasioni da rimpiangere. Ancora quel metal detector. Attenzione. E’ il limite che lo protegge, allo stesso tempo lo respinge, mentre lo lusinga. Esso definisce con distaccata precisione le regole di un gioco che non esiste: il gioco di passare attraverso, oltre, al di la’ del nulla.

Ora devo passare oltre. Metal detector. Sempre un po’ di ansia, quasi fosse un confine. Punto di non ritorno.

 

E se rimanessi intrappolato nel metal detector per un tempo indefinito? Se rimanessi, quindi, sulla linea di confine tra cio’ che e’ e cio’ che sarebbe, tra realta’ e possibilita’, tra vero e verosimile, dove ancora ci sarebbe lo spazio per fare, essere, diventare qualcosaltro ?

Un istante ancora e sarei oltre, un centimetro di piu’ e sarebbe tardi. I fantasmi del passato mi trattengono, le sirene del futuro mi sospingono.

 

Se solo il tempo si fermasse, si guardasse intorno con un senso di pieta’ del tutto nuovo,  se solo smettesse di essere, di scorrere, di consumarmi le forze, le idee, i progetti:  solo allora potrei riflettere, tentare di afferrare il senso complessivo. Ma il confine e’ terra bruciata, sdrucciolevole asfalto, foresta perigliosa.

 

Check-in. La fila e’ lunga anche se sono le sei di mattina. Forse si libera la’. Forse e’ solo business.

 

Non so come sarebbe, come  sarebbe stato. Non lo posso sapere. Prova a dirmelo tu. Prova a spiegarmi tutto.

 

Li incontro spesso, nelle vicinanze dell’entrata, che per loro non e’ un’entrata, porta che non porta a nulla, ne’ lontano da nulla. Lui suona un violino, lei bada al loro bambino nella carrozzina. Sguardi assoluti, speranze sopite, irrequietezza rassegnata. Le coppie crescono, i bimbi rimangono sempre gli stessi, sempre piccoli, disperati, soli. Nelle carrozzine improvvisate scoprono il destino, che ad esse li ha assegnati,lentamente aprono quegli occhi pieni di freddo e di lacrime. Tante volte mi sono chiesto perche’ proprio loro, perche’ proprio io in quell’altra carrozzina, di marca, soffice ed accogliente, dove al minimo sussulto compariva un’amorevole sorriso materno, invece dell’indifferenza, della fretta dei viaggiatori senza nome.

 

Taxi all’alba. Silenzi attutiti. Voci intimidite. Si scusano piu’ che parlarsi. Palpebre sincronizzate con i semafori. Intrattenimento di routine. Automatico il saluto, la battuta. Il tempo, le stagioni, il traffico tra poco. Aneddoti stanchi. Sempre gli stessi: annoiati.

 

La mia mente riparte, fuori di qui. Ripenso all’odore, intenso. Al rumore, sincopato.

Sapore acre. Cosi’ morbido il nostro tempo insieme. Breve morbidezza. Lancinante. Arrivato. Giunto. In partenza. Lei con quel suo buffo pigiama. Quasi notte fonda. Il suo pensiero vigila. Addormentato vigila. Rido. Definitivo il congedo. Il taxi riparte verso altre impazienze, nella brina del solito mattino. Il mattino del mondo.

 

All’unisono, mai. Vagiti premonitori. Il controllo, non perdere il controllo. Un conto alla rovescia. Senza senso. L’abisso ignoto, tempestoso. Mistero da non svelare.

Non posso fermarmi, fermarlo, fermarti. Ne rimangono tracce sgualcite. Sguardi fissi, sospesi. Attaccati all’istante precedente. Ci si posiziona con cura davanti all’istante, unico, irripetibile, cosi’ lo si cattura. Senza tempi di posa, senza mirini, senza flash. L’istante ultimo. Il senso della vita. Ancora non sarebbe possibile, non e’ possibile. Non subito. Piu’ tardi. Aggiungere forse.

 

Dammi una ragione. Una. “Nel tuo libro erano scritti i miei giorni, fissati ancor prima di esistere”. Pareva che l’avessi sempre saputo. Piccole coincidenze, non puoi dar loro importanza. Se stessi a collegare ogni fatterello con un altro per elaborare congetture che si autodimostrano nell’autoconfutarsi… Certo che e’ proprio strano che proprio quella sera, un anno dopo, circa, lo stesso sguardo impreciso, gli stessi occhi altrove. Ancora lo stesso numero telefonico. Inevitabile.

 

La gelosia restituisce buio alla luce, riporta il caos nel turbinio sedato dei giorni senza pace, trattiene la tristezza nelle mani. Quelle stesse mani imploranti che tutto questo non sia vero, che tutto non sia vero. Nemmeno la verita’. Le basi di tutto sono fragili. Ho dimenticato, rimosso, negato, trasformato, trascurato, ignorato. Ho perdonato. Questa e’ stata la mia punizione.

 

 

2.

Le mani non erane le tue, le mie gambe non erano le mie. Un’occasione in cui  non eri invitato, rara e disgraziata.Una cena, un bicchiere di vino, luci complici, parole leggere che via via diventano indagine, monologo, conclusione. La notte avanza,senza incertezze, senza attenzione,e con essa le ore, cosi’ il baratro si fa prossimo, tremando in silenzio. Non mi attraeva, ma la situazione era irresistibile. Non mi eccitava, ma il momento era l’esatta rappresentazione del piacere. Non ne avrei goduto, ma avrei consumato il tempo con la trasfigurazione del godimento. Affondava in me mentre  affondavo. Non ti chiedo perdono, nessuno mi ha chiesto perdono per avermi messa al mondo, non ne aveva coscienza, non non ne aveva colpa, non ne avevo coscienza, non ne avevo colpa. Allora era il primo vagito, poi, con lui, le prime sgraziate grida di piacere. Le sue mani erano precise, decise, come se fossi stata il suo territorio da sempre, la geografia delle mie sensazioni stampata su un libro di sua esclusiva proprieta’, un potere soffocante senza via di uscita. Osservavo la mia eccitazione, da spettatrice impassibile ne valutavo le alternanze, cercandone poi, con ansia crescente, le corrispondenze nel suo insopportabile duro ansimare. Lo odiavo con passione.

 

Solo un’ora prima mi avevi chiamato per dirmi che il volo era in orario. Inutile informazione. Tanto piu’ che partivi da me, da me ti allontanavi verso chissa’ quali tentazioni, quali desideri che non osavi confessare.

 

Quante volte sei partito: ogni volta un’occasione, un’occasione per fuggire, per dimenticare cio’ che non ricordi, per buttare tutto alle spalle, stracci vecchi. Ti ricordavi della mia esistenza solo quando scappavi, protetto dalla ufficiosa ufficialita’ dei tuoi viaggi di lavoro: facile ricordo mentre dimenticavi.

 

Sollevato dalla castrante routine di raccontare, raccontarti, raccontarsi, mettere in fila quelle quattro parole soglia minima della decenza. Descrivere quel noioso lavoro, sempre la stessa pedante perdente incomprensibile scialba descrizione; ricordarmi un gustoso episodio di quella trasferta, falso ma verosimile. Riportare articolate descrizioni di itinerari improbabili, giusto per raggiungere l’equa quantita’ di parole, che preserva dall’accusa di reticenza.

 

L’ultimo bacio. Tento di farlo riaffiorare alla memoria delle mie labbra, sole: incomprese da sempre. Frugo nella memoria, nel cuore, nel corpo. Uscirebbe del sangue se ne avessi la forza, sgorgherebbero lacrime se solo ne avessi ancora, se non fossi inaridita. Dentro. In fondo.

 

Ripercorro gli stessi viali che conducono ai soliti posti, che conducevano ai luoghi dalla trascorsa consuetudine rivelatisi nostri. Riscopro in essi il piacere del percorso, il lento approssimarsi senza sforzo della meta, quasi che il suo raggiungimento dipenda esclusivamente dal tempo, non dal movimento nello spazio: riempimento di istanti piuttosto che di chilometri. Il solito ristorante del solito sabato sera dove ordinare le solite pizze. In quella Margherita nascondevi la patologica avversione alla novita’ mentre cercavi di annegare la tua assoluta dipendenza dall’abitudine. Ordinavi sempre tu, contemporaneamente con distratta discrezione per dovere mi chiedevi, retoricamente annuivo, quasi che una parola in piu’ potesse distruggere un improbabile incantesimo di una Biancaneve inutile.

L’ultimo bacio vero. Non quelli dettati dall’abitudine, sporchi di schiuma da barba e caffe’, scambiati per forza, per dovere. Labbra frettolose che nascondono cuori tiepidi, storie gia’ finite, amori mai iniziati.

 

L’ultimo bacio. Quello che sapeva di forza, di passione: senza del quale sarei potuta svanire, nell’incomprensibile vuoto dei giorni.

 

 

1.

Mi sono assuefatto alla droga dell’imperfezione, all’imprecisione delle relazioni che, sfuocatamente, confondono i loro oggetti. Non esiste la colpa, esiste solo la forza che frantuma il tempo e, lacerando il corpo,  svuota l’anima.

Istante dopo istante. Senza alcuna fretta. Pieta’.

 

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2 commenti »

  1. Uso appropriato dei segni d’interpunzione. Vocaboli raffinati, ricercati, non comuni. Penna tagliente ed incisiva. Una rasoiata. Merita la pubblicazione su carta.

  2. Il tuo lavoro tradisce un amore viscerale per la letteratura, per la Vera Letteratura. Le tue parole sono immagini. Profonde.
    Complimenti.

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