Premio Racconti nella Rete 2017 “A luci rosse” di Giovanni Zanobini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017“Car je est un autre” – Arthur Rimbaud-
Lenz Keller sedeva sulla panchina sprofondando nel suo impermeabile scuro e il suo sguardo si perdeva nei cerchi d’acqua creati dalle anatre che nuotavano. Il lago specchiava il cielo svuotato di Berlino, un cielo pallido e appannato. Guardò l’orologio, era mezzogiorno e il suo appuntamento era tra circa due ore. Era ovvio che l’idea di quell’incontro lo metteva profondamente a disagio, ma si promise di non pensarci troppo, almeno per quanto era possibile. Una improvvisa folata di vento freddo increspò la sua faccia rugosa e scompigliò quei pochi capelli bianchi che gli rimanevano. Poi si fece breccia tra la coltre bianca un sole timido che presto diventò enorme, rischiarando il cielo e riscaldando tutto il Tiergarten. Keller si aprì l’impermeabile e si lasciò pervadere dal caldo abbraccio del sole, chiuse gli occhi. I rumori della città divennero ovattati fino a scomparire: gli sembrava di sentire quel silenzio dei boschi. Si chiese come era arrivato ad essere così e aveva l’impressione che nel corso della sua vita ci fosse stato un momento preciso in cui ebbe inizio quel processo irreversibile che lo portò a chiudersi in se stesso, sempre di più. E adesso viveva quell’inferno in maniera naturale. Del resto era inevitabile che accadesse, per come era fatto Lenz Keller. Guardò le sue esistenze con distacco, forse perché si sentiva bene in quel momento. Aveva il volto rivolto verso l’alto, in direzione del sole, con le gambe leggermente divaricate. Sentiva le mani che diventavano tiepide. Pensò che forse quella era la felicità: sentire la noia riscaldati dal sole, fregarsene del tempo e degli impegni. Se ne stava lì, come un cieco che guarda qualcosa nel cielo, e sul suo viso si disegnò un sorriso che non era programmato. “Carissimo, che strano rincontrarci!”, Keller aprì gli occhi e vide stagliarsi davanti a lui la figura massiccia di un uomo. La cosa che lo colpì fu il luccichio innaturale di quella testa completamente calva.
“ Hans! Non mi riconosci? Beh, non è passato troppo tempo, devo ammetterlo…”, Keller non parlò, sperava nel barlume improvviso di un’immagine nella sua mente che potesse aiutarlo, poi parlò e disse: “ Mi scusi, ma credo che abbia sbagliato persona, Hans non è il mio nome…”. Cercò di dirlo con garbo, proteggendo se stesso e l’interlocutore sconosciuto dall’imbarazzo, anche se lo stava odiando. Il tizio non sembrò stupito dalla sua risposta, anzi, dall’espressione sarcastica che aveva sembrava che non si aspettasse altro. Poi fissò Keller dritto negli occhi e strinse i pugni, improvvisamente quella bonarietà apparente si tramutò in una violenza che sembrava potesse esplodere da un momento all’altro. Keller ebbe paura di quell’uomo enorme che si ergeva davanti a lui come una statua, coprendo il sole e gettando su di lui un’ombra che gli infradiciava i vestiti. Ad un certo punto lo straniero sembrò calmarsi, il suo volto di pietra si sciolse in un ghigno che mostrava dei denti ingialliti e con una mossa meccanica mise i pugni dentro le tasche del suo cappotto. “ Certo, di sicuro mi sono sbagliato… Mi scusi… basta che ti sbrighi, non abbiamo molto tempo”, detto questo girò intorno alla panchina e se ne andò via; contemporaneamente il sole venne ricoperto e il cielo diventò nuovamente bianco e sterile, un cielo che sembrava finto, fatto di gesso. Keller non osò voltarsi per la paura di non vedere l’uomo, come se quello strano incontro fosse stata una sua allucinazione. Si chiese se conosceva qualche amico di nome Hans che potesse somigliargli, ma Lenz Keller non poteva essere scambiato con un altro. Adesso quel suo strano stato di quiete era compromesso in maniera definitiva e la sua mente era ripiombata nelle tenebre. Guardò il lago e notò che era vuoto, le anatre erano volate via probabilmente. Divenne più freddo, allora Keller si chiuse l’impermeabile e si tirò su il bavero coprendosi la nuca. Senza un motivo incominciò ad avvertire della sonnolenza e per combatterla decise di fare due passi. Camminò senza una direzione precisa, poi giunse a un piccolo ponte che attraversava il canale e lo imboccò. Fermatosi, si guardò intorno, notò che non c’era anima viva e che persisteva quello strano silenzio. A tratti si insinuava sotto i suoi abiti un respiro freddo che gli faceva venire i brividi; da bianco il cielo incominciò a diventare grigio. Lenz Keller stava ritto sul ponte e osservava davanti a lui gli innumerevoli ponti che si dispiegavano all’infinito fino a scomparire nel lago. Sembravano repliche perfette e si immaginò tantissimi Lenz Keller che stavano dietro di lui, fermi su un ponte anche loro, tutti ad aspettare come lui. Ma se ci pensava un attimo sapeva con certezza che almeno un Lenz Keller era dietro di lui e lo stava registrando. “ Eppure io sono sicuro di non conoscerlo”, si diceva.
Oltrepassò il ponte e si diresse verso il cuore del Tiergarten perdendosi trai i larghi viali alberati. Si scordò completamente perché era lì. Arrivò a una piccola radura circondata da fitti cespugli. L’erba era di un verde così saturo che quasi faceva male agli occhi se si osservava per troppo tempo. Si recò al centro dello spiazzo erboso e si sedette a gambe incrociate. “ Ma cosa fai Keller? Se ti vedesse qualcuno?! Non sei mica più un ragazzino che si siede per terra…”, si rimproverò in modo materno. Era rivolto davanti all’anfiteatro di cespugli, di spalle al viale che l’aveva portato lì. Cercava di scorgere cosa c’era dietro quei piccoli spiragli tra i grovigli di rami, ma vedeva solo buio, come se la notte si nascondesse là dietro, aspettando il momento giusto per invadere tutto col suo mantello di oscurità. Poi sentì una risata, che proveniva da dietro le mura di cespugli. Dalla voce sembrava una ragazza. Keller si alzò, attratto da quel suono come un segugio. Protendeva la testa in avanti, come per vedere meglio, camminando lentamente per non farsi sentire. Era vicinissimo adesso, col naso sfiorava i cespugli. Un altro mugolio, questa volta più profondo. Si inginocchiò infilando la sua testa in un’apertura fra i rami e scorse qualcosa che solamente i bambini e i cani potevano conoscere: un piccolo tunnel sotto i cespugli che portava ad un’altra radura. Si mise a carponi e cercò di insinuarsi dentro quella voragine, si accasciò sempre di più fino a strisciare, silenzioso come un serpente. Keller si stupì di se stesso: da dove veniva tutta questa agilità?
Strisciava sul terreno umido e non sentiva fatica, “ci sono già stato qua” si disse. Keller punta lo sguardo verso la fine del tunnel, vede il verde di quella radura segreta e si sente eccitato. Finalmente arriva, sbuca fuori ma rimane disteso. Poi gira leggermente la testa verso destra, non vede nient’altro che erba e le mura di cespugli. Poi gira la testa verso sinistra e vede una ragazza nuda, che si rantola in terra con gli occhi chiusi, sorridendo. Sembra che stia sognando. Keller si mette in piedi e si avvicina, la guarda dall’alto. Anche lui un tempo aveva quella pelle così bianca e perfetta, mentre adesso tutto il suo corpo era irrigidito. Keller si sentì deformato e fu pervaso da un’inconsistenza tutta sua. La ragazza ignorava la sua presenza. Un tuono lontano cantò la minaccia della pioggia. La fissava senza sbattere le ciglia, la sua visione era pura, senza pause oscuranti. Con un gesto spontaneo si cercò qualcosa nella tasca del suo impermeabile scuro. Sentì il ferro freddo della sua calibro e Hans Rittermann si ricordò perché era lì. Sull’erba si allargò un rumore umido. “Ottimo lavoro Hans” disse una lucina rossa dietro i rovi. Mi voltai e mi vidi. Ormai dovevo saperlo che Lenz Keller stava sempre dietro di me.