Premio Racconti nella Rete 2017 “Un senso” di Raffaella La Villa
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017Andrea aveva smesso di sperare, alla fine.
Un’indifferenza appiccicosa ricopriva ogni cosa, nei giorni che scorrevano identici, dietro alle sette porte di ferro del Carcere di Massima Sicurezza di Novara.
Tre ergastoli.
Non era stato facile capire appieno il significato di quella condanna che gli aveva fatto perdere prima la volontà, poi i sogni e perfino la speranza animale in un possibile cambiamento. Funzionava solo la macchina del corpo, con le sue testarde, indispensabili reazioni chimiche.
Nei primi tempi, aveva ricevuto qualche visita. La moglie Lisa con suo figlio Francesco, sua madre; ma il tempo aveva consumato ogni legame.
La madre era morta e la moglie era troppo viva per non sfuggire a quel veleno.
Il figlio sembrava averlo dimenticato. Era adulto, ormai. Aveva cambiato cognome e città. Andrea ne aveva sofferto, ma, negli anni, i sentimenti avevano perso il loro sapore, anche quel senso di colpa acido e bruciante. Pensava ancora a Francesco, ma sempre più raramente. I suoi lineamenti delicati di bambino e i grandi occhi chiari erano sempre più confusi nel ricordo. Come ogni altro dettaglio della sua prima vita, del resto. Tutto scivolava lentamente in una palude che sapeva di marcio.
Farla finita?
No, gli importava troppo poco di sé.
Non gli importava più niente di niente, a dire il vero, tanto meno del processo a cui era stato convocato come testimone, in quella giornata afosa di luglio.
Il furgone della Polizia era un forno. Puzzava di gomma e deodorante a buon mercato. Alla sua destra c’era un pivello con gli occhiali, alla sua sinistra un agente di mezza età, obeso, che sudava come un animale. Si sorprese a osservare il percorso delle gocce di sudore lungo le guance lisce fino al doppio mento. Ogni tanto si tamponava con un enorme fazzoletto di stoffa azzurra.
“Giornata calda, eh” – disse voltandosi verso di lui. Il labbro superiore era cosparso di fitte goccioline. I denti erano appuntiti.
Nella sua vita precedente avrebbe provato il desiderio di ucciderlo.
Adesso, non gliene importava nulla.
Fuori dal finestrino alto, il suo sguardo assente non vedeva il ritmico indietreggiare della cima degli alberi. Era rivolto verso l’interno.
Decise che non avrebbe testimoniato al processo, non avrebbe detto proprio niente. Sarebbe stato come collaborare al funzionamento della macchina che lo aveva ridotto in cenere. Cercò di rilassarsi, la mente fissa sul rumore irregolare delle ruote sulla strada. Sembrava una strada di campagna.
All’improvviso, lo schianto.
Il veicolo sterzò senza speranza. La benna di una ruspa strappò via una fiancata, come il coperchio di una scatola di sardine, trascinando il poliziotto seduto alla destra di Andrea in un fosso profondo. Il furgone sbandò a sinistra invadendo l’altra corsia. Il TIR che sopraggiungeva non ebbe alcun margine di frenata. In pochi secondi il vano del guidatore finì sotto le ruote enormi. L’autista del furgone non ebbe nemmeno il tempo di urlare.
Un silenzio da fine del mondo.
Il paesaggio tratteneva il fiato.
Andrea no.
Era vivo.
Di fianco a lui, a sinistra, il poliziotto obeso era ridotto ad un ammasso di carne perforato da lamiere e vetri rotti. Percepì il suo lamento, disumano, come il guaire di un cane. Gli sembrò di vedersi dall’esterno, mentre frugava in quel corpo ferito alla ricerca delle chiavi delle manette.
Le trovò quasi subito. Si liberò. Uscì dal furgone. O meglio, si trascinò fuori. La strada, gli alberi, gli giravano intorno. Cadde in ginocchio e tutto si fermò.
Anche nel veicolo, non si muoveva più niente. Il groviglio di carne e lamiera aveva smesso di lamentarsi. Alzò lo sguardo verso il TIR: il guidatore era riverso sul volante. Si voltò. La ruspa che li aveva investiti, non si vedeva più, nascosta da una curva.
Andrea si alzò. Mosse qualche passo incredulo, poi sentì la dolorosa ferita che credeva guarita. Si era riaperta, per torturarlo.
La speranza.
Le gambe scattarono, mosse dall’adrenalina in circolo. Con la coda dell’occhio vide apparire dalla curva una sagoma scura con un cappello sfondato. La polizia sarebbe stata presto sulle sue tracce.
Corse senza direzione e senza controllo, per ore. Attraversò senza fiato campi e boschi, poi, oltre una bassa collina, scorse l’ansa di un fiume di cui non ricordava il nome. La luce del pomeriggio lo faceva scintillare come una biscia addormentata al sole. Si passò la lingua sulle labbra ruvide. La sete era insopportabile. Nascosto dietro un albero, esaminò la riva che si estendeva ampia, tra chiazze di terriccio chiaro e ciottoli levigati. Era impossibile arrivare all’acqua senza esporsi alla vista.
L’istinto animale, gli disse di aspettare fino al calar del sole.
Disobbedì.
Decise di rischiare.
E poi, non si vedeva anima viva.
Strisciò fino alla spiaggia. I ciottoli bruciavano contro i suoi avambracci pallidi. Sentì l’odore di uovo bollito del fango. Arrivò all’acqua e bevve, avidamente. Il calore era ancora violento. Una nuvola di moscerini lo avvolse. Li scacciò, bagnandosi i capelli. Il morso della speranza era sempre più profondo, lo sentiva affondare nei muscoli delle gambe, afferrargli la schiena lungo la spina dorsale.
Cominciava a crederci.
Di avere una possibilità.
Si diresse verso il limitare del bosco, per riprendere la fuga. I passi, adesso, erano elastici come molle, le mascelle contratte e lo sguardo fisso, come quello di un pazzo.
Poteva farcela.
Improvviso, un suono acuto, lontano, ruppe il silenzio, come un ricordo. Poi si avvicinò e si precisò. Un corpo scivolava, trascinato dalla corrente, evidentemente incapace di contrastarla. A tratti spariva sott’acqua, poi riemergeva agitando gli spruzzi come un cane che nuota.
Era un bambino.
Incrociò lo sguardo di Andrea e urlò più forte. Andrea intravide per un attimo due occhi fuori dalle orbite. Azzurri come i suoi. Distolse lo sguardo.
“Non è un problema mio!” – disse ad alta voce.
Pensò che di problemi ne aveva ben altri.
Si disse che quel bambino poteva crepare.
Strinse le mani, mugolò a labbra strette, poi, si voltò con uno scatto, si confuse con le chiazze d’ombra del fogliame e riprese a correre. La benedetta indifferenza, però, sembrava sparita. Un impulso incomprensibile emerse dal profondo. Lo pervadeva, come un calore nei muscoli. Un senso di urgenza. Decise di ignorarlo. Si allontanò nel bosco. Il lamento del bambino si affievolì e si spense.
Fu allora che tutto andò fuori controllo.
Le sue gambe si mossero come spinte da volontà propria, invertirono la direzione e Andrea si ritrovò a correre indietro, verso la riva. La superficie del fiume era immobile, pigramente attraversata da ondulazioni cremose. Eppure, Andrea percepiva la forza sommersa della corrente nell’abbraccio dell’acqua sui sassi. Si precipitò a valle, inciampando sui ciottoli roventi.
In controluce, intravide l’ombra di una testa emergere per pochi secondi. Si tuffò e nuotò con tutte le sue forze. L’acqua, sotto la superficie, era un pulviscolo incolore di detriti. Non vedeva nessuna sagoma umana. Salì a respirare. Si guardò intorno.
Il bambino non riemergeva più.
I polmoni di Andrea adesso bruciavano, sul punto di scoppiare, ma continuò a cercare. Il suo corpo si ricordava di quanto era stato sicuro e forte, in un’altra vita. Si tuffò ancora, con un’eleganza antica.
Finalmente lo vide.
Ondeggiava come un’alga, incastrato in un groviglio di radici e rocce. Gli occhi aperti avevano la trasparenza di quelli di un pesce. Andrea lo afferrò con un braccio e lo liberò. Adesso sentiva la forza della corrente, tesa verso il fondo. Il suo corpo aveva ritrovato la sua vera età.
Ma quanti anni aveva, poi? Non era così importante, alla fine. Il tempo aveva smesso, ormai, di essere una linea retta per diventare una spirale chiusa su se stessa.
Raggiunse la riva. I vestiti bagnati pesavano quintali. Il bambino fra le braccia, invece, sembrava un guscio vuoto. Le palpebre erano chiuse, adesso.
Non respirava.
Andrea lo coricò a pancia in giù per fargli espellere l’acqua. Lo massaggiò. La pelle era fredda e viscida.
“Francesco! Dai, dai!”
Lo girò e continuò a chiamarlo tra una respirazione bocca a bocca e l’altra.
Poi, ci fu una specie di rantolo.
Il bambino sussultò, vomitò acqua e riprese a respirare, con un fischio sordo.
“Francesco” – disse ancora una volta, ma piano.
Il bambino aprì gli occhi. Azzurri e vaghi.
Andrea rise di sollievo, lasciandosi cadere all’indietro.
Fu allora che percepì il dolore affilato, che si irradiava. Eppure, non riusciva a smettere di sorridere. Nell’aureola di luce dorata, la sagoma del bambino che si alzava ondulava come un’ombra confusa. Non lo sentì chinarsi su di lui. Chiamare.
Percepiva solo un brivido freddo percorrere ogni fibra.
Poi tutto si dissolse in un silenzio buio.
Intenso, incalzante.
Respiro sospeso fino alla fine.
Brava.
Un ritmo incalzante costringe a leggere senza fermarsi fino alla fine. Complimenti.
Grazie per la vostra lettura attenta.
Molto bello! Mi piace molto come scrivi, frasi breve e precise, ogni parola sembra scelta perché essenziale in quel precisp momento per descrivere quell’esatta sensazione.
Racconto acre e penetrante. Molto bello. Brava
Complimenti Raffaella, hai un grande stile! da leggere tutto d’un fiato 🙂
Raffaella,
le storie di carcere sono narrativamente attraenti e pericolose, poiché impongono un complesso studio della psicologia del detenuto, che deve tener di conto del contrasto tra la rabbia per la reclusione (ingiusta, nel caso di Andrea, a quel che capisco) da cui deriva un forte odio verso il mondo esterno ed il fondo di umanità che, in ogni caso, continua ad albergare nel profondo del prigioniero.
Il tuo racconto fonde perfettamente i due elementi, addirittura concludendosi con una (bellissima) redenzione, capace di restituire al protagonista non dico la felicità, ma perlomeno un attimo di agognata serenità.
La prosa incalzante è adattissima alla storia e porta il lettore “a bere tutto d’un fiato” il tuo lavoro.
Bravissima.
Bravissima Raffaella, un grumo di sentimenti,sensazioni e azione, lo leggi con il fiato corto del protagonista in fuga dal mondo e poi da se stesso.
Il tuo stile è agile affilato e molto molto efficace. risultato finale veramente brillante! complimenti
Grazie Gianluca, sono contenta che ti sia piaciuta la storia e il suo ritmo.
Grazie Lorenzo per il commento bellissimo. Mi fa piacere che il significato della storia ti si passato. Grazie ancora.
Grazie per i vostri commenti e per la vostra lettura attenta.
Il racconto di un riscatto, in nome di un figlio mai dimenticato. Ogni uomo, anche il più discutibile, è padre. Per alcuni è l’ultimo baluardo di umanità prima della bestialità. Bella storia, complimenti!
Ciao Raffaella , delle volte servono le parole per ricordarci il nostro ‘senso’. Stamattina sembrava tutto scorrere ‘senza’. Poi ho letto il tuo racconto, e, ho deciso che la’ , fuori, nell’ammasso aggrovigliato delle nostre sofferenze, forse anch’io , Oggi, troverò il mio..Laura
Complimenti Raffaella, una bella storia sul salvataggio reciproco di due anime. Mi è piaciuto lo stile con le sue pause e accelerazioni, la scrittura tiene bloccato il lettore fino alla fine. Brava!
Ho letto i commenti. Non aggiungo niente, mi sento perfettamente in sintonia con le parole di Vilma, Ugo e Ivana. Ti faccio un sacco di complimenti, Raffaella.
Un modo di raccontare diretto, originale, stilisticamente curato ed efficace. Raffaella dimostra padronanza di mezzi e chiarezza dei fini: infatti il senso del racconto penetra nel lettore senza ambiguità, nè sentimentalismi. Amaro e dolce.
Grazie mille per l’acutezza. Mi fanno piacere i vostri commenti. Soprattutto perché il “senso” che volevo esprimere è passato!.