Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2017 “L’amore è sentirti vicino, anche se sei lontano” di Maria Antonia Iannantuoni

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017

Era un pomeriggio meraviglioso di fine ottobre a Blanda, un paese della Lucania, arroccato su un  mare turchino; tutto era  fuori dal tempo, i lecci si prostravano, quasi sulla superficie del mare,   sembravano  sudditi dinanzi al loro signore, mosso dal maestrale, la cui spuma galoppava verso la  costa, i gabbiani lanciavano i loro gridi e si tuffavano come bianchi paracaduti nelle onde per  cibarsi di piccole prede.

Dal comignolo delle case rose  fuoriusciva un sottile fumo, le pecore in fila , guidate da un ragazzo  dalle gote arrossate,  percorrevano  con lentezza i viottoli di campagna ,ruminando l’erba, le auto  sfrecciavano sulla strada maestra , qualche motorino strideva correndo, il panificio sfornava  i  biscotti ricoperti di bianco zucchero, il cui profumo inebriava l’ olfatto, al bar un gruppo di pensionati e di giovani giocavano a carte, gustando ad ogni giro un sorso di bionda birra .

Sul sagrato della chiesa signore erano in attesa che la lezione di catechismo terminasse, altre  ammiravano le vetrine delle boutique, sognando di indossare qualche capo firmato, altre intente a fare la spesa.

Vicino alla fontana nella piazzetta seduti sulle panchine di ferro stile liberty alcuni vecchietti, già  con il cappotto, parlottavano di politica , di ricordi, di luoghi lontani ,essendo, quasi tutti, emigrati  in gioventù nell’America Latina ; nell’angolo più appartato degli studenti  ridevano   e  bisbigliavano parole d’amore ; in mezzo alla rotonda gagliardi ragazzotti correvano , giocando a  pallone, qualche cagnolino scodinzolava per un po’ di cibo. Le  palme si ergevano  lungo il viale , attiguo ai pontili e i fiori nelle aiole coloravano con  allegria quel luogo , collocato,  in uno  spazio indefinito, cespugli di rosmarino inebriavano l’ aria.

Il cielo già imbruniva , tinteggiando le acque di un azzurro intenso, essendo il disco rosso quasi  inabissato nello acque ,ormai tranquille ; di lì a poco tutto si sarebbe oscurato di grigio, trasformando, in breve tempo, quella piazza ,  in un luogo solitario.

L’ odore di brodo , di brace , infatti, si spandeva dovunque, era l’ ora di rincasare e uno  scricchiolio di foglie secche accompagnava il passo lento o frettoloso delle persone, il cui ritmo di  vita era  ancora umano , non schiavo dei condizionamenti cittadini.

Alle venti  sul porto,  così chiassoso, era disceso un silenzio  irreale, si poteva contemplare in  tranquillità  il viso  luminoso della Luna, simpatica compagna della nostra esistenza, il vento si  incuneava nei rami degli ulivi  e nei ricordi di un passato ora felice ora triste che si incarnavano con  tanta chiarezza, da sembrare reali  e i volti di cari ,ormai lontani ,  erano sfumati , disegnati da una matita grigia.

Sorridevo, appagata da quella visita inattesa, sentivo gli scappellotti di mio padre, la risata dolce della cara madre, partita da tante lune, le parole severe di mio fratello dagli occhi intensi, fieri , sereni, le note spiritose della mia tata . Non provavo tristezza, forse un po’ di malinconia per la  spensieratezza di un tempo che non sarebbe più tornato.

All’improvviso, in quel momento fantastico, seduto sulla panchina accanto a me, scorsi il volto  bello, pallido  di Marco, il mio caro, sfortunato figlio, nato sano, ma, poi ,   un male terribile  me lo aveva strappato , straziando il mio corpo e la mia anima.  Tutte le parole non possono esprimere il mio stato d’ animo di allora, non esistevo più come essere , ero  partita   con lui.

Per tanti anni mi sentii una barbona  senza patria, né casa ; camminavo  con passi lenti, faticosi, con  la testa reclinata da un lato, biascicando parole senza senso; la gente mi guardava commiserando la  mia sorte, ma si allontanava ,quasi impaurita di essere contaminata dal morbo del dolore.

Tutte le giornate erano sempre uguali,  con  immane fatica  stentavo a sentirmi  madre  di Giorgio ,  il piccoletto di casa, che mi guardava con gli occhi liquidi di un cane, desideroso di una mia  carezza.

Continuai a recarmi a scuola e con  sforzo,  mi imponevo di  compiere il mio dovere, ma l’ entusiasmo per il mio lavoro era scomparso, sfuggivo gli occhi ingenui dei miei alunni , mi  laceravano il cuore. Essi comprendevano il mio stato d’ animo e cercavano di essere migliori di  prima ed io, ancor di più ,cadevo in una profonda depressione. Il mio amato Gesù, dimenticato, lo  sentivo colpevole per quell’ingiusta morte. Mio marito cercava di capirmi, di amarmi con  trasporto, ma non provavo nulla . Ero un deserto, nessun fiume all’orizzonte.

Per non parlare del  tempo libero, il mio tormento diveniva fisico,tagliente, solo la fede allontanava   in me l’ istinto della fine, lo trascorrevo accanto a quel mucchietto di ossa, pulivo il suo piccolo  freddo, letto; gli coglievo i fiori e parlavo di tutte le speranza che avevo sognato per lui o intonavo  la canzoncina  allegra di Marco Polo per farlo addormentare e tra i fiori  c’ era sempre il  cioccolatino al latte che gli avrebbe addolcito  il suo sorriso birichino  e gli ripetevo < L’ amore è  sentirti vicino, anche se sei lontano >.

Pregavo si, ma non vivevo ,davanti agli occhi c’ era sempre quell’esserino pallido, smunto, oppresso da lavaggi , da operazioni  estenuanti , da flebo come cibo.

Ogni mattina in quei mesi tristi  mi accoglieva sorridente, abbracciato al suo peluche  ed aspettavo  ansiosa l’ arrivo del primario ,spiando un suo sorriso di speranza, speranza di frenare quell’animale maligno che si era impossessato di quel martoriato corpicino.

Tutto inutile, il male si ingigantiva inesorabilmente, eppure il mio Marco giocherellava con il suo  subbuteo,  rideva felice alle mie barzellette e voleva  che gli raccontassi le monellerie di Giorgio ,che,  contento, era bravissimo  a rompergli tutti i giochi e i quaderni  di scuola ;  mi pregava di  nascondere tutte le sue cose ,mi chiedeva di aiutarlo nei compiti, perché  era sicuro che presto  sarebbe ritornato a scuola accanto ai compagni e ai professori.

La vivacità degli occhi era il segno più tangibile del suo desiderio di ritornare alla vita di sempre,  era l’ amico di tutti i ricoverati  che amavano il suo sorriso infantile, li sollevava dai tormenti.   Il suo sorriso, le sue birichinate li allontanavano per magia da quel luogo che odorava di amaro, di  solitudine, di dolore,  di disinfettanti. Le sue parole, la sua esuberanza li proiettavano in un mondo dimenticato, pulito, odoroso di essenze profumate di felicità. Essi accanto a lui recuperavano la  forza, l’ entusiasmo e e speravano che il loro calvario sarebbe stato breve.

Nel pomeriggio le sue forze si scontravano con il suo morbo, era lento, il suo corpo assaporava il  torpore, le sue forze scemavano, la sua voce si affievoliva, e  con un filo di voce mi chiedeva  di  raccontargli una storia allegra, una canzone che gli ricordavano i suoi spensierati giochi nel cortile  del nostro caseggiato.

Rimaneva muto, quando gli annunciavo che stavo per andarmene, perché era già suonato quel  maledetto campanello, che buttava fuori  i parenti dei pazienti , rammentandoci  la nostra realtà  quotidiana, i nostri doveri , nel caso mio, di mamma , di moglie .A volte mi sentivo titubante, da  una parte felice di ritornare in casa, dall’ altra non volevo abbandonare neanche per un istante quel  batuffolo che era la mia vita. Ogni sera era sempre uguale alle altre sere, mi stringeva la manina, mi  sorrideva con affetto e mi pregava di andarmene con un atteggiamento di adulto, responsabile  di  me e della sua famiglia,. Mi baciava e chiudeva gli occhi,  pesanti dal sonno ristoratore e sicuro che  l’ indomani sarebbe stata una giornata fortunata.

Giorni, giorni si susseguirono in questa tortuosa sfida, tra  vittoria  e sconfitta su quell’orribile morbo  con la speranza che sarebbe stato debellato per sempre.

I fiori germogliarono nel loro splendore, il caldo appassì quelle creature meravigliose, le foglie  ingiallirono per poi formare un tappeto giallo, le temperature si abbassarono ,facendo andare in  letargo le creature della natura; Marco, però, stava ancora là e con la sua forza di vivere mi incoraggiava a non perdere la fiducia , quando mi vedeva stanca,avvilita con gli occhi bassi, appesantiti  dal dolore e dalla triste realtà.

Poi, poi, una mattina d’ inverno il suo sorriso rimase abbozzato , il suo corpo immobile;  piansi  tutte le lacrime del mondo, implorai gridando il nome del Signore, la,mia rabbia, la mia disperazione. Solo il silenzio mi rispose, intorno a me era il vuoto , le infermiere si allontanarono  lentamente, le coperte si posarono sul volto di quel gelido angioletto, le macchine  furono staccate  e non  c’ era  la presenza dei solerti medici, premurosi fino alla fine .

Tutto era finito ed io mi trovavo là, non ero volata con lui su in cielo, ma ero vicino a quel letto freddo. Lotte, timori , speranze ,tutti volati nel firmamento, non mi avevano voluto con loro,  dovevo ancora rimanere costì per l’ altra creatura che mi chiamava, gridando il mio nome.

Dura fu la mia strada; curva non gustavo l’ immagine della mia persona, un fantasma senza forme, senza desideri, mi ossessionavano i pensieri più assurdi; ero in qualche modo colpevole  di quella fine?

Non amavo più il mondo , i suoi abitanti ; ero furiosa, addolorata, non volevo incontrare le persone  più care, gli amici, gli alunni. Continuai così a trascinarmi in un vuoto baratro fatto di fantasmi,  di angosce, di domande senza risposte, di colpe inesistenti, per colpevolizzarmi inconsciamente.

Non sognavo mai Marco , sogni vuoti, soffusi di un grigiore senza fine, la mia fede vacillava. Una sera ,d’ istinto , inconsapevolmente, entrai nella nostra chiesetta dai bassorilievi meravigliosi ,dove  era dipinta la via crucis di Gesù ,voluta dall’amore profondo per noi esseri impuri.

Udii un profumo di rose ,appena colte, fresco, impalpabile, un impercettibile fruscio accanto alla  statua di nostro Signore; una voce soave mi parve di udire, era identica alla voce giovale di Marco che mi chiamava con parole dolci; mi voltai e tutto mi fu chiaro, era lui che mi pregava di vivere ,  di amare il mondo, egli stava bene,ma era angustiato per me, che desideravo solo di scendere nel  baratro della disperazione. Ciò non mi univa a lui, ma mi allontanava per sempre dal suo mondo.

< Il mio compito è stato breve, ma è servito a tanti, ti voglio bene e ti starò sempre vicino, il mio  amore si è trasferito in un bellissimo mondo, ti aiuterò , devi vivere amandomi, cancella la  solitudine che ci allontana  dal vero quadro della nostra vita . Gesù è il mio amico e non mi serve  nulla, chiamami ed io ti sarò sempre vicino. Un bacio!>

Dopo pochi mesi mi recai a Lourdes e in quella mistica grotta capii che la matassa di amore non si  era spezzata ,ma solamente  il filo si era allungato ed  ero ancora  la madre di Marco, gli potevo  parlare secondo la nostra abitudine;  potevo stendermi sotto le coperte  e sentire il suo tepore,  poiché non mi aveva , ne ero certa, neanche per un attimo ,abbandonata e pregava per me, sua  madre . Il cordone ombelicale non era stato reciso e giorno dopo giorno il grigiore di una vita non  vissuta, si stava sfumando; sentivo Marco che mi parlava dolcemente che mi assicurava che era  finalmente sano, felice in quel mondo celestiale, protetto da un grande amore  e desideroso   di  aiutarmi.< Ora ti cullerò  non piangere un giorno ci potremo abbracciare, come quando felice  ritornavo da te affamato, accaldato dopo aver giocato con i miei amici, cara ,mi canterai “ Fratelli  d’ Italia” e mi racconterai le avventure di Marco Polo per farmi addormentare. Non piangere  ,sorridi e pensami , sono sempre con te al sorgere e al tramontare del sole>

Ogni giorno il mio viso era accarezzato da una lieve vento di primavera, salutavo il mio amico Gesù e con un tepore al cuore iniziavo la mia giornata non più oppressa dal vuoto, dall’ansia perversa  che mi stordiva, vivevo con lui accanto agli altri. Non più la paura del buio, non più quel freddo  mortale all’ avvicinarmi al cancello di quel luogo triste  dall’acre , dolciastro profumo di morte,  che mi faceva stare male . Quante volte, all’inizio, conati di vomito mi rodevano lo stomaco, all’ avvicinarmi al suo letto freddo, non resistevo più di qualche secondo e poi fuggivo disperata, sola  col mio dolore, correvo a rincantucciarmi in un angolo della strada alberata di pioppi secolari, per  piangere disperata. Il ricordo delle sue risate, dei suoi quaderni così ordinati, dei suoi balocchi, non  mi placavano.

Quella sera ,mentre stavo  seduta e il mare si era placato, solo una brezza leggera scompigliava  i  capelli ,dopo tanto tempo, fui felice di quell’inaspettata visita . Rimasi a lungo  ad  assaporare quell’incontro così reale, pregna del dolce canto di pescatori, intonato  da Marco prima  di salutarmi . Era quasi notte, mi alzai silenziosa e ,sorridendo, mi avviai a casa, allegra.  .Incominciai a pensare all’indomani con un animo nuovo.

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