Premio Racconti nella Rete 2017 “Il peso delle ombre” di Marco Patrito
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017Stava seduto su una sedia vecchia e cigolante. Si assomigliavano dopotutto: entrambi scricchiolavano al minimo movimento e davano l’impressione di stare ancora in piedi solo per la sapienza dell’artigiano loro creatore più che per una volontà verace. La mano abbandonata sul tavolo, le gambe divaricate, gli occhi spenti e persi sulla superficie dell’acqua che iniziava a dare i primi segni di movimento. Un sommesso bollore si stava infiltrando nel silenzio della cucina e funzionò da sveglia più di quanto non avesse fatto una decina di minuti prima il trillo ferroso dell’orologio solitario sul comò della camera da letto. Si riscosse e prese a frugare nelle tasche della vestaglia di tweed in cerca del porta pipa in pelle nera. E dire che gliel’aveva comprato sua moglie 34 anni prima. Non un graffio, né il minimo indizio di usura si potevano individuare sulla superficie, morbida come il primo giorno in cui l’aveva liberata dalla carta regalo verde. Aprì la cerniera e sparse sulla tovaglia la busta del tabacco, la pipa in radica d’edera Savinelli, il cura pipe, gli scovolini e i fiammiferi.
– Mi raccomando, utilizzi un accendino a beccuccio, altrimenti inficia la qualità del tabacco e di conseguenza della fumata- aveva detto quello sbarbatello figlio della Pina che aveva preso a lavorare nella tabaccheria di famiglia da qualche mese. Lo aveva squadrato con tutto il disprezzo che era stato in grado di trovare dentro di sé in quel momento. Se lo avesse saputo in anticipo, avrebbe incominciato a incubarlo sulla strada per il paese, ma preso così alla sprovvista quasi si era dovuto accontentare dell’occhiataccia appena sfornata. Il ragazzo comunque pareva colpito, tanto da riporre la propria conoscenza del mondo della pipa, maturata grazie ad alcuni tutorial recuperati su Youtube, nel cassetto della vergogna. Abbassò lo sguardo verso l’espositore di gomme da masticare, trovandolo attraente come mai prima d’allora. Con gli occhi ancora infilzati sul suo viso imberbe, cavò fuori di tasca le banconote con cui pagò i fiammiferi e alcuni pacchetti di tabacco English Mixture, attese il resto, lo sistemò in una cerniera interna del giubbotto e uscì, rispondendo con un grugnito e un’arricciata di labbra al saluto che gli aveva rivolto la Pina.
Il bollore si era fatto insistente ora e fu costretto a mettersi in piedi per spegnere la fiamma del gas. Puntò le mani sulle cosce, prese un bel respiro e si staccò dal sedile in paglia contando sulla poca forza che le gambe gli avevano conservato per occasioni speciali come quella. Riprese fiato una volta in posizione eretta, guardando la tempesta di molecole di acqua e idrogeno impazzite confinata dentro le pareti antiaderenti del piccolo pentolino. La fiamma ebbe un ultimo guizzo, poi ubbidendo al volere della manopola placò la sua opera, tornando al sicuro all’interno del bruciatore. Afferrò il manico e versò l’acqua nella tazza smaltata in cui aveva adagiato una bustina di thè nero. Il vapore che saliva si impreziosì del caratteristico aroma di terra umida e spezie e non potè fare a meno di chiudere gli occhi e respirare. Respirare,assaporare e affogare.
Aprì gli occhi che era nel letto. Il lenzuolo ancora tiepido accanto alla mano persa fra i flutti di coperte gli suggerì che non era passato molto tempo da quando Margherita doveva essersi alzata. L’altra tastava alla cieca sul comodino riconoscendo il suo piccolo universo quotidiano: qualche libro, l’orologio da polso, la pipa. La luce filtrava dalle persiane poste alla finestra sul lato destro del letto, ed entrava stemperata dalle lunghe tende blu che lei aveva confezionato con gli scarti di tessuto trovati ad un banco del mercato settimanale. Riusciva ad immaginarla raggiante, sorridente, incontenibile, mentre contrattava con il commerciante ambulante per accaparrarsi quella carcassa di fili, inutile per chiunque tranne per chi, per vocazione, doni seconde occasioni. E poi di corsa a casa, con le borse piene di verdura e pane e frutta e vestiti leggeri e stracci pronti a rinascere. Quando era tornato da lavoro, quella sera, lei lo aveva preso per mano e lo aveva trascinato in camera da letto per mostrargli la sua opera. Davanti alla finestra era appeso un mosaico di blu, squarci di cielo notturno e spruzzi di ogni mare. “ Il nostro oceano” gli aveva detto ridendo. E lui non aveva resistito ad amarla un pezzetto di più. Era ancora a letto, aveva spalancato gli occhi, fagocitando tutto lo spazio della stanza in un solo sguardo e in pochi passi. Colpi di tosse venivano dal bagno, malsani, ambasciatori che portavano le pene peggiori, quelle che si possono solamente osservare. Lei era abbracciata al gabinetto, vomitava sangue. “ Ti porto in ospedale.”
Il thè era reso amaro dalle domande che ogni mattina gli tenevano compagnie nelle prime ore, quando ancora era buio, fino all’arrivo dell’alba. Faceva aderire con attenzione le labbra al bordo della tazza, alzandola con gesti misurati e prudenti per sorbire il liquido senza correre il rischio di scottarsi. Quando beveva aspirava leggermente, producendo un lieve rumore che riempiva la cucina.
“ Quante volte ti ho detto che è da maleducati, signorino, bere facendo questo fracasso ?”.
In piedi davanti al frigo c’era forse sua madre che lo guardava torva, rimproverandolo come quando era piccolo? Mani sui fianchi generosi, grembiule d’ordinanza al collo, pronto a ripararla da tutti i mali che provenivano dalle pentole sui fuoco, il suo giornaliero campo di battaglia. Il cipiglio che aveva modellato il suo viso, si sciolse in un sorriso. Venne incontro a lui e fece per accarezzarlo. Ma ovviamente non era lei, non era davanti al frigo. Aveva smesso di sgridarlo per quella cosa da almeno 70 anni, e per ogni altra da 23.
Faceva freddo eccome quella mattina. Dalla tapparella alzata della porta finestra sul balcone vedeva l’insegna della farmacia Caprari. I led gli parlavano. Dicevano che erano le 4:47. Pausa. Che era il 23/02. Pausa. Che c’erano -12 gradi centigradi. Pausa. E poi ricominciavano il loro monologo ipnotico, diverso minuto dopo minuto, grado dopo grado, giorno dopo giorno. Mancavano 63 minuti all’accensione del riscaldamento. Aveva ancora tempo per espiare le proprie colpe.
La superficie della pipa non era liscia. Passando i polpastrelli sul fornello sentiva le piccole insenature, i crepacci, i fiordi che la sabbiatura aveva lasciato asportando le parti più tenere della radica. La possedeva da così tanto tempo che aveva ricostruito nella sua mente una mappa precisa al nanometro di quel mondo di legno, una cartina grazie alla quale riusciva a non perdersi nel gorgo dei pensieri. Stretta fra le dita della mano destra, si apprestò a caricarla come aveva imparato da suo padre. 3 prese di tabacco English Mixture, corroborato dall’apporto di Cimette Toscani: la prima andava schiacciata con la mano di un bambino. La seconda con la mano di una donna. La terza con quella di un uomo. Si portò la pipa alle labbra e lì la tenne strette mentre armeggiava per accenderla.
Il fiammifero intonò la sua sinfonia di graffi lungo il dorso della scatola, e da quel suono proruppe la fiamma. Inserì la chioma infuocata nel focolaio e appiccò l’incendio. Una prima boccata, poi una seconda. L’orchestra dei fiammiferi intonò il bis e procedette alla seconda accensione. Terza boccata ed infine una quarta. Le note di cuoio ed erbe si sprigionarono in bocca, l’aria si colmò di quell’aroma quasi tangibile. Si perse infine fra le nebbie del tabacco.
“ E’ normale tossire la prima volta. Hai buttato giù non è vero?”. Il volto del padre iniziava a delinearsi come un faro attraverso il banco di fumo. Sorrideva sornione, con i denti stretti intorno al bocchino in ebanite. Intanto lui consumava l’accesso di tosse, il sangue che procedeva verso la testa, pulsando dietro agli occhi. Sentiva il gusto del tabacco riempirgli le fauci, improvvisamente seccate, plagiate da quella boccata. Il babbo aveva tentato di iniziarlo a quel piacere maschile, una tradizione che gli uomini della famiglia si trasmettevano da generazioni. Quei volti scaltri, plasmati nel marmo dell’obbedienza militaresca che dovevano al capofamiglia, avevano celato una saggezza discreta ma granitica, una conoscenza quasi sconfinata del mondo della pipa. Gli montava la bile per la rabbia e lo schifo che gli aveva causato, e lui stava lì, placidamente stravaccato sul divano del salotto buono. Odio quella merda erano le parole che aveva pensato, e che forse aveva detto, a giudicare dal crollo di quella facciata sicura che era stata il volto di suo padre fino ad un’istante prima.
Ravvivò le braci con il curapipe. Tirava bene perché aveva reso le miscela meno umida con l’aggiunta delle cimette. Risultava anche più decisa al gusto, più amara, meno amabile. Un’aroma strutturato, sofisticato, difficile da capire, impossibile da apprezzare. Eppure ogni mattina, alla tazza di thè seguiva una fumata di ricordi penosi.
Non amava alzare l’interruttore a quell’ora. Preferiva la penombra, le chiazze di luce che creavano le luci sottocappa che correvano lungo i mobili pieni di utensili inutili e spazio. Quell’illuminazione precaria bagnava timidamente i contorni degli oggetti sparsi per la stanza e appesi alle pareti e fra questi indovinava il rettangolo inclinato di un portafoto accanto alla televisione. Si passò una mano fra i capelli grigi, unti, radi. Non sentiva più la necessità di curare la propria igiene. Anche la rasatura, pensiero fisso dopo ogni risveglio fino a qualche anno prima, ora non era più un’urgenza, anzi. Si carezzò le guance ispide, che facevano resistenza a quel toccò amorevole, a quel gesto automatico. Decisamente non era in grado di tenere gli occhi lontani da quella foto. Risaliva a 15 anni prima. I capelli erano brizzolati, ma puliti e in ordine. La linea del fisico suggeriva un corpo allenato, che ancora non aveva intenzione di arrendersi agli anni trascorsi. Le guance nude, rese lucide dal dopobarba erano tirate a lato, il sipario di un sorriso che sfoggiava con naturalezza. Indossava un abito di sartoria blu oltremare e nel taschino della giacca faceva bella mostra di sé la pipa. Al fianco aveva Margherita. In posizione speculare c’erano un altro padre e un’altra madre. E al centro una coppia nel giorno più felice della loro vita. Sua figlia splendeva, anzi no, attirava tutta la luce presente e la riverberava amplificandola. Accanto a lei un giovanotto talmente innamorato da dimenticarsi dell’obbiettivo, insensibile al “ cheese” usato come esca dal fotografo: aveva occhi solo per lei.
Dopodichè il buio.
Certo, c’erano stati il pranzo, i regali, le risate, i canti, il ballo stretto al pezzo più bello della sua vita che da quel giorno sarebbe diventato la metà mancante di quella di un altro uomo. Ma poi il buio. Il silenzio soprattutto.
Tirò fuori da un cassetto il cellulare che aveva l’abitudine di usare unicamente a quell’ora. Lo schermo reclinabile insisteva nel dire che erano le 5:53. Gli erano concessi ancora 7 minuti. Compose il numero della segreteria telefonica, l’unico presente alla voce “ chiamate in uscita”. La voce registrata lasciò saggiamente spazio ad una frazione di vuoto sonoro, riempito poi dal pianto di sua figlia, dalla rabbia di sua figlia, dalle minacce di sua figlia. E poi il silenzio, appunto, di sua figlia. 5:59. Mancava poco, troppo poco. Non si sentiva in pace con sé stesso, ma in ogni caso cominciò a pulire a la pipa dalle ceneri, la polvere di ciò che era stato, il ricordo di ciò che gli aveva dato piacere, che aveva amato. La ripose nell’astuccio. La zip arrivò a fine corsa nell’attimo in cui i termosifoni armonizzavano i loro gorgheggi gutturali.
Mancavano ancora un paio di ore al momento in cui la luce sarebbe giunta mutilata sul suo viso attraverso le stecche delle imposte. Allora quel miele luminoso avrebbe scavato nelle sue rughe, nelle pieghe degli abiti, fra i piccoli dossi che le vene in rilievo sul dorso delle mani creavano. E tutto avrebbe avuto una consistenza così terribile e definita da far male. Nella notte il peso delle colpe sfumava fino a diventare una pagliuzza secca, un’aroma sgradevole, un gusto riprovevole, da poter star racchiuso in una busta di tabacco, nella garza da infusione del thè, dietro le saracinesche dei ricordi. Ma il calore e la luce non permettevano compromessi. Il giorno stava arrivando e come ogni giorno sarebbe stato colto impreparato da quella metamorfosi impietosa in attesa di un nuovo tramonto e altre boccate liberatorie di buio.
Che affascinante ritratto! leggerlo e rivedere mentalmente certi quadri di Freud è stato tutt’uno. Bello l’artificio della pipa, al di là della ricchezza di particolari da intenditore, è un bel modo per affrontare il tempo, vederlo trascorrere, aromatizzarlo per renderlo vivibile… questo è un racconto notevole.
Bel racconto, hai fatto ben progredire i pensieri e i gesti legati alla pipa. A volte, se posso permettermi, troppi aggettivi, sempre comunque scelti e mai banali.
Complimenti!
Complimenti Marco, hai descritto la solitudine e l’età con i suoi riti, l’insonnia e i lenti tempi notturni, l’allontanarsi dalla luce, la perdita degli affetti, le ferite dei ricordi e tanto altro in modo attento ed emozionante, quasi impietoso. Un bel racconto che va a segno come quel senso di colpa che descrivi.
Un bel racconto dall’intreccio interessante. Il protagonista un uomo molto anziano rivive come in sogno la propria vita. Il suo animo è diviso tra la suggestione di un presente acido e solitario e un passato pieno di ricordi forti e vivi. Un racconto dalle tinte forti per certi contrasti e dai colori più tenui in alcuni passaggi più lievi in cui i sentimenti si stemperano.fino ad annullarsi nel buio della notte. E solo allora il protagonista respira fino alla nuova alba.
Marco, palpabile l’inquietudine, a volte infastidita, che accompagna lo scorrere del tempo scandito dal profumo del tabacco che aleggia su tutto il racconto. Molto bello e ben costruito.
Marco,
avrei talmente tante cose da dirti che non so da dove cominciare; cercherò di non essere prolisso.
Intanto, ma è una mia personalissima opinione, ho adorato sia la scelta che il “dosaggio” degli aggettivi: a mio vedere, si tratta del valore aggiunto che appesantisce le ombre del protagonista ed illumina di raffinatezza questo favoloso racconto.
Si tratta di gusti, per carità: io non vado troppo d’accordo con la prosa post moderna – “quattro parole – punto; quattro parole – punto” ecc., prediligendo stili più “ricamati”, forse più tipici dei classici della letteratura.
Ed il tuo stile lo trovo impeccabile: vocabolario vastissimo, proprietà di linguaggio eccellente, ottima qualità e quantità di figure retoriche.
Venendo al contenuto, hai plasmato una solitudine che sembra respirare, strisciare tra la mobilia e le tende del logoro appartamento, meschina e spietata nell’addentare i pochi anni che rimangono da vivere all’anziano; il tutto in maniera sapiente e non involuta, consentendo al lettore di respirare a fondo “il fumo di pipa” che aleggia nella camera e che offusca la parabola discendente del suo stanco, straziato fumatore.
Altro da aggiungere?
Bravissimo.
Marco, molto bello il tuo racconto. Ho apprezzato tantissimo la ricostruzione sensoriale che hai fatto attraverso il pretesto della pipa. Si sente lo studio, possiedi una scrittura sapiente che sai dominare e dosare senza sacrificare il messaggio sentimentale del vuoto e dell’abbandono. Complimenti!
Bellissimo il tuo racconto Marco, come la cerimonia del thè, ogni gesto ha un suo intrinseco significato, un collegamento profondo con gli affetti più cari.
Un lungo dolce respiro di essenze magiche che aprono intimi scenari nell’ animo del protagonista.
una prosa ricca, densa come la mistura del tabacco, ma equilibrata, scorrevole elegantissima. Straordinario!
Marco, sono rimasta davvero impressionata dalla qualità del tuo racconto.
Perfetta la resa di una percezione temporale statica ma complessa, sospesa fra l’evocazione e l’attesa, e scandita dai rimandi alle pipa – distribuiti questi in modo sapientissimo. Prosa colta, elaborata, e tuttavia scorrevole; denso ma chiaro il complesso dei significati.
Grazie infinite per un testo godibilissimo che è al tempo stesso una lezione di bella, anzi splendida scrittura.
Grazie mille Giada! Come sai ho già espresso la mia opinione sul tuo racconto e rinnovo sinceramente ogni parola. In bocca al lupo per il tuo futuro!
Gianluca, ti ringrazio per come hai saputo leggere la cerimonialità del senso di colpa. Esso non è nè più nè meno che un’abitudine per chi ha messo in conto di votare la propria vita a reiterarlo giorno dopo giorno, fino alla fine. Ti auguro buona fortuna
Consuelo, grazie molte per aver visto tutto quello che avevo lasciato intravedere nel mio racconto. Son commenti che lasciano soddisfatti. E complimenti per il tuo racconto. Spero il meglio per il tuo futuro!
Lorenzo, se ogni commento prolisso fosse così preciso, puntuale e lusinghiero come il tuo allora pregherei per averne uno ogni giorno! Grazie mille. Penso che la bontà della tua opinione sia fin esagerata ma sono contento di averti lasciato ciò che hai detto di aver trovato. Grazie mille ancora
Grazie mille anche a te Paola. Il tempo ho voluto che scorresse attraverso i gesti e i flashback. Spero di esserci riuscito!
Maddalena, riassunto puntuale, preciso e bellissimo. Grazie mille per esserti lasciata rubare qualche minuto in compagnia di questo anziano che aspetta solamente un’altra notte, un’altra notte ancora
Marco, grazie mille! bellissimo anche il tuo racconto, e infatti non sono stato l’unico ad accorgersene. Buona fortuna!
Paolo, ti ringrazio. Anche le critiche, come i complimenti, sono sempre bene accetti. So che avrei potuto snellire un pò il testo, ma non ho avuto il coraggio. Mi sembrava che gli aggettivi fossero l’unica cosa che potevo offrire a quest’anima piena di rimpianto e dolore
Ugo, grazie mille per le belle parole e per aver trovato il filo conduttore sensoriale giusto per passare indenne attraverso la vicenda
Complimenti Marco. Mi è sembrato di assistere ad un film, di uno dei nostri famosi registi. Hai saputo indurre nel lettore una esatta raffigurazione della scena ed una spontanea empatia per la solitudine del protagonista.
Grazie Francesca per ciò che hai detto. Dal momento che era proprio quello l’intento , il tuo suona come un complimento gradito. Mi piacerebbe sapere quale regista ti fosse venuto in mente!
Una prosa ricca, densa e precisa, parole scelte con cura che scolpiscono dettagli sapienti con precisione amorevole. Un riferimento cinematografico potrebbe essere Tarkovskij, l’insistenza lenta sui primi piani a misurare lo scorrere del tempo, lo scivolare della luce sui contorni dei volti e degli oggetti. La “pietas” dello sguardo sul dolore ostinato della vecchiaia. Bravo, davvero!
Intenso, ricco di profumi, un racconto che ha la grande qualità, tipica dei lavori ben riusciti, di far “rimuginare”. Ti lascia in bocca un sapore nostalgico e commovente .Mi è davvero piaciuto tantissimo.
Un anziano, il tempo che scorre inesorabilmente, la fine che si avvicina e una pipa che miscela e addolcisce l’inquietudine. Finalmente un uomo che rivaleggia con le tantissime bravi scrittrici che arricchiscono questo bel caffè virtuale. Bravo!
Marco, il tuo è il “grande assente” dall’antologia dei vincitori. Certo parlo per gusto personale, tanto più che io ho un debole per le prose colte e cesellate come la tua; ma ritengo comunque che il tuo racconto avesse dei meriti oggettivi, e mi dispiace che non siano stati valorizzati anche in sede ufficiale. Sono però sicura che troverai chi ti possa rendere onore. complimenti ancora!
PS: ovviamente non voglio insinuare dubbi sulla liceità delle scelte della giuria, ci mancherebbe! Anzi, immagino le serie difficoltà in cui si saranno trovati, in molti casi 🙂