Premio Racconti nella Rete 2017 “Cane” di Luigi Nalli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017Si muoveva tra le strade rotte di un paese qualunque, avvolto dal fetore di stantio della sua pelle. Vagava senza meta, minacciato da un inverno qualsiasi, e gioiva, maledettamente libero. Non possedeva nulla, tranne un cappotto di renna, dalle cui maniche aveva ricavato tessuto per guanti, gomitiere e ginocchiere. Quel giorno indossava anche il cilindro che si era fatto prestare da Tito, un suo collega. I raggi del sole filtravano dal grosso buco in cima al cappello. La sua chioma ribelle, color fumo di Londra, cominciava a scaldarsi.
Lungo il cammino si smarriva ripetutamente negli altri, li osservava, e li apprezzava anche se sembravano seri o erano imbronciati.
«Ehilà, cane! Vieni qui a bere nella tua ciotola!» gli urlò un teppistello indicando il secchio in cui scolava una grondaia. Ma non attirò la sua attenzione. Il barbone fissava l’orizzonte davanti a sé e sorrideva, mentre immaginava le onde di un oceano sconosciuto, riproducendo fedelmente il loro ciclico fragore.
Quando tornò alla realtà si ritrovò in coda alla mensa dei poveri. Tito lo notò tra la folla e gli si fece vicino.
«Ehi, Diogene! Ma che ci fai con il mio cappello?» chiese all’amico. Diogene rispose con un’espressione di beatitudine. Stava pensando a quando era piccolo, e con i suoi cuginetti, numerosi come un gregge di pecore, si metteva in fila per assaggiare le torte che la nonna e le zie preparavano ogni domenica. Gli occhi azzurri di Tito gli avevano rammentato lo sguardo del cugino Tobia, e la coppola del tipo davanti a lui era identica a quella di Alessandro. Così appena raggiunse la grassona con la pentola piena di zuppa esclamò:
«Ciao nonna!».
«Nonna a chi? Sciagurato di un cane! Prendi la minestra e levati!». Diogene fissò il piatto. La sua mente tornò alle ramanzine del suo genitore durante i pasti.
«Non puoi fare sempre quello che vuoi! Non sei una bestia! Vivi in una famiglia civile e rispettabile. Mio padre ha cresciuto quattro figli, possibile che io non riesca ad educarne uno? Sarebbe stato più facile addomesticare un cane randagio». Ora nella sua testa, seduto a tavola al posto del padre, c’era un bulldog rabbioso che ringhiava senza motivo. Rise di gusto.
«Mi vuoi dare o no il mio cilindro?» gli urlò nelle orecchie Tito.
«Prenditelo pure. Comunque me l’hai prestato tu ieri sera. Eri ubriaco, come al solito», rispose Diogene.
«Ti ho detto molte volte di non approfittare del mio stato», replicò l’amico.
«Non me lo sono mica venduto!».
«Buon per te cane!».
«Dai, vieni. Ho rimediato una scatola di cartone in cui ci si sta in due».
«Non vorrai mica metter su famiglia, vero?».
«Con te? Sei proprio matto!». Ridacchiando si infilarono in uno scatolone sgangherato. Assaporarono lentamente le loro minestre e ogni tanto sospiravano o bofonchiavano qualcosa, tranquilli, rilassati.
Fecero appena in tempo a gustare l’ultimo boccone, che un tizio nerboruto gli si avvicinò con un’espressione allucinata, a metà tra la stupidità e la spavalderia.
«Ehi, cane!» esordì fissando il vuoto con i suoi occhi strabici. Non ebbe risposta. «Sì, dico a te! Ti ho visto deglutire. Hai paura, vero?» domandò lo spaccone minaccioso indicando Tito.
«Veramente cane è lui», ribatté Tito.
«Ahn». L’uomo, irritato dalla gaffe, cercò con lo sguardo i ragazzi della sua banda. Uno di loro lo raggiunse e gli sussurrò qualcosa all’orecchio. Il capo annuì, poi si rivolse a cane. «Dai cane, lavora per noi, spaccia un po’ di roba! Tu sei come me, sei un tipo sveglio. Che vuoi in cambio? Dei vestiti più caldi? Una donna?». Diogene restò impassibile, Tito protese il busto verso di lui. «Chiedi del cognac», urlò.
«Allora cane?» insistette il malvivente.
«Su, spostati, mi fai ombra», rispose il barbone sbadigliando. Il brutto ceffo, colto il disinteresse, si allontanò seguito dai suoi scagnozzi. I due amici, ancora avvolti nel cartone, continuarono a parlare del più e del meno come se nulla fosse.
«Tito, tu ricordi tua madre?» domandò Diogene.
«Certo! Mia madre era bellissima», affermò l’altro tutto convinto, osservando qualcosa oltre i palazzi di fronte al parco. Poi girò il quesito al compare.
«Tu ricordi la tua?».
«No. Però quando ero piccolo nel mio giardino c’era una margherita meravigliosa, cresceva a vista d’occhio e diventò enorme. Decisi di andarmene appena smise di crescere».
«Chissà se sarà ancora lì. Non ci sei più tornato?» chiese Tito incuriosito.
«No», disse Diogene rompendo la sua apnea.
«Potrebbe essere là che ti aspetta», lo rassicurò l’amico, poi, dopo una pausa di riflessione riprese, «potrebbe anche essere morta».
«Non ha importanza», replicò Diogene. Tito restò zitto per lo stupore. «Quando chiudo gli occhi quella margherita è con me, nel mio cuore, grande quanto l’avevo lasciata. Da allora nemmeno io sono cambiato, sono rimasto sempre lo stesso, fedele a me, proprio come un cane senza padrone».
Luigi,
crudo e disilluso, dalla prosa secca e pungente, come gli improperi di cui Diogene è destinatario.
Il finale è un inno alla libertà.
Bravo.
Grazie Lorenzo, davvero.