Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2017 “Quel mattino” di Dolores Carnemolla

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017

 

In quel sud, lontano da ogni cosa, la busta arrivò in una giornata qualunque. La trovò, nella cassetta della posta, il figlio maggiore: di tanto in tanto andava a controllare che ogni cosa fosse a posto, nella grande casa di Gaddimeli rimasta disabitata. Nell’orto sul retro, l’albero di limoni continuava a rifiorire e a dare i suoi frutti gialli e lucenti. Il carrubo centenario ombreggiava il giardino: emanava un odore forte e dolciastro che si perdeva nell’aria quieta di quel luogo silenzioso.

Il mare, poco lontano, mostrava una linea dell’orizzonte nitida e stabile ma il bisbiglìo delle onde non poteva sentirsi a quella distanza così che l’azzurro appariva come un vicino di casa, riservato eppur presente. Quella parte di Sicilia sapeva essere così arrendevole e immobile, a volte: una docilità che era saggia accettazione del divenire. E tutto, in quella grande casa, stava morendo adagio, tra i colori e la mitezza di certe giornate belle del sud.

Nella buchetta non c’era altro: esclusivamente quella busta, bianca e sola, indirizzata al padre, Guglielmo. Il recapito era scritto a mano, in stampatello, con inchiostro nero. Sui francobolli il timbro postale registrava la provenienza: Ceska Republika. Un’etichetta adesiva blu, beffarda, raccomandava Prioritaire.

La busta fu aperta con la stessa sensazione con cui si apre, per scrupolosa ispezione, una confezione di cibo ormai oltre scadenza. Dentro c’era la fotografia di un’anziana donna in tenuta sportiva, da camminata di montagna: in una mano teneva due bastoni, con l’altra mostrava sorridendo dei funghi appena raccolti. I capelli bianchi incorniciavano un viso dai tratti spigolosi e l’espressione su quel volto era energica. Sul retro della foto era scritta solo una frase: “Come stati? Saluti di Praha, Zdenka”.

Di Zdenka non si avevano notizie da tempo. La prima cosa che il figlio maggiore ricordò di lei fu l’aspetto severo, intransigente. E che aveva tentato di insegnargli a nuotare, un’estate. Il metodo militaresco della donna – infermiera e senza figli – si rivelò memorabile oltre che inefficace: consisteva nel gettarlo in acqua nella convinzione che, per istinto di sopravvivenza, lui potesse cominciare a nuotare. Tornò a casa dalla madre in lacrime. E non andò mai più al mare con Zdenka.

Poi pensò a suo padre.

 

Guglielmo aveva una camminata svelta e allegra, due occhi vividi di curiosità e inquietudine. Ad annunciare i suoi passi, per le vie del paese, era sempre un fischiettare inconfondibile e sapiente. Con maestria di memoria e fiato portava in giro arie d’opera, tenendo il busto dritto e le mani in tasca: volteggiavano attorno a lui Cavaradossi, Puccini, Alfredo, Verdi, Mozart, Bizet e Andrea Chénier. L’incedere aveva qualcosa di distinto ma siccome era piccolo di statura e mingherlino, una sfumatura di buffo caratterizzava la sua figura, così che quei suoi passi erano accompagnati da un’aura dotta e affabile insieme.

Aveva abitudini singolari: camminando amava giocherellare con i trentaquattro grani del suo Tasbeeh, il rosario musulmano, come fanno nei paesi arabi per strada quasi tutti gli uomini.

Quando incontrava i compaesani, con gesto teatrale toglieva una mano dalla tasca e sollevava il palmo a mezz’aria “Buongiorno brava gente!”, esclamava. Manifestava la sua cortesia con gesti d’altri tempi, dando animo e un tocco di temperamento personale ai personaggi letterari che popolavano le sue avide e appartate letture, dove Victor Hugo seguiva Émile Zola, Erich Maria Remarque aspettava il suo turno dopo ?echov e Dostoevskij.

I figli piccoli quando lo accompagnavano lo osservavano, lì dal basso, con gli occhi spalancati, compiaciuti per quella stravagante allegria. Airin, la moglie che era di natura timida, nascondeva con un sorriso accennato l’imbarazzo che quegli atteggiamenti magniloquenti suscitavano in lei.

Guglielmo era loquace e per quella parlantina vispa si era guadagnato il soprannome di “Chiacchera”. Vestiva senza interesse alcuno per le mode, era per lui essenziale che sulle camicie fosse cucita almeno una tasca dove poter riporre le sigarette – fumava le MS – e averle comodamente a portata di mano, così da poterle sentirle sul petto minuto. Amava camminare per la campagna e andare a raccogliere erbe selvatiche e funghi: aveva i suoi posti segreti.

La casa in cui aveva vissuto fino a prima di sposarsi distava pochi passi dal mare e per tutta la vita fu per lui un piacere usuale seguire con lo sguardo le navi che sfilavano lungo l’orizzonte: le rotte dei bastimenti che attraversavano il Mediterraneo suscitavano nella sua immaginazione un grande fascino, con le loro storie di partenze e arrivi.

 

Quell’anno l’estate stava aprendosi ai villeggianti quando decise di partire anche lui. Si allontanò senza dir nulla: fuggì. Il paese, in quel momento della stagione, si preparava ad accogliere i vacanzieri, con la sua rotonda sul mare, lo chalet sulla spiaggia e il cinema all’aperto. Guglielmo non diede notizie di sé per due mesi, poi alla fine di agosto giunse ai suoi genitori una lettera da Praga: poche righe informavano che il ragazzo stava bene, bisognava però andare a riprenderlo, prima che la situazione potesse complicarsi. Il biglietto era firmato dai signori ?en?k e Zdenka Sochova. La data era quella del 21 agosto 1968: quel mattino stesso i carri armati russi avevano invaso la Cecoslovacchia, ponendo fine alla Primavera di Praga.

Guglielmo aveva raggiunto la capitale Cecoslovacca in autostop, attraverso Stoccarda e poi Vienna. Era riuscito ad arrivare a Ostrava ed infine a Praga. Nello zaino aveva solamente un vocabolario italiano-cecoslovacco e neppure uno spicciolo. Fu alla biblioteca nazionale che conobbe una coppia che amava l’Italia, un medico e un’infermiera: ?en?k e Zdenka. I due presero a cuore quel giovane che mostrava interesse per il loro Paese.  Furono colpiti dal fatto che, tra le pagine del suo diario, un quaderno con la copertina di tela azzurra, il ragazzo custodisse una fotografia di Alexander Dub?ek, il simbolo stesso della democrazia. Le pagine erano riempite da una grafia ordinata in cui le sillabe si accompagnavano tra loro in maniera disciplinata e perfetta. “A che serve vivere se non si è compresi?” aveva scritto sulla prima pagina.  Sul retro della copertina aveva ricopiato le parole dell’inno nazionale cecoslovacco: “Dov’è la mia casa? Dov’è la mia casa? L’acqua scroscia sui prati, le fronde frusciano sulle rocce, nel giardino risplende il fiore di primavera…”. Cercava la sua strada, Guglielmo. Cercava la sua storia.

Quel mattino del 21 agosto non fu uguale ai giorni precedenti e non sarebbe stato uguale ai giorni successivi, non lo fu per lui, non lo fu per tanti altri. ?en?k e Zdenka lo smossero: “Svegliati, ci sono i russi” gli dissero. Guglielmo guardò dalla finestra: i carri armati avanzavano cupi per le strade, sotto il cielo pulito di quella giornata che nessuno avrebbe mai dimenticato. Accesero la radio: durante la notte i tank sovietici avevano valicato il confine cecoslovacco e all’alba erano entrati a Praga con l’obiettivo di bloccare l’ascesa al potere di Alexander Dub?ek. Il popolo era invitato a non accettare provocazioni e a opporre una resistenza passiva. Guglielmo si vestì in fretta e uscì: vide le facce dei praghesi smarriti di fronte ai tank sovietici, una folla di giovani e meno giovani che invadevano strade e piazze, salivano sui cingolati, tentando di parlare con i silenziosi soldati dell’armata rossa. Alcune donne piangevano. Si unì a un gruppo di manifestanti, per esprimere il dissenso contro gli invasori. Distribuì insieme a loro volantini con la scritta “I fratelli russi ci hanno invaso”. Fu fermato dai militari e condotto in caserma: lo interrogarono e alla fine lo rilasciarono. “Ragazzo, turista, torna a casa!”, ordinarono.

?en?k e Zdenka lo accompagnarono al confine con l’Austria, dove ad attenderlo c’era il padre che lo avrebbe riportato in Sicilia. Ore ed ore di macchina a ritroso, chilometri densi di quello che il giovane aveva visto e vissuto. I suoi non erano più pensieri di carta, raccolti in un diario, erano pensieri di un uomo che aveva visto i carri armati schiacciare un grande sogno, ideali che erano divenuti consapevolezza. I giornali della provincia siciliana parlarono poi di lui, di quello studente che meglio che sui banchi di scuola aveva imparato quanto fosse caro il prezzo della democrazia.

 

Il figlio maggiore aveva ancora la busta tra le mani. Ripose la fotografia di Zdenka mentre si chiedeva dove fosse ?en?k. Si rese conto con un certo fastidio che avrebbe dovuto rispondere, scrivere qualcosa. Non sapeva da dove cominciare, forse dalla fine, da quattro anni prima.

Guardò l’orologio: aveva tempo, voleva andare a trovare suo padre, raccogliere per lui un mazzo di erbe selvatiche e lasciarle lì, sulla sua lapide. Il cimitero sarebbe rimasto aperto ancora un paio di ore. Gli sembrò di sentire l’eco di un fischiettare, alzò lo sguardo per capire da dove provenisse e vide in quel momento una nave attraversare l’orizzonte, lenta in lontananza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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