Premio Racconti nella Rete 2017 “L’integrazione” di Nicola Mele
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017Il sole cocente di oggi, la degna conclusione. Scotto, magari ho pure la febbre però, almeno, sono a casa. A chiedermi come avrei dovuto evitarlo. Così chissà poi non ci ricasco più. Un villaggio turistico in Calabria, a giugno, in offerta speciale col coupon di group-nonsocosa, ma si può mai? Io poi che i coupon non li sopporto, miraggio di risparmio, facile e immediato, per acquistare cose che nemmeno regalate ti prenderesti. E poi con la scolaresca di Camilla, un weekend, sì, compagni di classe e i genitori. Tutti, i genitori. Perché dobbiamo integrarci con tutti, dobbiamo dare a nostra figlia l’opportunità di coltivare le sue amicizie anche lontano da scuola, permettere ai bambini di socializzare anche fuori del solito ambiente, metterli a contatto con realtà diverse, lasciare che si creino le loro interazioni di gruppo, farli sentire protagonisti, e poi se non andiamo si sentirà ai margini…e blablabla. Margini? Interazioni? Protagonisti? Ma de che? E io chi sono? Il gregario? E noi chi siamo? La generazione dei gregari, siamo? Da piccoli uscivamo coi nostri genitori e coi loro amici, lasciavamo che loro interagissero con le persone che loro sceglievano e noi, noi ci sorbivamo i figli dei loro amici così come adesso ci sorbiamo i genitori degli amici dei nostri figli. Il figlio dei migliori amici dei miei era Riccardo: estati intere passate insieme, serate a casa sua o a casa mia, sempre insieme, inseparabili. Solo che io lo odiavo, tutto perfettino, educatino, mangiava le verdure, bravissimo a scuola, tutte le tabelline a memoria e poi, più grande, pure la tavola degli elementi chimici, a memoria!
E ci andiamo pure in pullman, in questo posto, come un allegra comitiva, e certo sì, così ci integriamo meglio. Non ci sediamo marito e moglie ma mischiati così possiamo conoscerci e chiacchierare…pensa che culo che abbiamo. Integrarsi, integrarsi, integrarsi! Parola d’ordine. Le mamme parlano di scuola, anche dodici ore, senza problemi, materia per materia, insegnante per insegnante, minuziose, precise, sanno tutti i compiti fatti, anche quelli in classe. Integrarsi è più facile. I padri devono essere simpatici. Soprattutto. Tenere banco. Raccontare fatti spiritosi. E fare qualche battuta oscena a doppio senso. Necessario. Ma io non ci riesco. La battuta oscena ha un suo percorso, corona la confidenza, sancisce l’intimità, non la si sbatte in faccia al primo venuto. Cambio posto un paio di volte. Rido quando gli altri ridono. Cerco la mia dimensione. E lei mi sbircia, per essere sicura che io non stia facendo l’orso. Un’occhiata, di tanto in tanto. Se vogliamo essere parte attiva e protagonista del gruppo, nessuno dei due può essere orso. Franco sembra uno come me, ai margini. Chiacchieriamo un po’. Sommessi. Le voci coperte dagli schiamazzi.
Aria condizionata a palla, mi metterei addirittura il cappello, se fossi solo. Il viaggio è lungo, ci fermiamo pure perché il motore si è surriscaldato. Del resto la rappresentante di classe si è sbattuta per spuntare il pullman ad un prezzo così basso, un motivo ci dev’essere.
Villaggio maestoso: nuovo, bianco luccicante, abbarbicato all’arida costa pietrosa, vanamente nascosto dai cespugli e dagli arbusti, contornato da una vasta distesa di pini giovani, testimonianza di un’ombra solo promessa. Costruzione moderna, design accurato, qualche scadimento qua e là a sala ricevimenti, un evidente tentativo di integrazione paesaggistica e ambientale, non sempre riuscitissimo. Integrazione, sempre.
Bar, ristoranti, palestre all’aperto, campi per tutti gli sport e piscine immense. Tutto quasi vuoto però. Desolato a tratti. Qualche altro gruppetto di couponisti sta già movimentando la piscina. Un altro gruppo di padri e figli imperversa sullo scivolo.
Andiamo tutti in acqua, propone il leader, tutti anche noi sullo scivolo, padri e figli. Io veramente ho un po’ di mal di gola, sarà l’aria condizionata, quasi quasi evito di mettere il costume e bagnarmi. Occhiataccia. E sia. Mi tuffo con faccia contenta, quasi orgoglioso di evitare così un possibile trauma infantile di difficile soluzione. Acqua gelida, per me lo è anche a ferragosto, Camilla non mi si fila e anche Carletto si è integrato rapidamente con gli altri piccoli, e allora faccio il bagno con i padri. Sembra ci si conosca da una vita. Schizzi, grida, giochi d’acqua. Quegli altri, sono napoletani, fanno un gran chiasso e allora noi non siamo da meno. Ad un tratto temo che partano anche cori e tafferugli da stadio. Scongiurato.
L’animazione c’è. E’ un weekend promozionale, devono farsi notare. Baby dance, e poi gioco aperitivo. Lo evito perché Carletto ha bisogno di cambiarsi e lo accompagno io in stanza.
Cena non memorabile, anzi. Non da villaggio. Niente buffet, quantità razionate, spaghetti con le cozze buoni, frittura meno, amaro da pagare a parte non incluso nel coupon. Dopo averti carezzato con languide suggestioni, ti ricordano che hai pur sempre comprato il weekend in offerta e quindi non hai diritto a tutto. Anzi.
La sera si balla. Il gruppone ormai è una comitiva. Qualcuno è anche particolarmente euforico per via del vino bianco. Allegria esagerata, quasi ostentata. Si sa, l’alcol favorisce l’integrazione. Per me l’ubriacatura è come la battuta oscena. Ci sta, ma con chi dico io.
Mi si avvicina la mamma di nonsochi, ma tu non sei fabiofini? Sì ma…ehm tu chi sei? Non ci credo quando me lo dice. Marianna scuola elementare, quaranta anni fa. Irriconoscibile. Me la ricordavo piccina e insignificante, coi capelli corti. Il tempo l’ha decisamente aiutata. Fascinosa, non appariscente, flessuosa. L’ho notata sul pullman, in realtà, ma non immaginavo fossimo stati compagni di scuola: la ricordo sempre al primo banco, e basta, all’epoca poi, mica andavamo nei villaggi insieme, noi.
Ballano. Scena variopinta. Le donne sono tutte più o meno infiorettate, chi truccata, chi scollata, chi pettinata. I padri sono sudati, le camicie semiaperte sul petto. Arriva la dance. I ritmi si fanno più incalzanti. I bassi pompano. Ballano schierati. Muovono passi simultanei. Ondeggiano. Alzano ritmicamente le mani al cielo. Una sincronia così perfetta da apparire volutamente grottesca. Mara è al centro. Belloccia, ciarliera, griffata. E’ avvocato, sta pure in politica, i figli sono tutti kway, woolrich, hogan e psp ultima versione. Stasera non ha portato nemmeno la tata. Imperversa in pista e si scatta i selfie con le compagne. Tutte le madri fanno la gara per starle vicino.
Vorrei tanto fumare una sigaretta. Ma non qui, non davanti ai bambini, non davanti agli altri. Ho diritto ad una consumazione. Gin tonic, magari mi scioglie un po’. Molto tonic, poco gin, una caterva di ghiaccio, da congestione. Lo sorseggio. Non mi sciolgo. Siedo al bordo con Franco. Precisino ma piacevole. Sembra Riccardo. Legge pure lui: mi elenca Franzen, McEwan e Auster. Passa Mara. “E voi che fate qui? Sempre a parlare di calcio”. Occhiataccia.
Si dorme. Finalmente.
Mattinata in spiaggia. Qualcuno in piscina. Il sole è caldo, troppo caldo, metto la protezione sennò poi mi arrovento. Ci si racconta i bagordi della sera prima, come un manipolo di eroi che ha compiuto un’impresa. Porto Carletto verso gli scogli. Con maschera e pinne. Ci piace. Mare trasparente e pulito. Fondali diversi dai nostri. Si diverte. Nuoto nell’acqua fredda, anche col mal di gola. Torno che i padri hanno già organizzato una partita di calcetto sulla sabbia. Mi hanno escluso. Ci mancava solo che fossi obbligato a giocare sotto questo sole. A quest’età poi, un colpo di calore, un embolo improvviso, oppure solo mi spezzo una gamba. “Gli altri vanno a giocare a pallone. Tu no, eh….”. Occhiataccia.
Altro gioco aperitivo. Stavolta a coppie, padri e figli. Ancora trauma infantile in agguato, da evitare. Prendo Camilla sulle spalle e corro anche io come gli altri per cercare di arrivare primi a scoppiare il palloncino pieno d’acqua. Passiamo due turni, poi arriviamo terzi, peccato. Ho la schiena a pezzi, ma sono fiero della mia performance. Ho battuto pure il leader dei papà. Sono soddisfazioni.
Pranziamo tardi. Come la cena, molto contingentato. Nonna lo diceva sempre “alzarsi da tavola con un po’ di appetito è un buon segno”. Il risottino ai frutti di mare buono anche se in formato nouvelle cuisine e una seppiolina grigliata ciascuno, ormai fredda. Bene. Niente paura nonna. L’appetito rimane. Il coupon parla chiaro. Meglio così. Detesto quei grandi buffet da villaggio, sei primi, otto secondi, dolci a volontà, valanghe di cibo messo nei piatti e lasciato sui tavoli nemmeno assaggiato. Maleducata opulenza, apparente abbondanza a suggellare, il trionfo della quantità sulla qualità, della forma sulla sostanza, degli abiti sui corpi.
Ripartiamo. Il pullman è più quieto. I padri sonnecchiano, tranne gli irriducibili simpaticoni. Le madri tengono duro, e analizzano il programma didattico dell’anno successivo, ideando percorsi culturali, partecipazioni a progetti europei sull’alimentazione, laboratori di teatro e di scienze sperimentali, oltre che un orto didattico e un allevamento di pesciolini. Ma anche pomeriggi al cinema, campi estivi, campeggi di gruppo e cene a tema!
Sui monitor proiettano L’era glaciale 5, che ipnotizza tutti i passeggeri sotto il metro e quaranta, che se ne rimangono zitti con tanti saluti all’integrazione. Ai pochi non interessati vengono generosamente distribuite nintendo, tablet e psp3. Solo i figli di Mara hanno la psp 4 e godono di un piccolo pubblico attorno, che li ammira e, forse, li invidia.
Con una manovra tattica, nemmeno troppo evidente, mi siedo vicino a Marianna. Il viaggio diventa piacevole. Ricordi di scuola, compagni, chiacchieriamo a lungo. Ci raccontiamo le nostre vite, quaranta anni in due ore. Sei pure simpatica. Dobbiamo vederci, magari una rimpatriata con tutti quelli della scuola elementare. Sì ma senza famiglie, sennò poi ci tocca farle integrare. Nel frattempo comunque ci diamo l’amicizia.
Sera. Casa. Trentasette e mezzo. Lo sentivo. Commenti coniugali sulla giornata.
Alza il sopracciglio. “…e perché sei stato tutto il tempo in pullman a parlare con quella, la mamma di Maria Alessandra Rossi? Dici che ti secca chiacchierare, che ti sono tutti antipatici. Che avevate da dirvi tutto il tempo?”
Niente di particolare dico. Cercavo solo di integrarmi.
Divertente. Hai reso bene l’idea delle traversie che deve affrontare per il bene dei figli un cittadino normale , con le proprie idee e i propri gusti, non necessariamente conformi a quelli più diffusi oggi.
Nicola,
la gita alla “italiota” che hai scelto per mettere in luce la mediocrità e pochezza di molti modelli che caratterizzano il mondo d’oggi funziona alla grande.
Ne dico solo alcuni: il coupon (fantastico il passaggio “dopo averti carezzato con languide suggestioni, ti ricordano che hai pur sempre comprato il weekend in offerta e quindi non hai diritto a tutto. Anzi”), i classici stereotipi della serata di gruppo in stile “azienda fantozziana”, la ripartizione preconfezionata di ruoli tra madre e padre nell’organigramma di classe.
Il tutto, condito con una scelta stilistica d’impatto ed ironica, proprio per questo adattissima al tema.
La frase finale, poi, è un colpo da maestro :-).
Bravissimo.
Bellissimo Nicola! Con grandissimo spirito rovesci tutta una serie di punti di vista: fai vedere padri che quasi quasi vorrebbero ribellarsi ai figli, illustri un mondo di adulti dove le regole del “branco” sono ancora più forti che tra i bambini. Il racconto è scritto benissimo e ha un ritmo invidiabile. Bravo!
Grazie Lorenzo e grazie Giada, sono lusingato dai vostri commenti soprattutto perché avete colto in pieno il messaggio del mio racconto. Grazie.